“Preludio alla follia” di Daniela Di Benedetto

Saggistica breve. Letteratura

Distorsioni percettive di una scrittrice. ‘Preludio alla follia’ di Daniela Di Benedetto, Pietro Vittorietti Edizioni

”Tutto andava come doveva andare”. E’ l’incipit spiazzante del romanzo Preludio alla follia di Daniela Di Benedetto, autrice palermitana alla sua ventesima pubblicazione, edito da Pietro Vittorietti. E’ spiazzante perché la rassegnata quiete che vi si avverte o, come si capirà subito dopo, la presa di coscienza di una vita nuova che comincia a cinquantacinque anni per la protagonista Lisa, avviene nel giorno del funerale della propria madre. La morte della madre, a qualunque età avvenga e in qualsiasi condizione, dovrebbe sempre rappresentare un evento traumatico perché va a recidere le radici, sia che esse siano state immerse in torba scadente senza principi nutritivi vitali sia che abbiano tratto linfa corroborante da un terreno fertile. In Lisa, invece, nessuna lacerazione visibile e quelle lacrime che tutti si aspettano non hanno nessuna voglia di sgorgare.

Il lutto in lei si è già compiuto molto tempo addietro, quando la coscienza della propria “diversità” – racchiusa in un altissimo quoziente intellettivo accompagnato da una sostanziale incapacità empatica e da un fastidio epidermico per situazioni ai limiti della normalità – le ha consegnato la capacità di vedere oltre la superficie delle cose e la consapevolezza di una vita destinata ad essere difficile e in permanente urto con le convenzioni e i doveri sociali. Un dono e una condanna, a seconda dei punti di vista, ma il primo si perderà tra i rivoli di un’esistenza in cui le passioni dovranno farsi spazio a spallate per sopravvivere e per restituire senso a ciò che ai suoi occhi appare incomprensibile e assurdo. Quali passioni, dunque, bruceranno senza fine nell’animo della bella, ombrosa e ferocemente sarcastica Lisa? Quella per un uomo, al quale resterà fedele come amante quasi casta fino alla morte di lui, e quella per la scrittura, alla quale si aggrapperà in un’operazione salvifica di scavo e di recupero memoriale o di immaginazione sbrigliata nella quale costruire con vulcanica energia altri mondi percorribili dai personaggi usciti dalla sua penna.

Senza tanti giri di parole la Di Benedetto instaura subito una relazione ben precisa tra se stessa e la protagonista, definita alter ego, che talvolta si esprime in prima persona (in un evidente corsivo) mettendo a nudo sensazioni, riflessioni e commenti, mentre per la maggior parte della storia compare dietro un narratore eterodiegetico che, attraverso la focalizzazione interna, ne restituisce sempre e comunque il punto di vista.

La narrazione semplice, fluida e scorrevole sotto il profilo linguistico, gioca ambiguamente con il lettore, suggerendogli in modo esplicito che quella vita sofferta è sì del personaggio chiamato Lisa ma è anche dell’autrice, in ciò seguendo una consuetudine che oggi attraversa molta produzione contemporanea, attecchita in particolare anche a Palermo, da Alajmo ad Enia giusto per citare i più recenti e notevoli esempi. Si allude al disvelamento del sé ferito come modalità terapeutica e come consegna intima e impudica della propria parte dolente al lettore che voglia accoglierla e farsene depositario. Talvolta la Di Benedetto cede ad una tentazione diaristica che smorza il respiro alle sue pagine tra le quali fanno capolino certi indugi narcisistici, mentre in più occasioni emerge una notevole capacità di autoanalisi.

Risulta particolare il metodo utilizzato per il trattamento del tempo – molto più ampio quello della storia rispetto a quello della narrazione – dettato certamente da una scelta di stile, ma la sensazione è quella di una compressione dei fatti narrati che sacrifica ampiezza e spessore per privilegiare invece l’inserimento di piccoli aneddoti ed improvvise digressioni. Anche l’uso frequentissimo dei flashback, che trasportano il personaggio con rapidi passaggi e in ordine sparso nelle diverse fasi della vita, se da una parte concede dinamicità al racconto dall’altra crea un certo disorientamento nel lettore che deve soffermarsi un momento sulle date per rientrare nei tempi giusti della storia.

