“La creatura del desiderio” di A. Camilleri e G. Dipasquale

Lucidità e delirio di Alma e Oskar. ‘La creatura del desiderio’ di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale al Biondo di Palermo

Saggistica breve. Teatro

@ Agata Motta (30-11-2019)

Palermo – Che il tema affrontato sarà quello del “simulacro”, con tutte le sue implicazioni e i suoi eruditi riferimenti è subito dichiarato nel breve prologo che apre lo spettacolo La creatura del desiderio di Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale, che ne cura anche la regia, in scena alla sala Strehler del Biondo fino al primo dicembre.

Il sorriso sornione del Maestro Camilleri – che ripesca le origini del simulacro nella palinodia scritta da Stesicoro per la bella Elena, per poi transitare su Euripide, Pigmalione, Nikolaj Gogol, Tommaso Landolfi, Gabriele D’Annunzio – sembra apparire per pochi minuti in quel “prenderla da molto lontano”, ma, che si tratterà di una storia tragica e dai risvolti grotteschi, anche questo è subito chiaro. Il sorriso scomparirà prestissimo e quasi ci si dimenticherà che questo lavoro appartenga proprio a lui. Sebbene alla passione che esplode e che brucia, alle vampe amorose che avviluppano senza requie, all’attrazione magnetica esercitata da un corpo femmineo il Nostro abbia dedicato molte pagine, in questo scovare una storia reale ma non troppo nota, in questa documentazione scrupolosa e quasi pignola, in questo indugio voluttuoso sui risvolti patologici del gioco amoroso sembra spirare qualcosa di nuovo e di doloroso, una riflessione filosofica e amara che scavalca un intero secolo per porgere, tra le righe, sollecitazioni attuali e chiavi interpretative per certe ossessioni contemporanee.

Un abito rosso assai poco vedovile e la bellezza straripante di Alma Mahler, dietro la quale persero il senno artisti di sommo valore, come l’Orlando di Ariosto per la bella Angelica, accendono il grigio opaco di una scenografia volutamente neutra ed essenziale, atta ad accogliere la proiezioni di immagini su quinte costituite da morbidi teli. Siamo a Vienna nel 1912. E’ il primo incontro tra la vedova di Mahler e Oskar Kokoschka, l’artista selvaggio e maledetto, impregnato di espressionismo, che tenta di farsi strada con uno stile che irrita la critica e seduce gli esperti.

Lui è giovane e inquieto, lei è più grande e decisamente navigata. La passione immediata è delineata felicemente attraverso il doppio punto di vista dei due protagonisti, prima lui e poi lei, in identiche battute porte con toni ed espressioni diverse. Le lancette di un enorme orologio proiettato sullo sfondo si inseguono velocissime a sottolineare il vortice che afferra sin dall’inizio due esseri accomunati dall’amore per l’arte e dalla sfrenata voglia di ingurgitare tutto il piacere che la vita possa offrire.

Valeria Contadino e David Coco si impossessano subito del ruolo, anzi sono proprio loro, Alma ed Oskar, belli e appassionati, mani che si cercano, corpi che si attraggono come calamite. L’Eros si impossessa di entrambi, ma nell’uomo, che ha trovato la Musa con la quale celebrare un vero e proprio matrimonio artistico (La sposa del vento ne segna l’apice), il sentimento rivendica l’esclusività, l’amore si tinge di sofferenza perché avvelenato da un’insana gelosia che si rivolge persino al marito defunto, al celebre musicista del quale non tollera la memoria nemmeno nelle tristi sembianze di una maschera mortuaria. E non saranno i viaggi o la prossima maternità a placare la sete di possesso totale di Oskar, mentre la natura libera di Alma, non sostenendo più la prigionia fisica ed emotiva in cui si sente relegata, deciderà di sottrarsi ad essa e di rinunciare a quel figlio che avrebbe potuto significare l’avvio di una famiglia “normale”.

Lo smalto iniziale dello spettacolo però non è duraturo, l’adattamento del testo non asseconda le esigenze proprie del linguaggio scenico, per il quale sarebbe stato forse opportuno snellire il periodare fortemente ipotattico che talvolta smorza la fluidità delle battute. Se il testo nel complesso regge, è perché reggono entrambi i protagonisti, che affrontano con grande professionalità e precisione certi passaggi impervi. Nei quadri intermedi, che condurranno al culmine della vicenda amorosa e poi allo snodo dell’abbandono, agiscono anche i personaggi dei servitori di casa Kokoschka, interpretati da Leonardo Marino e Antonella Scornavacca. Essi dovrebbero costituire una sorta di contraltare leggero e malizioso (la lettura delle lettere degli amanti è proposto da lei come intrigante gioco seduttivo) e farsi portavoce dei commenti e dei giudizi del mondo esterno sulla coppia che fa scandalo e suscita invidie, ma una scelta registica discutibile li guida verso interpretazioni un po’ caricaturali che urtano con un contesto che vira vistosamente verso una tragica spannung, accompagnata dalle belle e suggestive musiche di Matteo Musumeci.

