“Viva la vida”spettacolo su Frida Kahlo

L’anima prigioniera di Frida. ‘Viva la vida’, con Pamela Villoresi, al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-03-2020)

Teatro. Saggistica breve.

Palermo – In questi giorni di confuso smarrimento, di attesa, di rabbia, di impotenza, il Teatro Biondo ha aperto per tre pomeriggi (dal 6 all’8 marzo) il proprio sipario virtuale in sala Strehler proponendo Viva la vida, spettacolo su Frida Kahlo liberamente tratto dall’intenso monologo di Pino Cacucci, che ha definito la pittrice come colei che meglio ha saputo dipingere l’anima profonda e ancestrale del Messico.

Diretto con precisione e grande sensibilità da Gigi De Luca, che ne ha curato anche il progetto e il fedele adattamento, il lavoro, prodotto dal Biondo, riesce a fondere gli ossimori stridenti che hanno caratterizzato l’esistenza di una donna fuori dal comune, innamorata della vita nonostante la presenza di un dolore necessario e perenne.

Inizialmente la voce galleggia nel buio a narrare le proprie origini – quasi una sorta di predestinazione alla complessità – poi la luce incontra e svela il corpo di Frida, ovvero il corpo di una magnifica Pamela Villoresi che indossa immediatamente il personaggio per impossessarsi del suo dolore, della sua voracità e della sua carne.

L’arbusto rampicante trafitto da fiori rossi che si abbarbica sulla poltrona/letto che accoglie il corpo tormentato della donna è il primo timido segnale di una natura che ha prodotto aridità e passioni, ma è anche il simbolo dell’importanza attribuita a radici culturali mai rinnegate e sempre coltivate.

Poi la trama compatta e preziosa della drammaturgia e il sicuro incedere verbale della protagonista accendono l’incanto di uno spettacolo vertiginoso e coinvolgente, in cui la scelta registica di inserire il canto risulta vincente, il canto come compagno/antagonista, perché tutto in questa esistenza martoriata è lotta, contrasto, coesistenza di opposti e bisogno di mescolarne i succhi per trarne nutrimento. Ecco che la struggente voce di Lavinia Mancusi diviene anch’essa corpo vivente, quello di Chavela Vargas, altra mitica figura messicana che accompagnerà Frida nell’ultima parte del suo percorso umano e artistico: “Le due donne si incontrano per caso e si riconoscono”, la bambina malata e la gatta randagia, nella bella definizione della scrittrice Silvana La Spina. Alla parola allora saranno affidati il dolore rabbioso, il ruggito, la stanchezza, l’amore, l’arte; al canto il soffio vitale, anche quando è velato di malinconia, anche quando traveste la sofferenza con i panni colorati dell’allegria.

La Villoresi conduce magistralmente il gioco spietato degli ultimi giorni – quelli del riepilogo, della sintesi, del bilancio, dell’immersione memoriale e della trasfigurazione nel sogno – con azioni minime ma con tutte le modulazioni vocali necessarie a restituire la multiforme esperienza di un’anima inquieta prigioniera di un corpo malato: la scoperta della pittura e delle sue capacità catartiche, l’impegno politico condiviso con il marito due volte sposato, Diego Rivera, muralista illustre e adultero impenitente, amore fatto di tormento e sollievo, amore indispensabile come l’aria, lo strazio degli aborti ripetuti e l’impossibile maternità per un ventre profanato da un’asta metallica nel terribile incidente che, a soli diciotto anni, devastò il fragile corpo già segnato dalla malattia marchiandolo con l’infamia di continui interventi e onnipresenti dolori, il sollievo tratto dall’alcol e dalla morfina, l’interesse per il suo popolo e le sue tradizioni cui si sente legata a doppio filo, l’attrazione per le donne e la complicità tutta femminile che rende unici certi legami, il desiderio sorprendente suscitato in altri uomini e talvolta ricambiato, l’ostinazione alla vita nonostante tutto, l’abitudine alla sofferenza e alle insospettabili risorse che da essa possono scaturire.

Elementi dedotti dalla biografia e dalla pittura si offrono come fertili sollecitazioni per le scelte registiche che agiscono in sinergia con quelle più propriamente tecniche.

Frida Kahlo, La colonna spezzata

Nell’impianto scenografico Maria Teresa D’Alessio accoglie, reinventa e restituisce con grande scrupolo e precisione questi elementi, per cui il grande specchio, che nel lunghissimo periodo dell’immobilità aveva consentito alla donna di ritrarsi o di decorare i busti indossati come una seconda pelle, diviene occasione per una recitazione non convenzionale, con l’attrice seduta di spalle ma perfettamente visibile al pubblico sullo specchio; il celebre dipinto La colonna spezzata detta il tema pittorico che la body painter Veronica Bottigliero riproduce sul corpo nudo dell’attrice – bende bianche che lasciano scoperto il seno – con il valore aggiunto di sapore metaforico delle cicatrici deturpanti che si trasformano in quegli intrichi di foglie e natura lussureggiante tanto cari all’artista. E ancora Le due Frida e Autoritratto come Tehuana guidano le mani esperte di Roberta Di Capua e Rosario Martone nel confezionamento del corpetto ricamato e del manto/copricapo che l’attrice indosserà dopo aver scrollato l’immobilità dal corpo nudo per lasciarsi sedurre da altre movenze e altri stati d’animo.

Anche le luci di Nino Annaloro giocano un ruolo importante nella messa in scena perché occultano e svelano, seguendo il ritmo della narrazione, o aprono squarci onirici, come nella scena bellissima in cui Frida, sulla scia di un fascio di luce che sembra una strada da percorrere con il pensiero, rievoca un’abitudine contratta sin da bambina, quella di disegnare una porta sul vetro appannato e da lì intrecciare dialoghi con un’amica immaginaria eppur presente nelle lunghe giornate di immobilità e solitudine. “A che servono le gambe quando si hanno ali per volare?” I sogni, quelli tossici e maledetti che anticipano la morte o quelli salvifici e forieri di refrigerio, restano l’unico senso da attribuire alla vita, l’unica via di fuga quando tutto ciò che si ha intorno diventa insostenibile.

La pioggia battente che ha battezzato la nascita Frida e la sua crescita, la pioggia sottile che si è fusa tante volte alle sue lacrime, la pioggia violenta che ha flagellato la sua anima in pena, la pioggia tante volte evocata nella narrazione si placa infine in un gocciolare assorto e continuo, lento come la Pelona – la Morte – che finalmente si fa strada a viso scoperto per porre fine al suo capolavoro: averla risparmiata tante volte affinché la vita tanto amata potesse assassinarla lentamente.

Frida Kahlo, Viva la vida

Sulla polpa rossa e succosa delle angurie raffigurate in una natura morta l’artista scriverà poco prima di morire “Viva la vida”, un manifesto artistico, una dichiarazione d’amore, un epitaffio, uno sberleffo al destino idiota.

Appare superfluo sottolineare che uno spettacolo visto su streaming viene mortificato in quella che è la vera essenza del teatro – la percezione con tutto il corpo delle vibrazioni provenienti dal palcoscenico – purché sia chiara “l’eccezionalità” della proposta che in alcun modo deve far sorgere tentazioni future in questa direzione. Il cambio epocale prodotto dalle pay tv nell’universo cinematografico, che ha portato molti illustri studiosi a preconizzare la morte imminente del film fruito in sala, dovrebbe portare ad innalzare barriere protettive verso qualsiasi fenomeno di “disumanizzazione” dell’evento artistico o di desertificazione dei luoghi d’incontro, pena una forma di onanismo culturale dall’orrido aspetto.

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L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

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