“Tesnota” di K. Balagov

Saggistica breve. Cinema

Prigionie reali e narrative di una famiglia. ‘Tesnota’ di Kantemir Balagov, al cinema dal 1° agosto

 di Agata Motta 28-07-2019

Kantemir Balagov, giovane regista russo del Caucaso del Nord, studi di Economia e Legge messi da parte per inseguire prima la passione per la fotografia e poi quella per il cinema, con Tesnota (premiato a Cannes nel 2017 con il premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard e, l’anno successivo, al Festival Premiers Plans d’Angers) è al suo primo lungometraggio, ma dimostra già di avere idee chiare in fatto di stile. Formatosi presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – Leone d’oro a Venezia, nel 2010, per Faust ma già noto per la Trilogia sul potere – Balagov racconta la storia (sceneggiatura scritta a quattro mani con Anton Yarush), in gran parte vera perché ispirata ad un fatto di cronaca, del rapimento di una giovanissima coppia di fidanzati prossimi alle nozze e dei risvolti affettivi ed emotivi prodotti sulle famiglie, e solo marginalmente sui rapiti, chiamate a pagare un riscatto proibitivo per le reali condizioni economiche delle classi sociali di appartenenza.

Tempo e luogo sono immediatamente dichiarati nelle didascalie iniziali – 1998, Nalchik, Caucaso del Nord, Russia – per consentire la corretta contestualizzazione di una vicenda che riprende il filo mai interrotto della diaspora ebraica e della convivenza di etnie, lingue e religioni diverse su territori ambiguamente stretti tra un passato di sottomissione e un presente di autonomia e pericolosamente vicini alle aree interessate dai conflitti ceceni. Le famiglie in questione appartengono alla comunità ebraica che predilige una condivisione collettiva di ciò che accade ai propri membri e uno spirito di appartenenza tanto forte da apparire all’esterno esclusivo e fatalmente chiuso e iperprotettivo. Emerge subito con evidenza la decisione di non coinvolgere la polizia, decisione non condivisa da Ilana, sorella maggiore del rapito David e vera protagonista del film, e di procedere con una raccolta di denaro volta al raggiungimento della somma richiesta. Naturalmente l’adesione alla proposta del rabbino non è unanime, in pochi sono disposti a mettere mano alla scarsella e i soldi raccolti bastano a soddisfare metà della richiesta, per cui si effettua la scelta difficile di liberare intanto la ragazza, che non ha alle spalle una famiglia allargata in grado di sostenerla. Cos’altro bisognerà fare per ottenere la salvezza di entrambi? E cosa invece non si è disposti a fare?

Eccoci dunque al nucleo sul quale l’autore ha scelto di scavare non tanto con lo strumento immediato delle parole, distillate ed essenziali, ma con quello più sofisticato e paradossalmente più semplice dell’uso degli strumenti tecnici a sua disposizione. Ognuno soffre a suo modo, questa verità è esposta con efficacia nelle scarne battute dei dialoghi e soprattutto nei volti, sui quali i primissimi piani indugiano alla ricerca delle minime variazioni espressive: dalle emozioni rabbiose ma mai urlate di Ileana – una sorprendente Darya Zhovner che si rivela giusta, spontanea e a tratti magnetica nella caparbia determinazione, purtroppo fallimentare, a non lasciarsi sopraffare e distruggere dalle circostanze – a quelle compresse ma non domate superbamente restituite da Olga Dragunova, mater dolorosa che impone al marito e alla figlia il prezzo altissimo del suo amore per David.

I personaggi sono chiusi in una trappola che sembra senza uscita, braccati dalla macchina da presa che li costringe in “inquadrature limite” – accentuate dalla definizione del quadro in rapporto 4:3 (1,33) – dentro le quali non rientrano interamente, dai cui margini debordano, come se l’evasione dalla prigionia narrativa comportasse di conseguenza l’uscita dalla porzione di spazio rappresentato. Se si escludono gli indugi sugli esterni desolati e bui, esposti agli occhi dello spettatore attraverso il mix delle luci dei lampioni e di quelle del fascio dei fari della macchina, il ricorso frequente agli stacchi, magari per semplici cambi di angolazioni, e quello raro al récadrage limitano i movimenti della macchina da presa, mentre la concessione ad un tempo di lettura delle immagini più lungo, quasi a voler rallentare anche il ritmo della narrazione, consente la possibilità di un tempo di riflessione che non produce empatia ma distacco oggettivo. Nella gestione personale del montaggio, che talvolta trasmette il nervosismo e le lacerazioni di Ilana e altre la lentezza esasperante delle azioni che devono essere compiute, Balagov può definire e sigillare le proprie scelte stilistiche per le quali si dichiara debitore alla Nouvelle Vague e al cinema russo del disgelo, almeno per ciò che concerne stimoli e sollecitazioni.