Ecco dunque la caduta nell’abisso della guerra, rappresentata in rapidi fotogrammi di truppe al fronte e di scenari bellici, e il risveglio malato di Oskar nella Dresda che accoglierà la messa in scena della follia amorosa, lungamente covata e quindi minuziosamente preparata. Il pittore non potrà più avere la donna amata per sé, ma potrà partorirla in un simulacro perfetto, in una creatura dalle fattezze simili a quelle di Alma, una bambola costruita dalle abili mani dell’artigiana Herminie Moss che seguirà le istruzioni dell’uomo fatte di esaurienti bozzetti ed accuratissime descrizioni. Strano ma vero. La realtà che supera la fantasia.

Valeria Contadino si cala con una duttilità che turba e seduce (nonostante costumi che non aiutano) nelle forme finalmente realizzate del simulacro – un po’ bambola triste, un po’ meccanico congegno per solitari piaceri – mentre David Coco frena la tentazione di abbandonarsi agli eccessi e crea un mix di lucidità e delirio che congiungeranno finalmente l’Eros iniziale all’abbraccio liberatorio di Thanatos, un occhio strizzato a Freud, vicino di casa e di epoca che l’autore non poteva certo far rimanere chiuso in soffitta.

Uno spettacolo certamente ambizioso che convince solo parzialmente, ma del quale si può – o forse si deve – parlare per quell’immediato riferimento a certo frastornante uso del virtuale (diffuso in verità nell’universo maschile ma anche in quello femminile) per approcci sessuali che divengono surrogati di facile consumo dell’incapacità affettiva di intere generazioni e per quell’allarmante equivoco (questo sì soltanto maschile) che porta ad identificare l’amore con il possesso e che conduce all’uccisione del giocattolo sfuggito di mano.

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La creatura del desiderio

di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale
Regia Giuseppe Dipasquale

Interpreti
Valeria Contadino
David Coco
Leonardo Marino
Antonella Scornavacca

Scene e costumi Erminia Palmieri
Musiche Matteo Musumeci
Movimenti scenici Donatella Capraro

produzione Teatro della città di Catania

“Tutti i ricordi di Claire”di Julie Bertuccelli

Le intermittenze della memoria. ‘Tutti i ricordi di Claire’, con Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, al cinema del 21 novembre

Saggistica breve. Cinema

@ Agata Motta (20-11-2019)

La grande villa/museo dell’anziana Claire Darling si risveglia un giorno inconsapevole del suo smantellamento. Claire si trucca e si veste con cura per la sua ultima apparizione pubblica e, attraverso questo granitico e confuso personaggio, il magnetismo di Catherine Deneuve fora lo schermo, lo riempie di sguardi muti che viaggiano sui binari del tempo, un tempo che si srotola alla rovescia rendendo possibile e vera la coesistenza di brandelli di passato e di visioni inquiete sul presente addomesticate dall’accensione continua di sigarette consolatorie.

Un’illusione aspra, lucida eppur farneticante abita Tutti i ricordi di Claire, terzo film di finzione di Julie Bertuccelli, in sala dal 21 novembre, una follia, l’ultima, come giustamente recita il più suggestivo titolo originale francese La dernière folie de Claire Darling.

Claire alza lo sguardo verso il cielo, lo posa sulle fronde degli alti alberi del giardino e vi scorge biciclette appese, parla con un estraneo e lo scambia per il giovane figlio morto, accarezza con occhi dai bagliori di una bellezza lancinante i tanti oggetti vivi che hanno dato spessore alla propria vita, ascolta nella notte una voce che annuncia l’arrivo del suo ultimo giorno terreno e a tutto questo crede ciecamente. Prova stupore per quelle intrusioni improbabili, comprende che non può trattarsi di realtà ma si rassegna ad esse con devozione, aderisce a quel lembo di ragione confinante con la malattia in cui si producono coabitazioni prodigiose di verità e allucinazioni e anche a questo crede appassionatamente. In quella voce notturna, che nessuno può sentire, trova finalmente un obiettivo perseguibile, una soluzione praticabile, una lama di luce che squarci il buio dell’isolamento caparbiamente voluto. In quella voce assapora il privilegio di scoprire quanto le resta da vivere dopo aver languito nell’attesa della fine per dieci lunghi anni senza riuscire ad elaborare un lutto assurdo e devastante. E allora eccoli lì i ricordi, quelli piccoli, fatti di sguardi e di parole non spese, e quelli grandi, in cui il livore, la rabbia e la disperazione hanno determinato il corso degli eventi futuri. Ricordi aggrappati ad oggetti che sembrano possedere un’anima, ad opere d’arte che scaldano il gelo delle spente emozioni.

