Universo Iperborea (II parte)

Universo “Iperborea” (parte seconda)

@ Agata Motta (14-12-2020)

E adesso ancora più a Nord nel nostro viaggio sull’affascinante planisfero di Iperborea, un salto nell’Islanda vista con gli occhi di due autori assai diversi ma ugualmente interessanti.
Bisogna superare le prime cinquanta pagine (in tutto sono 611), per capire se Gente indipendente di Halldór Laxness vi regalerà una folgorazione magnifica e duratura. Pur essendo perfettamente calzante, un titolo così poco seducente non gli rende giustizia e non basta l’immagine naif in copertina con un casolare e una pecora – anch’essa pienamente pertinente – a catturare l’attenzione del lettore. La tematica inconsueta per l’Occidente capitalista, i luoghi sperduti da cartolina e lo stile che può risucchiare o respingere ne fanno un romanzo originale di algida bellezza.
La brughiera ghiacciata d’inverno e acquitrinosa in primavera, le distese a perdita d’occhio dei pascoli, le aspre scogliere con i loro anfratti desolati sono l’ambiente ostile eppur magnetico dentro il quale si sviluppa la vicenda dell’ostinato Bjartur di Sumarhús. Uomo rozzo, pragmatico, dalla dura scorza avvezza alle intemperie e alle avversità ma amante della poesia con la quale si diletta, Bjartur decide caparbiamente di investire l’intera sua vita alla ricerca e al mantenimento dell’indipendenza personale. Dopo diciotto anni di lavoro indefesso a servizio di facoltosi signori, che resteranno per lui eterni antagonisti nonostante le tante manifestazione di ipocrita filantropia, Bjartur acquista un podere “maledetto”, Sumarhús per l’appunto, su cui uno spirito infernale, Kolumkilli, e una strega d’altri tempi, Günnvor, hanno fissato dimora secoli addietro. Questo podere, insomma, che lo costringerà ad una lotta impari contro la natura, che ritiene di poter assecondare se non proprio dominare, e contro il soprannaturale, al quale non crede e al cui cospetto mai si inchinerà, diventa il piccolo regno di Bjartur, in cui le pecore saranno l’innocente corte bisognosa di cure e di attenzioni amorevoli.
L’uomo, sempre più caratterizzato da un ottuso e sciocco attaccamento alla terra e alle pecore più che alle persone, vi seppellirà due mogli, figure dolenti e indimenticabili, e vi crescerà i suoi figli, almeno quelli sopravvissuti, tra cui il piccolo Nonni, il sognatore proiettato verso un indefinito altrove geografico che diverrà l’America in cui cercare e trovare fortuna. Le braccia per lavorare e le pecore da moltiplicare saranno gli unici beni di Bjartur. Le mogli, fragili creature destinate ab initio all’infelicità, saranno il ragionevole compromesso con la propria indole solitaria e lo aiuteranno nella gestione delle incombenze domestiche e lavorative fino a consumarsi, ma non avranno pietà o affetto visibile da un uomo arido e cinicamente calcolatore. In quelle lande desolate, in cui i bisogni sembrano esclusivamente primari, la tensione dell’essere umano verso nuovi oggetti del desiderio alberga anche nell’animo semplice di Bjartur. Il sogno di una casa signorile in cui far vivere “il fiore della sua vita” lo condurrà pian piano alla rovina, complici le vicende politiche