“Donna sulle scale” di Bernhard Schlink

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Ritratto di donna scomparsa: esce per Neri Pozza “Donna sulle scale” di Schlink

@Agata Motta, 24-01-2022

Acclamato e blandito dalla critica che lo ha definito “un filosofo-scrittore”, Bernhard Schlink ha consegnato ai suoi lettori l’ultimo romanzo Donna sulle scale, edito da Neri Pozza.

Questa volta però l’unanime consenso che gli è stato tributato non convince e non sembra pienamente condivisibile. Sarà per la disomogeneità qualitativa o per l’infelice scelta di un argomento non certo originale o per lo snodarsi di vicende che vorrebbero creare suspence e curiosità senza però riuscire nell’intento, ma in sostanza le prime vere emozioni giungono quando la narrazione sta per concludersi.

Una profonda cesura tra un prima e un dopo rispetto all’evento centrale – la scomparsa di una donna e del quadro che la ritrae – cristallizza gli eventi come se tutta la vita che ha continuato a scorrere in mezzo fosse stata soltanto un’ampia parentesi, come se dalla risoluzione di quel giallo a lungo accantonato dipendesse la riformulazione di esistenze in qualche modo spezzate o quantomeno condizionate da quelle scomparse.

Un meccanismo narrativo che era già stato magistralmente collaudato da Schlink, con ben altri esiti, nel romanzo evento del ’95 Il lettore: anche lì esistevano un prima e un dopo, anche lì una donna scomparsa riemergeva dal passato, anche lì interrogativi che aspettavano di essere soddisfatti e il dubbio terribile di essere soltanto vittime di un errore del destino. Ma nel romanzo che ha giustamente entusiasmato la critica e dal quale Stephen Daldry ha effettuato la trasposizione cinematografica The Reader, con Kate Winslet e Ralph Fiennes, il valore aggiunto alla storia della passione di un adolescente per una donna adulta era dato da un’indagine sul periodo oscuro e psicologicamente irrisolto per il popolo tedesco dell’avvio alla normalizzazione dopo la scoperta degli orrori della Shoah.

Ancora oggi Il lettore si configura come una riflessione acuta, lucida, drammatica ed eticamente coinvolgente sulla colpa e sulla responsabilità, è la messa a nudo di azioni nefaste compiute durante la follia collettiva del nazismo, è l’analisi delle ripercussioni di quella follia sulle nuove generazioni che si sono ritrovate sulle spalle il fardello di genitori coinvolti a diverso titolo nella più grande vergogna della storia contemporanea. E poi vi giganteggia l’amore per la lettura che intacca la dura scorza della donna, affetta da un analfabetismo tenacemente nascosto che è simbolo di analfabetismo affettivo. Da questo amore giunge la spinta ad un gesto che vorrebbe essere risarcitorio nei confronti di una delle vittime sopravvissute alla strage di cui la donna si era macchiata. Prima però, nell’immobile silenzio del carcere, si era dovuto compiere il piccolo miracolo della lenta consapevolezza del male compiuto.

Forse proprio per questo, il nuovo romanzo di Schlink delude, forse è proprio da un istintivo e involontario confronto che scaturisce l’insoddisfazione.

Esili personaggi, tronfi, ciascuno a suo modo, del proprio successo professionale, tre uomini – un industriale, un artista, un avvocato – innamorati della stessa donna, si affrontano in un duello verbale e in una successione di azioni spesso moralmente discutibili. Lei invece, che dell’industriale è la giovane moglie, dell’artista la recente amante e dell’avvocato la folgorazione amorosa, si sottrae a tutti perché non vuole essere né un trofeo, né una Musa, né una principessa da salvare. E come darle torto? Restare ingabbiati in una forma che non si è scelta non è esattamente il massimo delle aspirazioni per nessuno e non può esserlo per Irene, bella, giovane e con spiccate aspirazioni ad una libertà di cui non conosce ancora il volto con precisione, ma che ha sembianze vagamente somiglianti alla ribellione.

Al centro della storia dunque un bellissimo quadro – l’autore si sarebbe ispirato ad un dipinto del ’66 di Gerhard Richter intitolato Ema (Nudo su una scala) – che ritrae l’oggetto del desiderio in posa sensuale ed enigmatica: nuda, un piede sospeso nell’atto di scendere il gradino, la testa un po’ china, lo sguardo assorto e quasi rassegnato.