Dopo aver accettato quell’alba come l’ultima da vivere, la donna decide di mettere tutto in svendita a prezzi simbolici per offrire alle sue cose un’altra chance, una nuova vita, un riscatto contro l’oblio o semplicemente perché non potrà più guardarli e ascoltarli.

Il gioco di rimandi tra oggetti e porzioni di vita e l’osservazione di un presente che si specchia nel passato per non franare sotto il peso delle macerie sono il pretesto narrativo, non particolarmente originale, che la regista trae dal romanzo Il cassetto dei ricordi segreti di Lynda Rutledge, romanzo che ha molto amato per via delle affinità e degli echi personali che vi ha colto e al quale ha attinto apportandovi le modifiche necessarie alle proprie esigenze e spostando la collocazione geografica dal Texas alla familiare provincia francese.

Come nei precedenti Da quando Otar è partito e L’albero, la Bertuccelli torna alle sue tematiche più care: il lutto che produce uno schianto assordante e insanabile e il rapporto madre/figlia che, in quest’ultimo lavoro si rivela comunque irrisolto, pietrificato anche nel perdono reciproco di colpe reali o presunte ma comunque irredimibili. Sarà un perdono sterile, incapace di produrre persino un abbraccio affettuoso nel quale riconoscere le proprie radici e la propria prosecuzione fisica. Claire non vuole essere toccata da chi vorrebbe continuare a vivere nonostante il lutto, nessun contatto fisico con il marito, che vede morire sotto i suoi occhi senza chiamare l’ambulanza, né con la figlia Marie che abbandonerà una dimora in cui non troverà più alcuna collocazione plausibile. Il corpo di Claire diviene anch’esso un oggetto, ma di quelli fragili e preziosi, di quelli che è ancora possibile guardare da lontano senza accostarvisi troppo, un corpo che forse, ma è un’ipotesi appena adombrata, potrà ricevere ancora carezze da chi, per imposizione dettata dal ruolo sacerdotale, non potrebbe elargirne. Ad un quadro di Monet custodito in sagrestia, più che a vane promesse di vite ultraterrene, il sacerdote (Johan Leysen ne fa un uomo inquieto e vulnerabile) affida la sua tenerezza di uomo per la donna spezzata dal dolore, una ninfea galleggiante su uno stagno, un fiore adagiato sulla melma. La donna dunque si ritrova sola nell’immensa dimora che testimonia di ricchezze godute, di agi buttati in faccia ad un marito che non tollera di essersi fatto grande con i beni della moglie. E in solitudine vivrà gli ultimi decenni della sua vita, con l’unica compagnia della demenza incalzante e degli oggetti/feticci di un passato disturbante ma necessario.

Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, madre e figlia nella realtà, si incontrano sulla scena (come già avvenuto in diverse occasioni, da Banc Publics a Les Bien-aimés a Tre cuori) senza tradire alcuna intimità, con l’imbarazzo e la freddezza che la sceneggiatura impone, con quei timidi tentativi di riacciuffare in extremis un rapporto che ha cessato di esistere da vent’anni e che non può riaccendersi quando la fine si profila netta e incombente.

Una fine che potrebbe segnare invece un nuovo inizio per Marie, che incontra Amis (un nitido Samir Guesmi), vecchio amico del fratello che le manifesta interesse e sentimenti teneri riemersi probabilmente da un passato bloccato nella sua naturale evoluzione dalla tragedia.

La bellezza della Deneuve, per nulla offuscata dai capelli grigi ed esaltata dai gesti misurati e quasi regali da castellana in dignitosa rovina, si sposa con la bellezza delle tante meraviglie affastellate nella villa: l’orologio che sormonta l’elefante, che induceva sogni sereni nella piccola Marie, i preziosi automi d’epoca che si muovono ancora perpetuando gesti e movenze inossidabili, che sembrano narrare attraverso le labbra chiuse e sigillate vecchie storie di un passato sovrapponibile al presente. Oggetti di una vita, testimoni di altre vite nell’incessante corsa attraverso i secoli, oggetti che omaggiano l’analogo amore della Bertuccelli per le tracce del passato tramandato da generazione in generazione e che ricordano vagamente il maestro Otar Ioseliani de I favoriti della luna, in cui è una collezione di porcellane di Sèvres ad accompagnare i personaggi. Oggetti che verranno esposti nudi e vulnerabili nell’ampio giardino della villa, toccati da mani estranee e acquistati per pochi euro, mentre Martine (una spontanea e vitale Laure Calamy che si presta bene al suo ruolo di artefice del ritorno di Marie e quindi di custode della bellezza e dei ricordi) tenta il disperato salvataggio dell’immenso patrimonio di Claire da una deriva che le appare inaccettabile e grottesca, anche perché di quella casa e di quegli oggetti anch’essa si è nutrita.