Il personaggio o se vogliamo l’autrice – basta scegliere a quale affezionarsi di più – analizza sin dalle prime pagine i traumi che l’hanno depositata, stanca ed avvilita, sul ciglio di una vita dentro la quale sembra muoversi da estranea, così come da ospite si è mossa nella grande casa dei genitori: una stenosi del collo uterino che rende il ciclo mestruale simile ad un incubo, rumori condominiali che le impediscono di dormire, un lavoro da insegnante che trova avvilente e frustrante, un tumore alla tiroide da stress, la morte degli unici uomini che abbia mai amato incondizionatamente – il padre amorevole e premuroso e il brillante amante già sposato con un’altra donna (un po’ padre anche lui, per via dei tanti anni in più, in un evidente complesso edipico) – la convivenza con una madre ostile e insopportabile, le disavventure mediche e ospedaliere, quest’ultime duri atti di accusa nei confronti di un sistema sanitario, pubblico e privato, che non si occupa minimamente del benessere dei pazienti e che dispensa farmaci in maniera dissennata come panacee buone per tutte le stagioni. Ma quella vita che avverte con prepotenza e che le ruggisce dentro ancora incompiuta la rende vestale della scrittura, unica divinità cui votare ogni scelta ed ogni sforzo, nonostante i capricci e le lungaggini degli editori. Così, niente marito, come si auspicherebbe la madre angosciata da un patrimonio destinato a restare senza eredi, niente figli, che ruberebbero tutto il tempo libero, e uno sguardo livido – spesso baciato da guizzi di ironia – da posare sul mondo che le appare capovolto nei valori e nei più banali meccanismi di funzionamento. In compenso qualche amicizia sincera, l’affetto di una zia e di una cugina prematuramente scomparsa, un adorato Dolcepapà e un gatto, fulcro esistenziale e coprotagonista che condizionerà azioni e decisioni senza che questo venga avvertito come un sacrificio.

A ben guardare nulla di veramente eclatante se rapportato alla soglia di tolleranza comune, in fondo tutti sono attraversati da piccole e grandi gioie e da piccoli e grandi dolori, ma la visione della protagonista apre una finestra sulla depressione e sulla distorsione operata da una patologia neurologica di base (una larvata sindrome di Asperger) che trasfigura situazioni e percezioni collocandole in un’atmosfera di eccezionalità che non sempre il lettore può riconoscere come tale. Un percorso per certi versi simile a quello compiuto da Gail Honeyman in Eleanor Oliphant sta benissimo con il quale Preludio alla follia condivide la difficoltà di leggere certe dinamiche relazionali e la presenza di una madre ingombrante che in qualche modo altera la percezione di sé.

Il processo di identificazione appare allora più immediato in certe pulsioni inesprimibili che la maschera sociale impone di controllare e di reprimere, in certe sensazioni che albergano nell’animo umano come patrimonio comune al quale non è possibile aprire un varco liberatorio.

Non mancano le situazioni leggere in questo romanzo breve, anzi se ne trovano parecchie nel continuo ondeggiare tra presente e passato che ricostruisce i tasselli fondamentali dell’infanzia e della giovinezza, epoche in cui le possibilità di sopravvivenza sembravano infinite e praticabili, e quelli dell’età matura, in cui la disillusione e la stanchezza assumono le sembianze di una pericolosa depressione, malattia di proporzioni sempre più ampie sulla quale l’autrice si sofferma come se volesse mettere in guardia il lettore per fornirgli strumenti utili al suo riconoscimento e al suo devastante potenziale.

Che prima o poi si scatenerà l’uragano della follia è chiaro sin dal titolo, ma l’evento è continuamente procrastinato, perché il lettore deve sentire l’esasperazione della protagonista giungere all’apice e frattanto congetturare su chi ne resterà vittima e per quale motivo, quindi ovviamente non staremo qui a fare rivelazioni inopportune.

Sarebbe bello alla fine immaginare di sentire la risatina lieve dell’autrice che strizza un occhio e sussurra: “Ci hai creduto? Era tutto un gioco!”, ma di certo l’epilogo vuole invece mantenere un carattere di assoluta drammaticità attraverso una riflessione su quanto la follia non sia affatto straordinaria e immediatamente percepibile, riflessione che l’autrice aveva già effettuato nel recente Tre gesti di ordinaria follia edito da Tabula Fati.

E la madre tiranna? Alla fine è soltanto una vecchietta affetta da demenza con la quale l’autrice e la protagonista, dopo la morte, possono riappacificarsi, senza rancore.

Daniela Di Benedetto

Preludio alla follia

Pietro Vittorietti Edizioni

pp.184, € 12.00

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/28/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

anche su www.articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/03/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

Melancolia della resistenza di L. Krasznahorkai

Saggistica breve. Letteratura

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

 

Dev’essere una fissa della letteratura dei paesi europei centro-orientali quella dei personaggi strambi al limite dell’alienazione o della follia, quella delle storie in bilico tra la più abbrutente solitudine e i grandi sogni impossibili. Basterebbe scomodare autori quali i cechi Hrabal o Haŝek per averne conferma, ma la lettura di Melancolia

della resistenza dell’ungherese László Krasznahorkai, pur vicino nello spirito e nella caratteristiche essenziali agli autori citati, se ne distacca per la totale assenza di ironia che viene sostituita da una visione più cupa e disperata dell’agire umano.