Nella disperata ricerca di una soluzione, c’è chi approfitta della situazione per compiere un’azione di sciacallaggio ed acquistare a prezzo stracciato l’officina che dà lavoro e sostentamento alla famiglia del ragazzo e che si configura come luogo di realizzazione professionale e umana per Ilana, che vi coltiva la passione per i motori e la fiduciosa vicinanza con il padre. In questa della vendita, che si porge come una delle scene chiave, si conferma la capacità del regista di usare le luci come vero e proprio vettore di senso: gli occhi in ombra ed il resto del viso rischiarato dalla luce spiovente dell’abat-jour. Questo tipo di illuminazione, che crea effetti di chiaroscuro giocato sulle contrapposizioni, è già presente sin dalle prime sequenze, diviene cifra stilistica e contribuisce ad accentuare la drammaticità delle decisioni che i personaggi sono chiamati di volta in volta a prendere.

Il rapporto di Ilana con i membri della sua famiglia è sviscerato attraverso dense sequenze, da quello con la madre, raffreddato dalla rigidità e dall’intransigenza materna e soprattutto dallo squilibrio affettivo per il figlio minore, a quello con il padre tenero e comprensivo (Artem Tsypin, perfetto nel difficile ruolo di un uomo che, pur amando entrambi i figli, sente di dover assecondare la volontà della moglie che in qualche modo si trasforma in legge morale), da quello con il fratello (Veniamin Kats, attore non professionista che punta sugli aspetti più infantili del suo personaggio) posto immediatamente sul piano di una complicità che si esplica nella condivisione di piccole trasgressioni e intime confidenze, a quello con Zelim (un Nazir Zhukov un po’ opaco rispetto agli altri interpreti ) nel ruolo di un ragazzo cabardo lontano dalle esaltazioni politiche di alcuni dei suoi amici e diffidente nei confronti dell’estremismo musulmano, mostrato in un lungo e atroce frammento di documentario, girato in un villaggio del Daghestan, davvero indigesto e difficile da reggere. Il personaggio di Zelim appare quindi più funzionale alla comprensione complessiva della storia che necessario, sia perché porterà la ragazza a rifiutare un matrimonio combinato e risolutivo sul piano della somma da consegnare ai sequestratori, sia per ciò che significa la possibilità di sfuggire alle convenzioni e ai dettami morali in quel lembo di terra in cui, a detta dello stesso regista, ad accomunare ebrei e cabardi sono il senso dell’onore e il rispetto delle tradizioni.

La luce quasi suggerita nel film, come suggerite appaiono le voci in presa diretta, vira velocemente verso cromatismi accentuati di impronta pittorica nelle scene finali, girate in esterno e impregnate in successione del verde e del giallo filtrato dai finestrini dell’automobile e dell’azzurro implacabile del cielo che domina assorto sulle periferie di Nalchik e sulle aguzze cime caucasiche mostrate attraverso una soggettiva corale in coincidenza con lo sguardo degli esuli.

La nuova diaspora conduce via il nucleo familiare monco di una parte essenziale, David, il figlio amato che sceglie di restare con la futura moglie. Non può esserci futuro per chi ha infranto i codici d’onore. Il sangue della verginità di Ilana, ceduta al ragazzo amato nella luce rossastra di un magazzino senza alcuna poesia e trasporto, tributo necessario alla negazione di un matrimonio imposto, ha precluso la possibilità di un nuovo inizio nella stessa terra. Allora si va via, come sono andati via i padri e i padri dei padri, ma Ilana, la forte, la ribelle, non accetterà il ruolo di vittima sacrificale e neanche quello di sostituta nell’affetto materno e una nuova, stanca pietà sembra affacciarsi nel suo cuore, perché infine anche lei, come la madre, ha perso l’oggetto del suo amore.