e la grande guerra, che inizialmente crea un’illusione di benessere e che dopo qualche anno riduce sul lastrico quanti, come lui, avevano fatto il passo più lungo della gamba. Il fiore da accudire è la figlia Asta Sóllilja (il nome così originale, “Amata Girasole”, è l’unico dono possibile per la neonata sopravvissuta alla morte della madre grazie al calore di una vecchia cagna) che, tra gli altri figli che verranno, è l’unica che in realtà non è frutto del suo seme ma di quello degli antichi padroni e, nonostante questa amara consapevolezza, quella amata di vero amore.
Premio Nobel nel 1955 “per la sua opera epica che ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese” Halldór Laxness praticamente inventa la moderna narrativa islandese, attinge al patrimonio di saghe e di personaggi soprannaturali della tradizione – dedicandovi il suggestivo capitolo iniziale che crea un legame magico con la terra maledetta – vi innesta la povera realtà dei pastori dei primi decenni del XX secolo facendone probabilmente anche una metafora politica. Da questa operazione letteraria scaturisce una lingua corposa e densa, i dialoghi e i pensieri fluiscono senza marcatori grafici – il discorso diretto non è mai introdotto dalle virgolette e solo talvolta isolato in timidi capoversi – e tracimano spontaneamente nell’indiretto libero per poi confondersi tra le pieghe di lunghe sequenze descrittive, necessarie perché il paesaggio è protagonista tanto quanto i piccoli uomini che lo abitano.
Bjartur sarà uno dei tanti “vinti” della letteratura e della vita reale, ma di lui a sopravvivere nel ricordo del lettore saranno le battaglie epiche condotte contro i poteri occulti e le avversità naturali, la capacità di non voltarsi mai indietro e di non lasciarsi sopraffare da rimorsi e nostalgie e, infine, l’immagine bellissima di un uomo ormai provato e non più giovane che si avvia con la vecchissima suocera, depositaria di una saggezza fatta di accettazione, con l’unico figlio maschio rimastogli accanto dopo la rinuncia al sogno americano per inseguire un amore impossibile e con la figliastra malata sulle spalle (in un magnifico capovolgimento dell’immagine di Enea che regge il padre Anchise) verso un altro incerto futuro screziato di speranza. Il perdono concesso alla fanciulla, che lo ha deluso lasciandosi ingravidare durante la sua assenza, sembra assolverlo dalle colpe della sua testardaggine e una commossa pietas aleggia su ciò che resta dell’originario nucleo familiare. Tutto ciò fa di Bjartur il tragico eroe dell’indipendenza economica che, coincidendo con quella intima e privata, la rende assimilabile alla libertà.
…non c’è da meravigliarsi se qualche volta a uno balena in mente il pensiero, se non valesse la pena darsi più da fare per preservare la vita umana invece che gli ideali. Perché se l’ideale non mira a migliorare la vita dell’uomo sulla terra, e invece uccide la gente a milioni, be’ allora a uno sorge la domanda se non è meglio essere completamente privi di ideali, anche se naturalmente una vita del genere sarebbe vuota. Perché se l’ideale non è la vita, e la vita non è un ideale, allora l’ideale cos’è? E cos’è la vita?