Quadro che a distanza di decenni ricompare all’Art Gallery del teatro dell’Opera di Sidney come un amo gettato nel mare del tempo trascorso con la certezza di tirarlo su con grossi agguerriti pesci, perché l’idea di sanare una sconfitta è ammaliante quanto il canto di una sirena.

Il primo ad abboccare è l’avvocato, all’origine complice involontario di quella scomparsa, che è anche la voce narrante, il meno coinvolto ma il più curioso e il più fragile. L’uomo, del quale non conosceremo mai il nome ma dal quale riceveremo le più aperte confessioni, ormai vedovo e padre di figli adulti, aveva intravisto nella bella Irene la possibilità di salvezza da una vita che si prospettava perfettamente inquadrata, razionale, solida ma tristemente grigia, il fulmine a ciel sereno che avrebbe potuto aprire al fascino irresistibile del punto interrogativo alla fine di ogni giornata, la donna che avrebbe potuto amare nel modo giusto, il modo in cui le donne si aspettano di essere amate. L’uomo, che sentiva di non essere mai stato giovane, si era illuso di poter finalmente indossare la propria età per cominciare a vivere attraverso lei. Ma la vita non sempre tiene conto dei progetti e passa veloce e voltarsi indietro può significare soltanto l’impossibilità di un recupero e la piena coscienza di un rimpianto. Ambivalente sentimento che si rivelerà comune all’avvocato-narratore e agli altri due uomini, ma con una sostanziale differenza: l’avvocato attraverso il quadro cerca la donna; i suoi rivali di un tempo attraverso la donna cercano il quadro, perché tornare in pieno possesso dell’opera significa per l’industriale collezionista fermare il tempo e bloccare nella giovinezza della donna la propria e per l’artista acclamato custodire la più bella opera della propria produzione.

Inutile dire che i tentativi dell’ex marito e dell’ex amante andranno a vuoto, mentre il mesto viaggio a ritroso del narratore avrà un epilogo diverso e in qualche modo compensatorio pur nella sua brevità. Così quel futuro sognato con Irene, che diviene per qualche pagina soltanto una fantasia da raccontare, si porge come la parte più autentica del romanzo, quella che risuona della potente nostalgia e amarezza del non vissuto.

Nessuna simpatia per questi uomini bambini che tentano rabbiosi o compiacenti di impossessarsi dei loro giocattoli del cuore, nessuna simpatia neppure per Irene che però ha tentato un riscatto morale a costi altissimi, più intensa e reale da vecchia e malata che da giovane e bella. L’anziano avvocato, pedante e serio, tutto ragione e calcolo, solo al novantesimo minuto si libera dalla perfetta impalcatura che ha retto le sue scelte conformiste. Dopo aver compreso che l’amore non è solo desiderio ma anche prendersi cura della persona amata, acquista finalmente un suo spessore e solo a quel punto viene voglia di rivolgergli un sorriso.

Da tanta pervicace passione, da tanto rancore, da tanta ossessione però si sprigiona un alito freddo – caratteristica in verità comune a tanta letteratura tedesca – che produce nel lettore lo strano effetto di una fiamma alta cui si avvicini la mano lateralmente: il calore non arriva, il fuoco non riscalda. E neanche il linguaggio, piano, neutro, senza guizzi particolari, controbilancia il materiale non pregevole della narrazione che invece sa farsi diamante nei capitoli finali, quando la mano si sposta sulla fiamma fino a sentirne finalmente l’ustione.

Bernhard Schlink
Donna sulle scale
Neri Pozza editore, 2021
18,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2022/01/26/ritratto-di-donna-scomparsa-esce-per-neri-pozza-donna-sulle-scale-di-schlink/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2022/01/ritratto-di-donna-scomparsa-esce-per-neri-pozza-donna-sulle-scale-di-schlink/

“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

Cinema, Saggistica breve, Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio

È stata la mano di Dio: una psicanalisi catartica

@Agata Motta, 08-01-2022

Con È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino apre un capitolo intimo e doloroso della propria vita e lo consegna senza reticenze al grande pubblico come in una liberatoria seduta di psicanalisi necessaria per riesumare fantasmi non pacificati dell’adolescenza. Non stupisce che abbia vinto a Venezia il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria – né che sia stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione “miglior film internazionale”, perché il tratto è felice, la storia delicata, i dialoghi intensi, la recitazione compatta e pregevole, l’ambientazione spruzzata d’affetto, come sempre avviene negli esuli volontari che tornano nei luoghi amati con un carico oscuro di lucida nostalgia.

Giunto fugacemente sul grande schermo per poi passare allo streaming (avallando il perverso meccanismo di agonia del cinema in sala), il film oltrepassa le immagini opulente e le grottesche implicazioni sociopolitiche de La grande bellezza per concedersi uno sprofondamento nei territori noti e battuti delle dinamiche familiari, del disorientamento giovanile, della scoperta delle ipotetiche promesse del destino, dell’esplorazione delle possibili scelte da compiere, della presa d’atto di un patimento devastante che dev’essere scoperchiato e attraversato perché la vita possa continuare a scorrere.

La famiglia Schisa, che è sostanzialmente quella del regista, si muove nella Napoli degli anni Ottanta folgorata dall’arrivo del pibe de oro. È una famiglia come tante, con piccole gioie e sottaciuti tormenti, e lo spettatore impara a conoscerla attraverso lo sguardo limpido del protagonista Fabietto (la focalizzazione, quasi sempre interna e fissa, coincide quindi con quella del regista) alle prese con gli esami di maturità e con un futuro troppo incerto per poter essere atteso con placida curiosità.

Ad una prima parte solare, chiassosa e corale, con molte concessioni al repertorio tipico della commedia napoletana, in cui attori di consumata bravura si esprimono con spontanea naturalezza, si contrappone la seconda, più sussurrata, raccolta, introspettiva, inevitabilmente giocata sulle tappe, talvolta brusche e improvvise altre lente ed impercettibili, che porteranno il colto e taciturno Fabietto – un delicato e tenero Filippo Scotti che ottiene per questa interpretazione il Premio Marcello Mastroianni alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – all’emersione dalla coltre d’acqua che rischiava di farlo annegare con il suo strazio di orfano. Acqua che è anche il mare azzurro e straordinario della panoramica d’apertura del film, mare frequentato durante un’infanzia e un’adolescenza affollate di parenti, vicini di casa e conoscenti che costituiscono un’imperdibile galleria di tipi umani che da soli valgono l’intero film.

Al centro la frattura di una duplice morte assurda – i genitori di Sorrentino sono deceduti insieme a causa di una fuga di monossido di carbonio – che coglie di sorpresa come un pugno in pieno volto e che infligge al figlio il dolore aggiunto del permesso negato dai medici dell’ospedale di poter vedere un’ultima volta i genitori morti. E sarà proprio il ricordo martellante di questo commiato sottratto, tirato fuori dal regista mentore Antonio Capuano (Ciro Capano tra il cinico, il paterno e il nichilista) e urlato al mare, la cosa da raccontare, l’episodio degno da consegnare al cinema, il dolore vero dentro il quale raschiare.

Cast in stato di grazia, dunque, diretto da Sorrentino con la consueta cura maniacale, in cui brilla senza offuscare gli straordinari colleghi l’ormai sodale Toni Servillo nel complesso ruolo di Saverio Schisa, marito non proprio esemplare ma sinceramente innamorato della moglie Maria, padre che elargisce perle di saggezza spicciola con la disinvoltura dell’amico scafato, granitico comunista sedotto dalla vita e dalle sue infinite tentazioni, eterno bambino costretto a forza in abiti adulti.

A Teresa Saponangelo è affidato il compito perfettamente assolto di scivolare nel sorriso dolce, nella risata contagiosa e nelle crisi di rabbia (che migrano, attraverso un cordone ombelicale mai reciso, sull’esile corpo del figlio preso da convulsioni durante quelle crisi) di Maria, madre amata con la forza disperata che si rivolge agli affetti strappati, alle figure che nel ricordo assumono un’aura di luce destinata a riverberarsi negli atti e nei pensieri quotidiani.

Luisa Ranieri è la struggente zia Patrizia, richiamo erotico e amore giovanile da proteggere, donna bellissima affamata d’amore e ossessionata dalla mancata maternità che paga un tributo altissimo al marito (efficace Massimiliano Gallo), accecato dal dubbio che la moglie si prostituisca, anche per aver detto la verità (il berretto a sonagli della follia di Pirandello insegna) sul proprio incontro con San Gennaro (un lestofante cui Enzo De Caro dona la credibilità dei suoi candidi occhi azzurri) e con “o munaciello” della tradizione popolare.

Betti Pedrazzi è una superba baronessa Focale, tocca a lei la sequenza più discussa del film, quella dell’iniziazione al sesso del giovane Fabietto, che si concretizza nel dono di una donna anziana senza più sogni ad un ragazzo spezzato dal dolore, un espediente per rimetterlo in sintonia con la vita dopo l’esperienza della morte, un passaggio scabroso, certo, ma sobrio e dolcissimo, in cui l’impossibilità di sedurre con il corpo avvizzito è sostituita dalla potenza perturbante dei gesti e delle parole e dalla magia della finzione.

Biagio Manna, nel ruolo di Armando, è il contrabbandiere dal cuore tenero che svelerà il senso dell’amicizia al solitario Fabietto attraverso la condivisione di una notte spensierata e manigolda nella Napoli poco frequentata dai bravi ragazzi e nello squarcio notturno e deserto di una Capri scenario di apparizioni felliniane, come quella di Kashoggi che si accompagna ad una giovane donna, deludente metafora della triade assoluta dei desideri umani: ricchezza, giovinezza e bellezza. E infine Dora Romano, nei ridicoli e amari panni della superba e altezzosa signora Gentile, l’unica capace di porgere al funerale, come parole di condoglianze, una terzina dantesca tragicamente pertinente, quella che riporta la scritta sulla porta di accesso all’Inferno, la porta che Fabietto ha appena varcato con il suo lutto.

Le parole più delle immagini cuciono la trama, quelle parole così importanti per il Sorrentino sceneggiatore e narratore anche, anzi soprattutto, quando sono poche, scarne, essenziali. Quasi a voler rimarcare il legame tra narrativa e cinema, Sorrentino attinge, per alcuni divertenti aneddoti di famiglia, ad alcuni suoi precedenti libri – i racconti racchiusi in Tony Pagoda e i suoi amici e il romanzo Hanno tutti ragione – che, come acutamente nota il critico Nicola H. Cosentino, “possono essere considerati una specie di incubatrice del regista, una prima stesura di qualcosa che in futuro avrebbe trovato posto nel cinema”.

E davvero certe parole restano scolpite in mente, come quella pronunciata da Marchino (lo scanzonato Marlon Joubert), il fratello di Fabietto, mentre guardano insieme gli allenamenti di Maradona: “perseveranza”, si chiama così ciò che ha reso una divinità il ragazzo argentino in cerca di riscatto. La perseveranza, quella che Marchino comprende di non possedere nei suoi tentativi di fare l’attore, quella che invece bacerà la fronte di Fabietto.

È stata la mano di Dio a salvare Fabietto, questa almeno l’interpretazione dello zio Alfredo (Renato Carpentieri che non lesina la propria solida esperienza teatrale) di quella circostanza fortuita che ha fatto preferire al ragazzo una partita del Napoli in cui rifulge l’astro di Maradona ad un fine settimana nella casa di Roccaraso con i genitori. È stata la mano di Dio, si potrebbe aggiungere, a guidarlo nelle intricate traiettorie che avrebbero potuto trasformarsi in labirinti se fossero state percorse da passi instabili.

Il treno si allontana da Napoli verso la città eterna con lo sguardo fiducioso del protagonista che ascolta in cuffia Napul’è di Pino Daniele. Una città nel cuore e un’altra nella mente.

Com’è andata a finire è sotto gli occhi di tutti.

È stata la mano di Dio

Data di uscita: 24 novembre 2021

Genere: Drammatico, Biografico

Anno: 2021

Regia: Paolo Sorrentino

Attori: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Ciro Capano, Enzo Decaro, Carmen Pommella, Biagio Manna, Lino Musella, Alfonso Perugini, Sofya Gershevich, Paolo Spezzaferri, Rossella Di Lucca, Antonio Speranza

Paese: Italia

Durata: 130 min.

Distribuzione: Netflix

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino

Fotografia: Daria D’Antonio

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Produzione: The Apartment Pictures

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