Tesnota (Closeness in inglese o Vicinanza in italiano) uscirà in l’Italia il primo agosto, cioè nella fase culminante delle ferie estive, mentre Cannes ha già salutato con favore il secondo lungometraggio di Balagov, Beanpole, tributandogli il premio per la regia nella sezione Un certain regard.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/29/prigionie-reali-e-narrative-di-una-famiglia-tesnota-di-kantemir-balagov-al-cinema-dal-1-agosto/

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L’età straniera di M. Mander

Saggistica breve. Letteratura

Leo e la scimmietta Iwarazu. ‘L’età straniera’ di Marina Mander, Marsilio editore

di Agata Motta 22-07-2019

Vivere in una famiglia di larghe vedute non è semplice, pensa il diciassettenne Leo, “perché a forza di guardare più in là, è diventato sempre più difficile guardarsi negli occhi”. Forse quando le vedute erano ristrette e gli orizzonti più limitati era molto più semplice capire da che parte stare, il bene e il male erano poli contrapposti dai confini ben definiti, si poteva entrare in una o nell’altra delle due dimensioni dell’esistere, si dovevano soltanto compiere delle scelte, soprattutto nell’età ibrida, indigesta, spregevole dell’adolescenza, quando la direzione da imboccare non è ben segnalata e tocca giorno per giorno costruire un pezzetto di futuro, un mattoncino dopo l’altro. L’adolescenza è insomma l’età che appare fulgida e incorrotta a posteriori, quando si è costretti ad indossare il tempo trascorso con finta nonchalance.

Marina Mander con il suo L’età straniera, romanzo della dozzina finalista allo Strega pubblicato da Marsilio, entra a gamba tesa nella pelle, nei pensieri e nel linguaggio di un adolescente che vive la propria età con indolenza, ironia, lucida consapevolezza e cupi sensi di colpa, quest’ultimi affioranti nottetempo, nel tribunale speciale di un SuperIo iperattivo che gli attribuisce la colpa di delitti mai commessi e di nefandezze forse accarezzate attraverso desideri inesprimibili. La famiglia di larghe vedute di Leo, in realtà, è una famiglia ferita dal suicidio di un padre dall’intelligenza speciale, dai pensieri tanto densi da essere rumorosi, dal disagio tanto forte da non farsi bastare moglie e figlio, dall’adattamento così limitato alla “pretesa di medietà” imposta dai sani e dai normali da andare incontro all’abbraccio dolce e mortifero del mare senza dubbi ed esitazioni. A Leo resta in eredità la sensazione di non averlo salvato, di essersi riaddormentato proprio mentre il padre moriva, il sonno giusto del bambino sereno contro il sonno eterno dell’uomo che non poteva concepire altre razionalità diverse da quelle numeriche.

Alla madre invece restano addosso un’inesausta voglia di vita e il desiderio a tratti anomalo e quasi patologico di salvare vite spezzate, per lavoro – è un’assistente sociale – e soprattutto per vocazione. Un robusto tassista si è frattanto infilato nel suo letto, non tenta nemmeno di sostituire un padre inarrivabile, gli basta quella donna così com’è, con i suoi entusiasmi e le sue certezze e le sue ampie vedute. Lo sguardo attento e sensibilissimo nei confronti dei reietti e dei disperati diventa però superficiale e sfocato nei confronti del figlio, al quale nemmeno chiede il permesso, quando decide di portarsi a casa Florin, un giovane rumeno costretto a prostituirsi che rifiuta palesemente di imparare l’italiano, forse perché le parole necessarie alla comunicazione gli restituiscono sotto il palato il sapore del tradimento, della disillusione, dell’inutilità di instaurare relazioni che prima o poi potrebbero rivelarsi frustrasti o peggio devastanti. Tanto, se proprio si vuole comprendere chi ci sta accanto, le parole non servono, bastano i gesti che siglano un’intesa, le intuizioni che confermano la disposizione all’ascolto.

Leo e Florin, per volontà materna, dovranno condividere stanza, pasti, tempo libero. Un tentativo di porgere la normalità al giovane rumeno che ovviamente non può giungere da chi dentro quella normalità proprio non si riconosce. L’unico punto di contatto che può esistere tra i due ragazzi è il loro essere entrambi “stranieri” al mondo circostante, quello corrotto e violento di Florin – attraversato però ad intermittenza da amicizie consolidate con altri reietti – e quello stagnante e privo degli stimoli giusti – prodotti solo dalle incessanti letture e dalla quiete delle canne talvolta fumate – di Leo. Per il resto sembrerebbe che i due ragazzi siano isole vaganti su mari lontanissimi, senza ponti o mezzi di trasporto atti a collegare vissuti troppo diversi, ma al momento opportuno scatteranno i meccanismi di solidarietà, la difesa dell’altro verrà reciprocamente esercitata nei modi che ciascuno conosce, con i mezzi di cui ciascuno dispone.