Sull’altra sponda, quella della vita reale e deludente, la Mastroianni delinea con accuratezza una Marie persa nella ricerca di felicità inattingibili, la figura scarna, quasi divorata dalla magrezza, punita dai lunghi capelli di un biondo improbabile che non accendono lo sguardo sempre cupo. E’ una figlia che non può competere con il fratello nella conquista di un varco nel cuore indurito della madre, è una donna solo apparentemente padrona di sé che non riesce neanche ad arrabbiarsi di fronte alla placida e signorile follia materna. Marie è stata una bambina appagata dall’amore di un padre (un Olivier Rabourdin che in poche, dense scene mostra l’amarezza del fallimento come uomo di successo e come marito), ferito a morte dall’odio della moglie, una Alice Taglioni che fa emergere bene la fragilità e la durezza di Claire da giovane. Di lui rimane un vecchio secrétaire, luogo dei piccoli segreti e delle scoperte inaspettate.

Di inaspettato in realtà la trama non offre molto, la fabula è prevedibile nelle dinamiche fondamentali, le riflessioni sulla memoria che salva e annega sono state riformulate un’infinità di volta su carta, su schermo, su palcoscenici e ancora un’infinità di volte si avvertirà il bisogno di tornarci su, ognuno a suo modo; dunque non vanno cercati in queste direzioni i pregi del film, quanto piuttosto nelle scelte stilistiche effettuate dalla regista per porgere quei contenuti e quelle verità.

La Bertuccelli si muove con matura personalità tra morbido realismo e atmosfere oniriche in una commistione bizzarra ma perfettamente coerente. Nessuna sensazione di artificio emana dal film, su tutto si posa una specie di impalpabile leggerezza che filtra anche i momenti più drammatici, una soffusa, felliniana malinconia, ma svuotata da ogni eccesso, perché persino le improvvise apparizioni del corteo delle spose o degli sciamanti bambini vestiti in maschera si innestano nel fluire della giornata in modo assolutamente naturale. Allo stesso modo acquista significato il lieve curiosare di una bimba tra gli oggetti del giardino che fornirà inconsapevolmente la soluzione dell’enigma dell’anello rubato, una bimba spuntata dal nulla che si porge come il simbolo di un’infanzia passata eppure ancora viva, che sia quella di Claire o quella di Marie poco importa. Ai colori del giardino, trasformato in solenne fiera delle grandi occasioni, si unisce la gioiosa vitalità che attraversa il paese per l’arrivo del circo con le sue tante attrazioni, e poi i fuochi d’artificio della festa che suonano da ultimo applauso per la donna che esce di scena alla fine della sua ultima spettacolare giornata da protagonista. La scelta stilistica più intrigante è comunque il modo in cui la regista decide di saldare al presente i rapidi frammenti del vissuto dei personaggi. In realtà non si tratta di veri e propri flashback introdotti dai canonici espedienti tecnici, ma di intermittenze della memoria, di sinapsi emotive e talvolta di coesistenza, in un unico piano visivo e narrativo, del personaggio che si guarda dall’esterno mentre entra nell’inquadratura il se stesso bambino o adolescente. Ciò concede una totale soggettività al ricordo, attraverso le modifiche e gli aggiustamenti operati dalla memoria sui contenuti più impegnativi e logoranti, e offre la possibilità di tradurre in un linguaggio immediatamente fruibile l’appiattimento del tempo su quell’unico tragitto orizzontale che la mente alterata di Claire concepisce con naturalezza. Un tempo spesso e vischioso che ingloba passato e presente senza essere né l’uno né l’altro.

Eppure una sensazione di incompiutezza segna il finale, pirotecnico ed esplosivo nel vero senso di entrambi i termini, accompagnata dall’impressione che sia stata compressa la durata del film, che sia stato sacrificato qualcosa. O forse è solo il desiderio di restare ancora appesi allo sguardo della Deneuve e alla stralunata follia della sua Claire.

