Tre Piani di Eshkol Nevo

Reperti del dolore. ‘Tre piani’ di Eshkol Nevo, ed. Neri Pozza

@ Agata Motta (27-04-2020)                          Letteratura. Saggistica breve.

Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.

Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che  riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.

Marc Chagall (1887-1985)_Het blauwe huis

Marc Chagall, Il sogno di Giacobbe

La sua è un’altra limpida voce che giunge da Israele, dopo quelle già da tempo affermate ed apprezzate della generazione precedente – Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman – e con esse condivide la necessità di raccontare storie di disagevoli normalità con lo scavo meticoloso e asettico di un bisturi che si fa spazio dentro i labbri di una ferita infetta, ma senza alcun compiacimento, come mosso da una necessità conoscitiva che trova la sua piena realizzazione nella comunicazione con l’altro, con colui che saprà ascoltare. Già con Nostalgia, pubblicato inizialmente da Mondadori e poi da Neri Pozza, casa editrice che ha continuato a seguire tutto il percorso dell’autore, Nevo aveva raccolto grandi consensi e il successo ha accompagnato anche i lavori successivi.

Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.

Marc Chagall, Violinista verde

Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.

Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.

Talmud babilonese

Marc Chagall, Sabbath

Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.

La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.

Marc Chagall_Russian village

E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.

Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/reperti-del-dolore-tre-piani-di-eshkol-nevo-ed-neri-pozza/

“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

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