La trama è tutta qui, un vagare tra pensieri, che manifestano una sensibilità esasperata, azioni minimali e parole taciute o “atterrate in un paese sconosciuto e ostile”. L’alessitimia (incapacità di trovare parole per le emozioni) che viene incollata addosso a Leo come etichetta multiuso dai tanti terapeuti presso i quali la madre lo indirizza – in ciò solerte perché l’affidamento del figlio ad esperti le mette a posto la coscienza – si esprime proprio così, con silenzi e parole negate. La galleria degli psico-soloni – tratteggiata con quell’umorismo al vetriolo che riavvicina il lettore a certi stilemi dissacranti di Ipocondria fantastica – è gustosamente pettegola e irriverente: si passa dalla dottoressa “culona” che propina fantasie guidate, silenziosi abbracci, tentativi di rappresentazione dello scenario inconscio ed esortazioni a sane scopate alla terapia di gruppo da iniziare rigorosamente con il grido di battaglia Navajo per vocalizzare l’aggressività e da proseguire magari con un bel pianto liberatorio. E poi ancora, in rapida successione, gli psicodrammi in compagnia di manipoli di invasati che “non vedevano l’ora di buttarsi a terra in posizione fetale e con il pollice in bocca” e la proposta del buon vecchio Prozac, due pastigliette per l’acquisto della felicità a buon mercato. Ma qui la madre torna ad indossare la mise delle occasioni, quella di madre presente e assennata e decreta che di impasticcarsi proprio non si deve neanche parlare e che è meglio farsi due canne se proprio è necessario, rivelandosi in ciò una lucida e ruspante fautrice della famigerata Cannabis terapeutica.

Così la mente fervida di Leo prova a coinvolgere la scimmietta Iwazaru (il nome che ha da subito attribuito a Florin con riferimento al motto giapponese delle scimmie sagge) che gli è stata assegnata in sorte in quello che potrebbe trasformarsi in un piccolo e lucroso business con ruoli ben precisi, l’amministratore e il procacciatore di clienti. Naturalmente il diavolo ci mette la coda, in fondo basta bucare una ruota per impedire ai ragazzi il raggiungimento delle “verdi praterie aeroportuali” sulle quali far fiorire erba e denaro, ma il brutto è che il diavolo non si limita solo alla coda e spesso ci mette pure il resto, magari nelle sembianze che dovrebbero essere più rassicuranti, quelle di un agente di polizia giusto per dirne una, e che invece si rivelano marce e violente.

Gli incontri, le incursioni degli altri personaggi, i piccoli episodi che spezzano il flusso ininterrotto di disagio esistenziale in fondo sono semplici diversivi nella materia compatta del romanzo. I personaggi che ruotano intorno a Leo sono coerentemente percepiti con quella visione limitata, che pretende di assere assoluta, tipica dell’età, per cui degli adulti sono soltanto intuite le debolezze e i dolori, mentre appaiono sovrastanti quelle contraddizioni e quelle leggerezze che sembrano inspiegabili ed ingiustificabili agli occhi del ragazzo che si smarrisce di fronte alla constatazione di non essere il centro del loro mondo, l’unico veramente degno di qualsiasi cura e attenzione. La madre è amata nonostante la sua distrazione lastricata di buoni propositi, il tassista tollerato come l’erba infestante di un giardino che non può essere sradicata, Florin vissuto come rivale nell’affetto materno, come esserino da compatire, come scafato compagno da invidiare. La punizione per i cattivi pensieri tanto si abbatterà comunque nei sogni, in quella parentesi di vita che sembra tanto autenticamente reale da essere considerata parte integrante del proprio vissuto.

“Quando non si sa bene cosa fare della propria vita si spera sempre in un incontro che possa cambiare tutto, se non sei capace di modificare le cose da solo ci dovrà pur essere qualcuno da qualche parte a traghettarti in un’età migliore.” I pensieri di Leo, che affiorano in continuazione con brucianti dubbi e con dolorose constatazioni, sono la colonna sonora del romanzo, la parte più autenticamente felice, assecondata da una scelta stilistica altrettanto giusta.

Il lessico è spericolato ma curatissimo, la sintassi allegramente aggrovigliata ma mai contorta, entrambi gli elementi devono esprimere il mondo di un adolescente svagatamente colto e profondo e lo fanno con espressioni spiazzanti e accostamenti di termini dai quali traspare l’attenzione estrema per un linguaggio da addomesticare al fine di mantenerlo selvaggio (perché anche l’apatia negli adolescenti riesce ad essere tale) e di renderlo funzionale ai contenuti. La scrittura mimetica adottata dalla Mander riproduce con naturalezza quel mondo, come se ne facesse parte integrante, come se fosse il proprio alfabeto. E si tratta di una conferma, perché l’autrice triestina aveva già dato prova di questa capacità camaleontica di indossare altre pelli e di sperimentazione linguistica con La prima vera bugia.