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“Lauro” di E. Vodolazkin

La fine del mondo che non arriva. ‘Lauro’ di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni

@ Agata Motta (04-11-2019)

Letteratura. Saggistica breve.

Un percorso di conoscenza attraversato da un afflato universale e dalla stupefacente forza della fede, questo, e molto di più, è Lauro, Elliot Edizioni, romanzo pluripremiato ambientato nella metà del XV secolo, scritto da Evgenij Vodolazkin, uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco. Lauro segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete del suo tempo. Vodolazkin ricostruisce con aggraziata finezza e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla straordinaria morte, e la organizza in tappe: libro della conoscenza, libro dell’abnegazione, libro del cammino e libro della pace.

La narrazione, piana e scorrevole, è impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche elargite con tono colloquiale o attraverso complesse elaborazioni, a seconda che appartengano a gente umile e illuminata o a menti più raffinate e socialmente elevate. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile ed una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e di singolare aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con cui, durante una lunga parentesi della sua vita, condividerà abitudini e bizzarrie, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Uno degli aspetti più intriganti del romanzo è costituito proprio dalla messa a fuoco del fenomeno dei “folli in Cristo”, figure di mistici che hanno caratterizzato quell’epoca e quella terra lasciando un’impronta profonda nella cultura locale. E’ lo stesso autore, filologo e specialista di letteratura russa medievale, a spiegarne le caratteristiche peculiari in un’intervista: il folle in Cristo è un individuo che sceglie di rompere con la società, che si esalta fuggendo la gloria dell’uomo, che trascura e mortifica il corpo, che si sposta da un luogo all’altro senza mai appartenere a nessuno di essi. La stravaganza dei comportamenti e l’eccentricità sono “aspetti di una santità che non vuole essere riconosciuta e quindi indossa la maschera della follia”. Un fenomeno, dunque, che, nella sua diversità rispetto all’eremitaggio tipico del monachesimo orientale, suscita curiosità e stupore nel mondo occidentale abituato alle caratteristiche del cenobitismo.

Winter Morning by Igor Grabar

Invaghirsi di Arsenio sin dall’inizio del romanzo è spontaneo, quasi obbligatorio. Dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un folle in Cristo, prendendo il nome di Ustino (come se continuasse a vivere per la donna amata, come se le prestasse il proprio corpo per prolungarne la breve esistenza), poi tornerà ad essere Arsenio, quindi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria del caro amico defunto), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna.

Tanti nomi che corrispondono a tante vite. Certo non è il cambio del nome a determinare la moltiplicazione, ma quella intensa trasformazione interiore che spesso accompagna le persone dotate di particolare sensibilità, quel passaggio radicale da uno stato ad un altro che la materia sottoposta a variazioni subìsce, in base al quale non muta la sostanza ma il modo in cui essa si manifesta. Basterebbe semplicemente stare ad ascoltarsi per comprendere la potenziale molteplicità dell’Io e la sua sorprendente capacità di rinascita, per aprirsi “nuovi e disponibili” alla vita, tante volte quante il caso o la determinazione riescano ad offrire. Anche in vecchiaia, anzi soprattutto in essa, quando la visione d’insieme è completa, quando il tempo cessa di fluire in modo orizzontale per piegarsi e inginocchiarsi ad una circolarità che evoca mondi lontanissimi soltanto immaginati.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo. Scelte convergenti, dunque, all’insegna di quella che si configura come la duplice storia d’amore che occupa l’animo inquieto di Arsenio, quella per Ustina, con la quale manterrà un dialogo ininterrotto in attesa di risposte che ovviamente non potranno giungere, e quella per Dio, nel quale si vorrebbe annullare e nel quale trovare il senso del suo tortuoso percorso umano di espiazione.

Venezia nel XV secolo

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti: il freddo rabbioso della Russia flagellata dalla peste, il fascino magnetico dei palazzi della Repubblica veneziana, il Mediterraneo con le sue burrascose tempeste e con i miti classici e le vicende epiche ancora aleggianti (il Labirinto del Minotauro, Troia, Paride ed Elena), i torridi sentieri polverosi del Medio Oriente attraversati durante il pellegrinaggio. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro – illustrato minuziosamente nei grandi eventi e nelle piccole folgorazioni del quotidiano – e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita in un’epoca in cui la morte era costantemente in agguato sotto forma di malattia, guerra, carestia, gratuiti assassini.

L’italiano Ambrogio morirà durante un attacco dei mamelucchi, ormai in procinto di giungere in Terra Santa per compiere in compagnia di Arsenio la missione affidata loro dal podestà di Pskov, quella di accendere una lampada votiva nel Santo Sepolcro per la defunta figlia Anna.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

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