Molto amato e assai noto Jón Kalman Stefánsson con Luce d’estate ed è subito notte raggiunge, a detta dei suoi più fedeli lettori, uno dei vertici più alti della sua vasta produzione. Con sguardo curioso e penetrante il narratore, che si fa voce collettiva appartenente al microcosmo descritto, apre finestre, dalle quali spiare con soddisfazione, su un piccolissimo paese islandese e sui suoi abitanti, attraversati da noie impalpabili come polvere sottile o da improvvisi guizzi di vitalità. Giovani e vecchi, uomini e donne, tutti i protagonisti insomma sono guidati da una personalissima stella cometa che possa orientare in un’assidua ricerca che dia senso alla vita e soprattutto alla morte, padrona e signora incontrastata che aleggia sovrana su tutti, unica certezza assoluta nella spessa congerie dei sogni mai spenti, delle carezzevoli illusioni, delle innocenti beatitudini, dei tormentosi tradimenti, dei sentimenti tenaci e degli amori spezzati.
Ed ecco emergere dalle pagine il giovane direttore del fiorente Maglificio trasformato in Astronomo dall’incontro fortuito con una lingua morta – il latino – che lo riporta ad una dimensione più autentica della vita; Hannes, il poliziotto del paese, quercia robusta spezzata dalla morte dell’esile compagna; il fragile Jónas, spinto dal suicidio paterno ad intraprendere una professione che è la negazione stessa della propria sensibilità artistica; Kjartan e Kristín, adulteri invischiati nelle pastoie di una passione devastante; Asdís, sposa paziente che si trasforma in tigre dopo l’umiliazione del tradimento; Matthías, che dopo un lungo peregrinare dettato dalla sete di conoscenza torna in paese spinto dal ricordo del volto amato; Benedikt, uomo cupo e solitario che riapre il cuore alle lusinghe dell’amore spinto dall’esplicita offerta di Puríður, donna dai modi spartani non disposta a lasciarsi appassire senza affetti; Elísabet, bella e provocante artefice del proprio destino di donna intraprendente e solida e tantissimi altri ancora, perché in questo piccolo paese ognuno ha un suo posto e una sua occasione per mostrarsi in scena.
Pur non potendo negare che si tratti di un romanzo a tutti gli effetti – la cornice narrativa, il rimbalzo continuo tra i personaggi, la voce narrante che li chiama a racconta riassumendone talvolta le vicende per chiarire il non detto al lettore – il tratto caratterizzante di quest’opera è quello di essere concepita per capitoli che possono configurarsi come racconti a se stanti, per cui il lettore corre sulle pagine all’inseguimento di un personaggio che è già pronto a passare la staffetta a quello successivo e poi ancora all’altro e così via fino alla conclusione, in una beata sbronza di vita vissuta, di attese che si concretizzano in eventi, di strappi che provocheranno lacerazioni, di folgorazioni che imprimeranno direzioni nuove e inaspettate, di peccati da commettere e da scontare, di dolori da affrontare o da cui essere sopraffatti. Senza mai dimenticare che siamo fatti per la morte, siamo carne pulsante che precipita incontro al nulla eterno, siamo esseri desideranti destinati a non conoscere il fine ultimo di questo nostro desiderare. E senza mai trascurare un dettaglio apparentemente insignificante che si finge spesso di non vedere o di non voler prendere in considerazione: il caso, quella mano incurante e neghittosa che si insinua come un tarlo tra le solide strutture di esistenze accortamente pianificate che non reggono al minimo urto, nemmeno ad un soffio di vento.
Per quale motivo ho vissuto, si domanda la vecchia zia in punto di morte. Nessuno è ovviamente in grado di risponderle e molto probabilmente lei stessa non aspetta una risposta. Basta chiedere, interrogarsi, cercare, e lungo il percorso sassoso della ricerca incontrare la vita, dovrebbe bastare questo, l’incontro stesso sarebbe un successo, conclusione scontata e persino banale, ma è proprio questo il punto di forza del libro, mettere su carta pensieri che almeno una volta ci hanno attraversato, rimestare tra tante vicende per portare a galla “il sugo” di tutte le storie, che è il sugo del nostro essere uomini su questa Terra.
Perdersi tra tanti racconti è possibilissimo, talvolta si confondono i nomi e i personaggi, ma questo Stefánsson lo ha previsto e non se n’è curato o più probabilmente è un effetto cercato. Ha affidato al narratore (ai narratori, in realtà, ai tanti occhietti che si infilano nelle case e nei pensieri dei compaesani) il compito di ricucire e assestare la materia narrata e alle “dieci mani” inoperose fuse in un’unica identità (espediente tecnico che si riappropria di una delle funzioni del coro della tragedia greca) quello di intervenire nell’azione con una rancorosa e ipocrita morale che porta a giudicare più che a commentare. Giudizio che non coincide con quello dell’autore, inutile sottolinearlo, perché delle vicende umane uno scrittore può scegliere di essere semplice testimone.
Continuiamo ad aggiungere nuove storie, ci resta difficile metterci un punto, ma forse è anche perché chi racconta la vita ha la tendenza ad andare per le lunghe – tutto quello che facciamo è in un modo o nell’altro una lotta contro la morte… Eppure continuiamo a vivere come se niente fosse più scontato. Senza un barlume di buon senso.

https://www.scriptandbooks.it/2021/04/21/eppure-il-natale-arrivera-universo-iperborea-parte-seconda/

Universo Iperborea (parte I)

Eppure il Natale arriverà | Universo “Iperborea” (parte prima)

@ Agata Motta (05-12-2020)

Selma Lagerlöf

Se avete voglia di esplorare ad ampio raggio la letteratura dei paesi nord-europei non esitate ad accostarvi alla casa editrice milanese Iperborea che propone titoli accuratamente selezionati in un accattivante formato lungo e stretto (10×20) che rende i volumi immediatamente identificabili e la lettura più riposante.  A piccoli passi Iperborea ha saputo conquistare un pubblico sempre più ampio puntando sulla qualità di offerte raramente deludenti che innescano nel lettore una sorta di fidelizzazione. Potrete dunque scegliere tra autori danesi, norvegesi, svedesi, islandesi, estoni, finlandesi, olandesi, belgi con la certezza che ne troverete almeno qualcuno di vostro gradimento.

Cominciamo con un autore cult svedese, Stig Dagerman, anarchico e ribelle come il protagonista del romanzo Bambino bruciato, che narra di una drammatica passione per la matrigna, donna matura e navigata che non sa opporsi alla fresca tentazione di un giovane corpo devastato dal rancore e dalla rabbia. Il lutto per la madre apre una voragine di dolore nel ragazzo che si lancia senza alcuna rete protettiva in un percorso autodistruttivo che ha il sapore della vendetta nei confronti dell’insensibilità paterna e dell’immersione in un nuovo grembo materno che non può offrire conforto ma aggiungere soltanto altra disperazione. L’esigenza insopprimibile di purezza e l’incapacità di adattamento alla vita che appartengono al giovane Bengt sono le stesse caratteristiche di cui è intrisa la parabola esistenziale dello stesso Dagerman, suicida poco più che trentenne.

I personaggi che ruotano intorno alla coppia sono poco più di ombre sbiadite (la fidanzata oppressa dal mal di testa e soggiogata dal fascino malato del giovane Bengt) o fin troppo vitali (il padre che ama i piccoli piaceri della vita e non sa rinunciarvi in nome di una superiore morale), ma il loro amore non basta a sanare l’ansia di assoluto di chi sembra votato alla sconfitta o ad una cinica e probabilmente precaria sopravvivenza. In realtà non si tratta di vero amore, questo appare chiaro ad entrambi anche nei momenti di divorante passione, ma di un sentimento malato che di esso assume le fattezze nel tentativo consolatorio di riempire vuoti e restituire significato a giorni che inseguono altri giorni senza costrutto fino a perdersi nella menzogna e nell’esibizione quasi teatrale del proprio dolore.

La candela, oggetto presente in modo ossessivo tra le pagine, è il simbolo del lutto  – per la madre, per la propria giovinezza, per i propri ideali – ma è anche quello della luce intensa che attira e che brucia, perché “non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. E’ attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina.”

Restiamo in Svezia con Jerusalem un classico del primo Novecento di Selma Lagerlöf, autrice prolifica e colta, grande affabulatrice che attinse alla tradizione orale restituendone il fascino attraverso un linguaggio semplice e potentissimo, prima donna a vincere il premio Nobel della letteratura che le venne attribuito nel 1909.

Il corposo romanzo nacque dopo un viaggio in Terra Santa compiuto con la compagna e scrittrice Sophie Elkan, un viaggio fortemente voluto per seguire le tracce di un gruppo di mistici che, partito da un piccolo villaggio della Dalecarlia, si stabilì a Gerusalemme, la terra dove camminò Cristo, per aggregarsi ad una colonia americana nella quale avrebbero dovuto realizzarsi i più puri ideali evangelici. L’interesse dell’autrice fu inizialmente di carattere sociale e politico ma l’impulso personale di ricerca interiore fu probabilmente  l’elemento determinante che le consentì di indagare con serietà e trasporto i meccanismi alla base di una delle tante utopie che attraversarono il diciannovesimo secolo. L’utopia della Colonia Spaffordita (dal nome di Anna Spafford, madre delle comunità) era particolarmente severa e intransigente nella predicazione della rinuncia al matrimonio e al lavoro (elementi entrambi che la resero invisa e spesso aspramente attaccata dagli osservatori esterni) e ricordava per certi aspetti alcuni elementi delle “eresie” medievali sradicate con sanguinaria crudeltà dai pontefici dell’epoca, ma di sicuro esercitava un’attrazione irresistibile su quanti reputavano la propria esistenza priva di nobili finalità se incentrata sul guadagno e le transitorie passioni terrene.

Nel romanzo della Lagerlöf, i protagonisti del viaggio della salvezza sono descritti inizialmente nell’irrequieto avvicendarsi di piccoli eventi – innamoramenti, scelte morali, acquisti per accrescere il proprio patrimonio, ricerca di prestigio sociale – che cominciano a scardinare un sistema costituito di valori e di tradizioni, fino all’arrivo di un predicatore carismatico, Hellgum, che attraverso un’indefessa operazione di proselitismo getta il seme da cui germoglieranno scelte di vita laceranti destinate a lasciare segni indelebili sia in chi deciderà di restare fedele al vecchio sistema sia in coloro che, sedotti dalla sirena della redenzione, si metteranno in viaggio per compiere un percorso fisico e spirituale di rinnovamento nell’attesa del vicino compimento del regno dei cieli. La famiglia Ingmarsson, nell’arco di due generazioni, fungerà da fulcro narrativo e morale dell’intera parabola evolutiva della grande utopia rappresentata, una famiglia costantemente protesa al compimento del Bene ma costantemente schiacciata dal senso di colpa che inciderà sull’agire dei suoi membri anche a costo di immani sacrifici e di muto dolore.

Ad illuminare le vicende come un faro dalla luce mai attenuata è il dispiegarsi sovrano dell’Amore in ogni sua declinazione, quello per Dio e per Cristo naturalmente ma anche e soprattutto quello tra esseri umani che sanno tacere e rinunciare, che sanno cogliere quelle scintille di infinito che niente e nessuno potrà spegnere. La scelta del giovane Ingmar di rinunciare a Gertud, la ragazza teneramente amata sin dall’infanzia, per riscattare la propria fattoria attraverso un matrimonio portatore di grossi vantaggi economici costituisce uno dei momenti più alti e struggenti del romanzo, scelta seguita a distanza di anni da un viaggio di ammenda e riparazione che aprirà un varco magnifico a nuovi ed imprevisti sviluppi, quasi a sancire la complessità dell’animo umano e dei sentimenti che possono sbocciare nelle condizioni più avverse o trasformarsi per dar vita a nuove combinazioni in cui gli aspetti della dedizione paziente e dell’affetto tenace si rivelano vincenti e degni di essere accettati e gratificati. Altro elemento di grande fascino è costituito dalle avversità che si trasformano in opportunità, come il terribile naufragio, descritto con potenza pittorica, dal quale la superstite signora Gordon (La Spafford della finzione) trae l’energia per dar vita al suo grande sogno di salvezza collettiva, o l’imprevisto legame affettivo tra Gertud e Bo che riporterà Ingmar alla moglie di cui si scopre inaspettatamente innamorato e inaspettatamente ricambiato. E poi ancora le leggende, i sogni, le maledizioni, l’impronta calvinista della predestinazione, il rovesciamento del dettato luterano per cui non basta la fede senza l’indispensabile corredo delle buone azioni, i percorsi tortuosi che conducono alla Verità, sebbene essa suoni in maniera diversa a seconda della persona che pensa di possederla.

Di ogni personaggio, maschile o femminile che sia, l’autrice coglie emozioni e stati d’animo porgendoli al lettore senza enfasi, con una spontaneità e una naturalezza che inducono alla comprensione e all’indulgenza. Più delle parole sono le azioni a “rappresentare” ciò che è davvero importante, i dialoghi sono ampi e argomentativi per ciò che concerne l’esposizione della dottrina ma divengono asciutti e pudichi quando devono esprimere i sentimenti e le paure, le speranze e le illusioni perdute e ritrovate.

Gerusalemme, la città miraggio, il luogo primigenio da cui tutto ha origine e verso cui tutto si dirige, è un luogo di aridità e di arsura, di fame spirituale e materiale, di morte esibita e di vita adombrata, di maldicenza e avidità, centro di raccolta di sette sempre nuove e coacervo di religioni in netta contrapposizione, prime tra tutte quella cristiana e quella musulmana che si fronteggiano materialmente nella coesistenza di chiese e moschee che si rinfacciano i loro rispettivi meriti in un allucinato capitolo in cui il sensibile udito della signora Gordon,  acuito dal calore e dalla luna piena, ne registra le voci. Gerusalemme è anche la città dei miracoli, non quelli tramandati dal Vangelo che non hanno più un Cristo che li compia, ma quelli compiuti dagli uomini di buona volontà che riescono a dissodare un terreno avaro e sabbioso, che si prodigano per curare gli ammalati, che si riuniscono per cantare la grandezza del Creatore, che riconoscono l’amore e lo addomesticano affinché ne rimanga solo l’essenza più pura. Nell’arco di un paio d’anni, la Lagerlöf attraverso Jerusalem edifica un mito e lo consegna alla storia.

Ingmar pianse a lungo; quando alzò la testa, Gertrud era scomparsa, e dalla fattoria accorrevano a cercarlo. Batté il pugno sul sasso, e il suo volto assunse un’espressione dura e ostinata.

«Forse Gertrud e io ci incontreremo ancora», si disse, « e allora le cose potrebbero anche andare in modo diverso. Noi Ingmarsson finiamo sempre per ottenere quel che desideriamo con tutta l’anima.»

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