Ma si può concludere una storia di adolescenti senza neanche accennare al sesso? Naturalmente no. A quell’età si vive il sesso come pensiero dominante, che sia quello tragicamente venduto di Florin o quello non ancora sperimentato di Leo, esso è tanto assoluto da porgersi come elemento risolutore. Bastano un semplice riconoscimento verbale (il nome della scimmietta muta Shizaru) e una bocca morbida sulla quale approdare per sciogliere dubbi e tensioni, per dare un ordine accettabile al caos esistenziale dell’età straniera. La psico-culona non aveva tutti i torti…

Marina Mander, L’età straniera, Marsilio editore, pp.206, € 16.00

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/24/leo-e-la-scimmietta-iwarazu-leta-straniera-di-marina-mander-marsilio-editore/

Brancati e la guerra

Saggistica breve. Letteratura

La guerra come rimedio contro la monotonia della vita sociale. Una prosa giovanile di Vitaliano Brancati

Vitaliano Brancati

Sul quotidiano romano “Tevere” dell’8 agosto 1930 venne presentata la prosa di Vitaliano Brancati intitolata La guerra, un insieme di considerazioni sul primo conflitto mondiale e più in generale sul valore e sul significato della guerra che, nelle intenzioni del giovane autore, doveva essere riportata in appendice al suo primo romanzo di prossima pubblicazione L’amico del vincitore.

L’inizio della prosa descrive con spietato realismo gli strazi della guerra inducendo il lettore a pregustare, dopo tale esordio, un caldo e appassionato inno alla pace e alla fratellanza. Invece, con un vero e proprio colpo di scena, il giovane Brancati prosegue in direzione del tutto opposta.

La guerra è necessaria, secondo l’autore, perché amplifica al massimo le sensazioni. E per essere più incisivo prospetta minuziosamente agli occhi del lettore la differente qualità della giornata del borghese e quella del soldato: entrambi seguono una trafila quasi uguale di trepidazioni e di soddisfazioni, solo che nella giornata del soldato non c’è spazio per la noia e il torpore e le stesse sensazioni subiscono una fortissima dilatazione. Certo, il soldato affronta la morte, ma essa è un ignoto che potrebbe essere tanto brutto quanto bello. Anche il fatto che durante la guerra si vivano sensazioni spaventose al limite della sopportazione non è negativo per lo spirito umano che ha bisogno di “spezzare tutto il ghiaccio di abitudini pigre, di materialità sorda, di sonnolenza che la vita sociale ha accumulato”.

Con la questione delle “presunte” responsabilità, Brancati si riallaccia ad uno dei punti nevralgici del dibattito del dopoguerra, dibattito che a distanza di anni forniva sostanzialmente due immagini del conflitto: una ufficiale, epica e gratificante, l’altra critica e insistente sugli altissimi costi umani dell’impresa.

L’autore sostiene che per un evento tanto grandioso sia impossibile e fuorviante cercare singole responsabilità, perché tutti indistintamente vollero la guerra, anche coloro che avevano paura. Alla fine a restare intatto nei secoli non sarà il ricordo delle morti atroci ma l’esito della guerra come “forma eterna e assoluzione”.

Gabriele D’Annunzio, 12 settembre 1919

Prevenendo una possibile obiezione, l’autore si chiede come possa accordarsi la fede in Dio, che aveva appena affermato di possedere, con l’idea della guerra. Il giovane Brancati liquida la questione con una pretestuosa scappatoia di personalissimo conio: Dio non vuole la guerra, ma riguardo queste piccole cose lascia agli uomini la più assoluta libertà; per Lui è importante solo essere ricordato anche nella forma capovolta della bestemmia. E ancora l’autore sostiene che nell’uomo coesistono due aspetti: uno mondano che spinge a pensare e ad agire e uno eterno e immutabile che si bea della contemplazione del Creatore. Pertanto tutti gli affanni della vita sono solo uno scherzo se posti a raffronto con questa parte eterna e felice dello spirito umano.

Il giovane Brancati si trovava allora in una fase particolare della propria vita in cui sentiva fortemente la necessità di credere in qualcosa e di lasciare naufragare nella fede i suoi dubbi. Fede in Dio naturalmente, alimentata da quella parte della sua anima fiduciosa nell’entità metafisica, ma anche fede nell’Uomo (Mussolini in questo caso) che con la sua forza e volontà potesse supplire alle manchevolezze individuali. E’ infatti condotta su un registro mussoliniano (nel ’30 non era ancora esplosa la coscienza antifascista del Brancati maturo) la sua esaltazione della guerra “parola mostruosa e fascinatrice” e su un registro vagamente dannunziano (quel D’Annunzio poi tanto deplorato!) per quell’amplificarsi a dismisura delle sensazioni. La guerra assurge nel suo scritto ad entità metastorica mediante la quale esaltare la parte mondana dell’uomo fino ad assumere anche una dimensione ludica.