Ripubblicato a distanza di cinque anni (la prima edizione italiana era della scomparsa casa editrice Zandonai) da Bompiani, il romanzo è ambientato in una piccola cittadina ungherese, sulla quale l’autore preferisce mantenere l’anonimato pur inserendo alcune coordinate che potrebbero facilitarne l’identificazione, al fine di rendere subito evidente e forte la valenza metaforica che potrebbe assumere la vicenda. Nello srotolare le microstorie dei tanti abitanti, Krasznahorkai utilizza una tecnica che potremmo definire “a staffetta”, perché la storia avanza e progredisce nel momento in cui il personaggio coinvolto porge il testimone al prossimo personaggio del quale il narratore seguirà la corsa o il pantano immobile, le emozioni segrete o gli avidi istinti.

La recente proliferazione di romanzi distopici – tra i quali Melancolia della resistenza si inserisce a pieno titolo – segnala con chiarezza una condizione di tentata e mancata resistenza ad una società civile – o forse è più opportuno dire incivile – nella quale non ci si riconosce più. Il cambio di guardia prospettato da Krasznahorkai non veste i panni del nuovo, ma sembra sprofondare negli anni bui dell’ordine costituito – dall’alto e senza possibilità di confronto – e dell’asservimento brutale ai cinici di professione, ai rampanti ammannitori di improbabili banchetti populisti. Se teniamo conto del fatto che il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1989, l’autore si mostra critico tanto nei confronti dell’agonizzante comunismo ungherese, che avrebbe ridotto il paese in un luogo malsano dominato da paure indefinite, sia nei confronti degli eventuali “nuovi manovratori” che spacciano l’ordine come il più prezioso dei beni conseguibili e complottano – immolando il solito capro espiatorio – per crearsi una credibilità politica e sociale a buon prezzo. Nel solco aperto nella fase del cambiamento, si insinua un grottesco circo che espone una gigantesca balena imbalsamata e che, pare, si porti dietro un seguito di facinorosi e violenti personaggi che si abbandona a violenze tanto inaudite quanto gratuite. Pur senza essere regale e minacciosa come la bianca Moby Dick, anche intorno a questa balena si coagula un universo di paure e speranze, di sensazioni contraddittorie e spiazzanti. Il giovane postino Valuska vi scorge una bellezza magnetica che cattura lo sguardo e lo immobilizza nell’atto del guardare, gli altri invece ne avvertono un sentore di marcio e di decomposizione, un’attrazione perversa che istiga alla violenza.

E’ un romanzo strano e allucinato, che afferra e risucchia per qualche pagina per poi respingere in modo molesto, come nella lunghissima tirata del vecchio Eszeter, intellettuale e musicista, che attraverso il semplice atto di attaccare un chiodo trova la quintessenza di una personalissima filosofia: egli decide di far cambiare rotta alla sua stanca vita, con un’ulteriore chiusura al mondo esterno e una patologica apertura empatica al giovane mezzo matto, Valuska, cui vanno per intero anche le simpatie del lettore, l’unico personaggio – tra squali e opportunisti di professione – che conservi ancora la capacità di stupirsi e di scorgere ed apprezzare il bello anche dove non ce ne sarebbe neanche l’ombra.

Che da un romanzo tanto immaginifico e visionario si potesse trarre un film altrettanto denso di immagini e situazioni simboliche era persino troppo ovvio. E’ del 2000, infatti, il suggestivo Le armonie di Werckmeister, sceneggiato dallo stesso Krasznahorkai e dal regista Béla Tarr, il cui titolo rimanda al musicista tedesco noto per un tipo particolare di accordatura che, nel romanzo, rappresenta l’obiettivo degli inani studi del vecchio Eszeter, coniuge tradito e abbandonato a se stesso della spregiudicata donna che prenderà, insieme con un sinistro e compiacente generale, le redini del potere nella cittadina ormai giunta al collasso definitivo. Nel romanzo, come nel film, i due personaggi chiave del sognatore Valuska e del musicista Eszeter hanno un ruolo privilegiato, essi sono i depositari della tentata malinconica resistenza al male, ma il loro approccio con la realtà è troppo astratto e utopico, non può attecchire nessun sogno nel terreno solcato da cadaveri e immondizia in cui la sorte li ha posti a vivere. Sono perdenti, eroi e martiri, l’uno con lo sguardo perennemente in alto nella stupita osservazione del cosmo, l’altro sedotto dal richiamo dell’armonia cercata nelle note e nella purezza dei rapporti umani.

Durante la lettura potrà capitare di odiare certe complicazioni linguistiche e certe estenuanti lentezze, ma alla fine, anche a distanza di mesi, qualcosa rimane pervicacemente attaccato alla memoria, qualcosa di indefinibile che possiede un retrogusto malinconico e inquietante.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/22/la-balena-imbalsamata-di-krasznahorkai-melancolia-della-resistenza-ed-bompiani/

pubblicato anche su www.articolo.21.org

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La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani