Rubare la notte di Romana Petri

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Saint-Exupéry e l’ansia del divino. “Rubare la notte” di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta, 17 giugno 2023

Non sorprende trovare Rubare la notte di Romana Petri, Mondadori editore, nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, quello che stupisce semmai è che una talentuosa, raffinata, poliedrica scrittrice e traduttrice come lei non lo abbia già ottenuto in precedenza e che romanzi straordinari come Ovunque io sia, Le serenate del Ciclone e Figlio del lupo siano stati lasciati semplicemente al loro successo.
Come sempre quando si accosta a personaggi reali – il padre Mario Petri, Jack London ed Antoine de Saint-Exupéry in questo caso – per ricostruirne la biografia, l’autrice parte da dati oggettivi e documentati per introiettarli e poi trasferirli nell’immaginifico flusso vitale che si rovescia addosso al lettore con un tornado di emozioni vive e pulsanti. Così il lavoro certosino condotto sulle fonti (gli scritti anzitutto in quanto emanazione diretta di ogni autore) o nella propria memoria costituisce un sostrato solido ma non ravvisabile, mentre emerge la capacità dell’autrice di penetrare nella zona più intima dei protagonisti e di consegnarli alla fine come amici di vecchia data con i quali poter prendere un caffè al bar con la certezza di una consolidata confidenza.
La precisione delle informazioni e degli aneddoti si concretizzano dunque in una struttura robusta attraverso la quale raggiungere altezze vertiginose. Per l’aviatore Saint-Exupéry l’altezza è il cielo immenso nel quale perdersi per potersi ritrovare come uomo e come scrittore. E in quel blu cobalto da notturno volato e rubato (come concesso dalla lingua francese che utilizza un solo verbo per le due accezioni) si staglia lo sghembo e romantico velivolo, con tanto di pecora e di rosa quasi tatuati sull’ala e in carlinga ad omaggiare il Piccolo Principe, proposto in copertina dall’amica pittrice Rita Albertini (alla quale il romanzo è dedicato), già ispiratrice del personaggio scomodo di Luciana Albertini in Pranzi di famiglia e La rappresentazione e quindi elemento di continuità con gli scritti precedenti, quasi anello di congiunzione tra gli affetti veri e quelli letterari della Petri.

Saint-Exupéry

Tonio bambino e Tonio adulto, due figure che si fondono in un unico personaggio, perché il piccolo Tonio ha pensieri e sogni adulti e il grande Tonio ha sensazioni e nostalgie bambine. L’infanzia felice abita il difficile presente e lo nutre con l’amore materno paziente e discreto, proietta la sua ombra lunga sulle pagine dello scrittore e sulle impennate aeree verso un cielo più ospitale della terra, capace di accogliere nell’azzurro la sproporzione di un corpo troppo massiccio e la parentesi mai chiusa di una condizione di perenne stupore.
Le fluviali lettere alle madre, che la Petri immagina e utilizza come contenitore di emozioni e come fresa per scarificare l’anima, costituiscono il filo conduttore di un romanzo che attraversa le tante stagioni di un uomo complesso – quella letteraria, quella del pilotaggio, quella bellica e quella amorosa – che amava porgersi in maniera leggera, che usava l’arguzia e la capacità oratoria per persuadere e raggiungere i suoi scopi, che annegava dilemmi e ansie in pantagrueliche mangiate e abbondanti bevute, che travasava le proprie esperienze di volo in pagine capaci di accendere l’entusiasmo dei lettori, che indugiava tra mondanità e isolamento, che cercava la tenerezza e la dedizione di tante donne per ottenere almeno un pallido riflesso di un’idea d’amore che non avrebbe mai trovato piena realizzazione in nessuna di esse.
Le lettere erano d’altronde l’unico strumento concesso dall’epoca alla comunicazione più intima e Saint-Exupéry, che nella narrativa amava scrivere per sottrazione, se ne servì senza risparmiarsi facendole viaggiare da un continente all’altro quasi identiche, con piccoli aggiustamenti per destinatarie diverse, dall’ostinato e inscalfibile amore giovanile alle amiche particolari cui sottoporre le opere in fieri, dalla capricciosa e bellissima moglie Consuelo alle amanti occasionali, quasi tutte inizialmente concepite per la madre, unica “riserva di pace”. E in ogni lettera comunque parlare di se stesso significava per Tonio porgere alle sue donne un dono amoroso, offrire un narcisistico momento di condivisione per il quale essergli grate.
Dall’altro lato l’universo maschile, fatto di amicizie importanti, grazie alle quali entrare nel circuito letterario o mantenere la possibilità di volare oltre ogni ragionevole limite d’età, e di rari contatti fraterni e duraturi per i quali nutrire nostalgie e rimpianti, come quello con il vecchio pilota Gavoille cui verrà consegnata la borsa in pelle di cinghiale contenente il manoscritto de La cittadella.

In filigrana compaiono le guerre – per una beffa anagrafica (Saint-Exupéry nacque nel 1900) mai pienamente combattute ad esclusione di quella civile spagnola – che lo infiammano di amor patrio. E per amore dell’amatissima Francia l’ormai osannato scrittore andrà negli Stati Uniti a caldeggiare un intervento americano, ma la manifesta ostilità per De Gaulle gli varrà l’accusa, sempre respinta con amarezza, di collaborazionismo.
Poi l’ultima semplice missione nel ’44 e la scomparsa nel cielo, l’uomo viene inghiottito dal suo elemento naturale per diventare leggenda. Antoine de Saint-Exupéry è tuttora uno degli autori più letti al mondo.
La compattezza della storia non viene scalfita dai tanti salti temporali nei quali la perfezione dell’impalcatura orienta con la precisione di una bussola. Il pensiero corre a briglie sciolte tra cielo e terra, in volo un taccuino su cui appuntare la vita con schizzi e frasi brevi, al suolo un’ansia del divino che insegue l’ipotesi di un Dio personale e silenzioso o di un intero olimpo da mantenere in vita pena la morte.
La memoria livella e riplasma traumi lontanissimi – la morte del padre, uno sconosciuto di cui ritrova le tracce nella materna giovinezza appassita e nel taglio dei propri enormi occhi, e quella del fratello adolescente – e sconfitte recenti, prima tra tutte quella legata ad un rapporto coniugale travolgente e complicatissimo. La stessa memoria restituisce all’occorrenza lo sguardo di un amico scomparso o le sensazioni legate a quell’infanzia paradossale in cui la felicità non era avvertita come tale sul momento, ma era destinata a divenire tangibile e abbagliante nel ricordo. Poi, nel tempo, subentrano l’angustia per i malesseri fisici e l’ipocondria, per cui la questione pressante e mai risolta dell’imparare a morire diviene ineludibile per il pilota che, sempre più spesso, gioca al rialzo e ama durante le missioni “sfiorare la catastrofe e lasciare tutti senza fiato”.

Romana Petri

Esiste una indubbia somiglianza tra la vita di Antoine de Saint-Exupéry e quella di Jack London (protagonista di Figlio del lupo), entrambi sono uomini d’azione e visionari sognatori, entrambi vivono le relazioni con le donne in maniera totalizzante ed entrambi sono fortemente segnati da madri sotto certi aspetti ingombranti ma amatissime, entrambi agognano una paternità che il destino nega loro, entrambi provano un’ansia di movimento che convive con quella della ricerca del porto sicuro, entrambi hanno un rapporto anomalo con il denaro, lo inseguono per sperperarlo, entrambi bruciano in quattro decenni una vita così ricca di eventi da poter equiparare almeno dieci vite comuni. Uomini dalla sensibilità diversa accomunati da un modo particolare di stare nella vita e di uscirne fuori sbattendo la porta, come a dire ne ho abbastanza, sono sazio, ne ho fatto indigestione. E se la scelta della Petri è andata per ben tre volte (se si considera anche il romanzo dedicato al padre) su queste personalità, dev’esserci un’affinità spirituale, un trasporto, un’ossessione che trovano identiche radici, un’inquietudine esistenziale persecutoria che può sublimarsi solo nella scrittura (o nell’arte per il Ciclone) e in quel mondo astratto, ma per certi versi ancora più autentico, che l’immaginazione crea a propria immagine e somiglianza.
La Petri porge la materia narrata con una prosa elegante, corposa, curata, in perfetta simbiosi con contenuti che dalla ricchezza lessicale e dal periodare cesellato ricavano sostanza e spessore. La tentazione della semplificazione, anzi della banalizzazione del linguaggio, che sempre più spesso viene spacciata per scelta stilistica, non l’ha mai sfiorata, non può interessare a chi possiede storie sempre nuove da raccontare e il dominio perfetto di una tecnica di scrittura mai disgiunta dal talento visionario. Nelle sue pagine questi elementi si fondono in maniera spontanea, non se ne avvertono i confini e l’unica percezione ricavabile è quella di una limpidezza di pensiero che si traduce in frasi spesso bellissime. Chi ha l’abitudine di sottolineare, si ritroverà alla fine con un libro fittamente segnato, vissuto rigo per rigo, magnificamente massacrato.
Sono felice di non essere cambiato troppo. Sono ancora convinto che gli uomini siano tutti abitanti dello stesso pianeta, passeggeri della stessa nave.

Romana Petri
Rubare la notte
Mondadori
pp.264
19,00 €

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“Dove manca qualcosa” di Francesca Zanette

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Il castigo del rimorso. “Dove qualcosa manca” di Francesca Zanette, rfb edizioni

@ Agata Motta, 6 giugno 2023

Gradevole esordio narrativo questo di Francesca Zanette che pubblica per la giovane casa editrice rfb Dove qualcosa manca, un romanzo storico ambientato in due snodi cruciali del secolo scorso, quello della Resistenza e, saltando la fase intermedia, quello della ripresa economica del ’58.
I protagonisti sono i membri di una famiglia che ha contribuito alla lotta partigiana pagando, come tante altre famiglie, un tributo altissimo, ma inizialmente ne conosciamo solo due, i fratelli Caterina e Carlo, la prima sposa devota dell’altrettanto devoto Pietro, il secondo scapolo impenitente ormai vicino alla capitolazione. La sorella minore Emma e i genitori emergeranno invece pian piano da un passato ancora troppo recente e grondante di dolore per poter essere accantonato o peggio dimenticato.
L’autrice, attraverso un impianto arioso, quasi in contrapposizione con la chiusura geografica e mentale del luogo e dei suoi abitanti, scrive un romanzo corale che si apre ad una pluralità di voci e prospettive che restituiscono gli ambienti del piccolo paese delle prealpi venete e, sin dalle prime pagine, immette nell’ordito narrativo un tassello destinato ad avviare la danza dei ricordi in un crescendo di tensione manovrato con garbo. Un forestiero piomba nella bottega gestita da Caterina e la sconvolge al primo sguardo. È l’ex tenente tedesco Matthias Rubl, che torna con i suoi occhi azzurrissimi e una Leica al collo in cerca di foto per il suo giornale e soprattutto in cerca di guai a detta della vox populi. Come sempre avviene nei piccoli centri, in cui i ritmi sono scanditi con monotona precisione e i ruoli sono interpretati così come la gente se li aspetta, basta un singolo elemento perturbante a scombussolare l’apparente e sonnacchiosa quiete.
Perché torna quell’uomo nel territorio che lo ha visto nemico? Cosa cerca in un paese in cui, come Giovannino Guareschi insegna, comunisti e democristiani si spartiscono porzioni di piazza e accessi ai bar pizzicandosi con battute pungenti ma sostanzialmente innocue? Tutti portano addosso le ferite della guerra, tutti hanno almeno un morto da piangere e non sempre riescono cristianamente ad accettare chi parla con il maledetto accento del passato bellico e si muove con cortesia e sfrontatezza come se non avesse nulla da temere. E cosa possono volere gli scintillanti occhi del tedesco dalla bella, fiera e riservata Cate?

Francesca Zanette

Naturalmente si scoprirà solo alla fine e nel frattempo si ascoltano in dialoghi spontanei e pregevoli, la cui massiccia presenza spesso è resa sapida da intercalari dialettali, le chiacchiere in bottega tra un acquisto e l’altro, gli asciutti consigli del vecchio prete don Fulvio, in perpetuo bilico tra ascesi e pragmatismo, che conosce ogni singola pecorella del suo gregge e ne custodisce i segreti, le confidenze a mezza bocca di donne sposate che percepiscono se stesse come custodi del focolare domestico pur cedendo a qualche libertina evasione, le finte schermaglie politiche davanti ai bar, le affettuose premure di amiche intente al ricamo.
Particolarmente intense le aspre pagine che raccontano un frammento della Resistenza. Sembra quasi di sentire il tanfo di sudore e l’odore acre della paura di giovani, uomini e donne perché ognuno fece la sua parte, disposti a sacrificarsi e a morire, o di avvertire la sottile gioia nel fare la conta dei nemici uccisi, giovani anch’essi e pieni di sogni, ma “con la divisa di un altro colore” come cantava De André. L’autrice non propone una manichea separazione tra buoni e cattivi, ognuna delle parti in causa lotta per la “propria” verità che naturalmente non coincide con quella dell’altro, si compiono atti eroici e nefandezze come vuole la legge onnivora della guerra.
Grazie ad una prosa scorrevole con brevi concessioni a riflessioni in cui piace immergersi, su questo doppio binario temporale, che vede la partecipazione di Cate e dei fratelli alla lotta partigiana alternata ai capitoli in cui le ventate di novità soffiano sull’Italia contadina a scuoterne il torpore, si corre incontro al disvelamento di segreti nascosti per vigliaccheria o per un malinteso senso del pudore. E può capitare di scoprire che i nemici in realtà non sono tali e che gli amici invece sono serpi che hanno spruzzato veleno restando a loro volta avvelenati, perché il rimorso e il senso di colpa rimangono il più potente dei castighi che gli uomini si impartiscono da soli come diabolici sacramenti.
I tempi non sono maturi per scelte da scontare come peccati, ma la verità è un dono che può illuminare ciò che resta da vivere.

Francesca Zanette
Dove qualcosa manca
rfb editore
pp.266
17 €

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