Brancati non pensava, come i nazionalisti, che bisognasse combattere per l’Italia esasperando il patriottismo in parossistico bisogno di espansione territoriale e volontà di potenza, non vi cercava una soluzione a livello esistenziale, come Serra e Borgese, né l’esplosione terribile e magnifica di uno spettacolo orgiastico di istinti e modernità come Marinetti, né il bagno caldo di sangue e l’operazione malthusiana che Papini sbandierava con cinismo, né ancora il male necessario, “la guerra che uccida la guerra” di Salvemini. Per Brancati combattere significava spezzare la monotonia di quella vita sociale “tragica, pericolosa e insopportabile”, significava sentire dentro sé “il fremito dell’umanità giovane e barbarica”. E’ un gioco, appunto, con il quale esaltare al massimo grado le sensazioni e dal quale è possibile distaccarsi rifugiandosi nella parte eterna e felice dello spirito. Punto di vista quasi adolescenziale ma necessario per staccarsi con una presunta originalità dal “già detto”.

La prosa non fu inserita, come era stato preannunciato, alla fine del romanzo, edito poi nel ’32. Probabilmente era bastato quel breve lasso di tempo perché Brancati avvertisse l’ambiguità della collocazione di quella prosa alla fine del suo romanzo L’amico del vincitore: una vicenda amara che ha come protagonista il bambino prodigio e poi studente modello Pietro Dellini, un perdente roso dal dubbio della propria mediocrità, uno dei tanti “inetti” della nutrita galleria novecentesca, sconfitto per il fatto stesso di essere stato “amico del vincitore”, nel quale è adombrata la figura di Mussolini, l’uomo che animerà la dittatura sulla quale il Brancati maturo riverserà la sua più sferzante ironia.

Dovevano passare ancora molti anni prima che la scrittura di questo grandissimo autore, molto noto ai contemporanei ma purtroppo oggi poco letto e ricordato, giungesse alle magnifiche vette espressive dei capolavori.

Il suo romanzo giovanile resta un semplice esercizio di scrittura, lo specchio riflettente stati d’animo e aspirazioni di un giovane stregato, come tanti, dalla seduttiva immagine fascista di potenza fisica e verbale. Nonostante questo, le simpatie del lettore vanno indiscutibilmente al “perdente”, al ragazzo dal fine intelletto che si contrappone all’antagonista compiaciuto della propria forza e del proprio coraggio incosciente. Già nel titolo, in fondo, lui stesso si era schierato e Pietro Dellini si porgeva come il proprio riconoscibilissimo alter ego.

Quella dimensione ludica della guerra, tanto esaltata nella prosa esaminata, in fondo non gli calzava a pennello e, nonostante l’assidua frequentazione della sala di scherma (disciplina di moda, certamente, ma anche propedeutica per eventuali duelli), la sua aggressività doveva restare confinata alla forma, non certo alla sostanza.

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Brancati e l’universo femminile

Saggistica breve. Letteratura.

L’eterno femminino della Bambola. Vitaliano Brancati e i suoi personaggi

di Agata Motta 09-07-2019

Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni ne ‘Il bell’Antonio’ di Mauro Bolognini, 1960

Quello dell’universo femminile nella narrativa di Vitaliano Brancati, l’autore de Il bell’Antonio, è un capitolo arduo e affascinante che val la pena affrontare per comprendere a fondo lo spirito, gli umori, le fobie proprie del grande narratore siciliano.

Percorrendo un itinerario che attinge anche alla biografia dell’autore – perché uomo e artista interagirono sempre – è possibile ricomporre le tessere sparse del grande mosaico, raffigurante sembianze femminili, al quale la sua opera ci riporta di continuo.

In effetti, se escludiamo brevi bozzetti, Brancati non ha reso quasi mai la donna protagonista esclusiva della sua narrativa; si cura poco dei suoi stati d’animo e dei suoi moti psicologici e ne fa descrizioni sfumate o addirittura insulse, mentre di personaggi maschili sono ridondanti le sue pagine. Uomini contorti, con sprazzi di genialità, assillati, irrequieti, accidiosi; uomini ai quali dedica le sue analisi più sottili e i suoi esercizi introspettivi più acuti con uno scrupolo che ha il sapore di un inconscio esame di coscienza. Ciò malgrado la sua opera trasuda femminilità: caviglie appena intraviste, bocche sezionate attraverso uno spioncino, bagliori rosati di carne occhieggianti dagli indumenti. Lo spirito muliebre, la conturbante fisicità della donna aleggiano prepotentemente anche nell’assenza, come il profumo di un fiore che a distanza di ore esala ancora in un ambiente per il solo fatto di esserci stato.

La donna che vive nelle sue pagine è una creatura che suscita sensazioni e impulsi ambivalenti: può, infatti, incarnare di volta in volta l’oggetto del desiderio o la spinta alla catarsi, il giocattolo con cui trastullarsi o l’immaginetta da santificare, in una riproposta moderna della dicotomica immagine medievale o in un confuso altalenare tra vecchie e nuove istanze. Sempre, però, neutra. Come se non brillasse di luce propria ma del riflesso di ciò che provoca negli uomini.

La galleria dei personaggi utili alla conferma di quanto detto potrebbe essere lunga, ma bastano pochi ritratti esemplari per ribadire il concetto, come quello di Barbara Puglisi (impossibile non riportare alla memoria il volto splendido di Claudia Cardinale scelta, nel 1960, da Mauro Bolognini per quel ruolo accanto al grande Marcello Mastroianni), la bella e fredda moglie del Bell’Antonio, eterea e incapace di nutrire sentimenti autonomi e liberi da risvolti moraleggianti o dall’influsso degli interessi imposti dalla famiglia. La ragazza è quasi un burattino manovrato dall’alto che imbriglia però nei suoi rigidi fili l’uomo che da lei sperava salvezza per la propria vergognosa impotenza o quantomeno devota e casta comprensione. O ancora la Beatrice Banchedi di Paolo il caldo, donna matura che ama crogiolarsi in strani nomignoli, quali Conocchia o Regnante, epiteti che alludono chiaramente al suo aspetto e ai suoi trascorsi sessuali; trascorsi dei quali raccatta ancora la gloria, respirandone l’odore ormai stantio, ma vivo quanto basta per allontanare lo spettro di un corpo in decadenza.

Comunque questa donna, oggetto o vittima, domina incontrastata l’universo maschile e ne polarizza gli interessi, condizionandone le azioni e incatenandone la fantasia e l’intelletto.

Ecco cosa dice in una conferenza il Professor Prampolini, personaggio che compare nei Racconti degli anni difficili: ”Voi donne possedete la superficialità che non ha soltanto il beato compito di non comprendere, ma ha anche quello di smorzare, di attutire, di snervare, quasi, le idee troppo dolorose e dispotiche… è un’opera altamente umanitaria quella di spargere una sottile e ristorante imbecillità nel mondo”. Parole agghiaccianti, ma assai efficaci per esprimere un sentire all’epoca comune. Anche la grottesca conclusione del Bell’Antonio – in cui il protagonista confessa al cugino, infervorato in discorsi idealistici, di aver sognato finalmente un amplesso giunto alla naturale conclusione – ci riporta all’ossessione della donna (da possedere sessualmente o da dominare psicologicamente) che si impone, in una paradossale e imbarazzante priorità, sulle sorti dei popoli in guerra.

Molta critica ha voluto riscontrare nell’opera di Brancati una forte componente misogina, e in questa direzione è possibile agevolmente spingersi senza timore di essere contraddetti. Sarebbe, però, un modello riduttivo, una liquidazione sommaria del pensiero di un autore brillante che probabilmente non avrebbe accettato e approvato questo giudizio su di sé. A ben guardare l’ironia, che spesso affiora per ridicolizzare certi atteggiamenti femminili, disinvolti o inibiti, è propria del suo modo di affrontare e di interpretare la realtà. Il sarcasmo è infatti riversato a piene mani anche sugli uomini, dei quali sono messi a nudo con occhio spietato tic, nevrosi, frustrazioni. L’umanità descritta nelle sue pagine è guardata attraverso la lente deformante di un umorismo di impianto pirandelliano, tanto più amaro quanto più larvatamente autobiografico.

Si potrebbe piuttosto parlare di irrisolto tentativo di comprendere a fondo il mondo femminile o forse di malcelato e inconscio senso di intima superiorità.

Che egli non sia stato un bigotto provinciale è dimostrato, a livello biografico, dall’aver sposato Anna Proclemer, una giovane attrice apertamente svincolata dall’atavico attaccamento al focolare domestico, riluttante ai legami definitivi e determinata ad ottenere tramite il proprio lavoro un’indipendenza economica irrinunciabile; ma che genericamente non ricevesse dalla donna un giusto equilibrio e che ne avesse una visione parziale e non sempre realistica è dimostrato, riferendoci ancora al privato, dal fallimento del suo matrimonio (Nord contro Sud in assetto bellico di amore/odio) e dalla visione romantica ed edulcorata che aveva della moglie alla quale si rivolgeva con la formula d’apertura “Santa” in sostituzione del consueto “Cara” nelle tante lettere racchiuse nell’epistolario Lettere da un matrimonio contenente scritti suoi e della Proclemer.

Anna Proclemer con Giorgio Albertazzi ne ‘La governante’ di Brancati, versione televisiva 1978

Sul piano letterario poi la casistica è infinita. I protagonisti delle sue storie non sono mai appagati dai rapporti d’amore, siano essi occasionali o duraturi, e non riescono a vivere in perfetta simbiosi con la padrona dei suoi pensieri: sostanzialmente l’uomo domina in maniera prepotente, relegando la donna al ruolo che le compete da secoli, oppure subisce frustrazioni elevandola a feticcio.

Alfio Magnano, focoso padre del Bell’Antonio, si impone completamente sulla moglie dolce e remissiva secondo i più tradizionali canoni e giunge in un momento di collera a rivelarle, con una manovra di aguzzino, di avere altri figli sparsi per la città per esibire la propria potenza riproduttiva. Di contro, Paolo Castorini, protagonista dell’ultimo e incompleto romanzo Paolo il caldo (è del 1973 la trasposizione cinematografica diretta da Marco Vicario), subisce una dura sconfitta verbale e fisica dopo un tentativo di approccio con Ester Salimbene, donna determinata, politicizzata e dedita ad ideali maschili, tanto da subirne un forte contraccolpo psicologico.

E non mancano neppure gli squallidi ménages familiari in cui i coniugi vivono nella più totale indifferenza affettiva come il mediocre Aldo Piscitello e la scaltra Rosina, indimenticabili vittime del regime fascista nel racconto Il vecchio con gli stivali.

Sembra proprio che l’unica possibilità per l’uomo di realizzare un rapporto appagante, non solo a livello sessuale, possa attuarsi con la “Bambola” che, nel Don Giovanni in Sicilia (anche questo divenuto film nel 1967 per la regia di Alberto Lattuada, quasi a sancire il legame strettissimo tra Brancati, che fu fecondo sceneggiatore, e il cinema) il giovane Muscarà acquista a Parigi. Modello di perfezione nella sua mancanza di anima e di vita, la Bambola induce un austero commendatore a togliersi tanto di cappello per aver trovato in essa “l’Eterno femminino”.

La donna, insomma, si rivela come l’ennesimo polo in cui è palesato il dissidio tra spirituale e materiale, razionale e irrazionale, ironia e amarezza che è alla base dell’arte e della vita di Brancati, assertore dell’incomunicabilità tra i due sessi. Incomunicabilità che emergeva già con insistenza in un’epoca in cui la donna si avviava a prendere coscienza di sé e la “sicilianità” cominciava a proporsi come modello negativo e infruttuoso.

Nel caso di Brancati, però, come si accennava, l’incapacità di dialogo e di relazioni autentiche era minata alla base dalla sostanziale “incomprensione” di un universo ossessivamente amato e inseguito. Gli stereotipi femminili del fascismo, sebbene razionalmente superati, per gran parte della sua vita bussarono ancora alla sua coscienza tormentata, come fantasmi accantonati ma corrosivi, distorcendone le percezioni e determinando quel vano affannarsi intorno ad un mistero insolubile che, almeno alla sensibilità contemporanea, può risultare disturbante.

La svolta era comunque dietro l’angolo. L’autore, giustamente ricordato come acuto osservatore e fustigatore della società, che, nella maggior parte della sua produzione, non era riuscito a metabolizzare “il nuovo” della condizione femminile, con la commedia La governante (anch’essa divenuta film nel 1974 per la regia di Giovanni Grimaldi), immediatamente colpita dalla censura per via dell’accenno all’omosessualità, dimostrò di aver cominciato a cambiare pagina. I fantasmi erano stati sconfitti, i tormenti della donna protagonista, vittima dell’ipocrisia e della morale dell’epoca e, a sua volta, colpevole calunniatrice che si riscatta con il suicidio, sono analizzati in questa commedia, con maggiore finezza e con intuizioni più sincere. Non siamo ancora giunti alla comprensione totale del mistero femminile, ma sicuramente la strada era stata tracciata e, se l’autore non fosse morto di lì a poco, forse avrebbe potuto percorrerla con risultati sorprendenti.

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