“Grande meraviglia” di Viola Ardone

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La “Grande Meraviglia” di Viola Ardone per Einaudi Editore

@ Agata Motta, 27 febbraio 2024

Ѐ già al suo terzo romanzo di successo e può respirare la magica atmosfera di un consenso diffuso e quasi affettuoso. Viola Ardone, giovane e talentuosa autrice, possiede la capacità di individuare tematiche di spessore attraverso le quali raggiungere la sensibilità e l’interesse di una vasta platea di lettori, costruendo con precisione microcosmi nei quali entrare in punta di piedi e dai quali uscire in qualche modo arricchiti.

In Grande meraviglia, edito da Einaudi, pur scavando nel dolore della salute mentale, nella nebbia di relazioni familiari inceppate, nelle frustrazioni e nei successi di controverse battaglie sociali e legislative, porge momenti di leggerezza e di incanto, grazie all’ironia lieve dei due protagonisti – la piccola Elba e il dottor Meraviglia – che sono anche le voci narranti delle quattro parti del romanzo. Due prospettive diverse e due vissuti complessi che confluiscono in un comune percorso di crescita professionale e di resurrezione interiore.

La bambina nasce in manicomio e cresce con le tenere cure della sua “Mutti” (“madre” in tedesco, la lingua segreta e oscura della comunicazione più intima), capace di plasmare, dentro l’inferno, una realtà alternativa in cui dare spazio al gioco e alla fantasia, in cui far risuonare il canto quando gli altri insopportabili rumori squarciano il sottile velo della loro complicità. Elba uscirà da quel luogo per qualche anno, giusto il tempo di ottenere i primi rudimenti scolastici dalle “suore culone”, assai poco evangeliche e accoglienti, ma al suo ritorno non troverà più la madre. Le diranno che è morta, ma il suo cuore sa che si tratta di una menzogna e che la madre è stata semplicemente confinata nel luogo del non ritorno, dei malati ingestibili, delle creature dal cervello bruciato dagli elettroshock. Sceglierà dunque di restarle accanto, pur senza vederla, per proteggerne almeno il passato e tutta la “grande meraviglia” che aveva saputo creare per lei. Uscita dall’adolescenza e infranto il sogno di ricongiungersi alla madre, la cui morte reale arriva il giorno fatidico del crollo del muro di Berlino (la riunificazione dell’amata terra d’origine, la Germania, non produrrà purtroppo quella delle tante schegge impazzite della sua psiche), Elba potrebbe vivere la sua seconda possibilità, ma possiede il carattere del fiume sontuoso di cui porta il nome, il semplice fluire degli eventi non le si addice e le ferite del passato continuano a pressare e a dettare le proprie leggi.

Ad affiancare Elba, in un arco temporale che va dai primi tentativi di applicazione della legge Basaglia ai giorni nostri, troviamo il dottor Fausto Meraviglia (dal nome oltremodo simbolico) idealista e affamato di vita, che sceglie di salvare Elba e di farne la figlia “d’elezione”, dopo aver mantenuto una relazione distratta e superficiale con la famiglia – una bellissima moglie e due figli – in costante ricerca di attenzione.

L’autrice gli cede spazio e voce quando è ormai vecchio e provato. Lo scintillìo della giovinezza era già arrivato al lettore attraverso le parole di Elba e torna in ampi flashback illuminati dal diverso punto di vista dell’uomo. Ritrovarsi comodamente seduto in poltrona ad ascoltare le chiacchiere di donne borghesi in difficoltà dopo aver lottato per mettere fine alle condizioni disumane in cui versavano i malati internati nei manicomi, dopo aver tentato di donare loro la dignità, dopo averne curato le piaghe in suppurazione con la psicanalisi invece che con la contenzione e l’elettroshock, produce un senso del fallimento, lascia il sapore amaro di una rinuncia alla libertà e all’amore, elementi che in lui camminavano di pari passo. Eppure di amore lui ne aveva dispensato tanto, disinteressato, gratuito, caparbio, amore per le vittime di una società che puniva gli uomini inadeguati e sofferenti e soprattutto le donne, che da altri uomini forti e rispettabili potevano essere facilmente internate per comportamenti ritenuti immorali o comunque non inquadrabili nella ferrea logica del “socialmente accettabile”. Il dottorino dai baffi rossicci era riuscito a guardare negli occhi di quanti non erano stati capaci di indossare la maschera pirandelliana delle convenzioni, era riuscito a leggere il dolore di ciascuna di quelle larve umane a costo di scontrarsi con il sistema – incarnato dal dottor Colavolpe, dispensatore di caramelle colorate in grado di sedare ogni stravaganza e di terapie violente dalle quali spera di ottenere un effetto deterrente – e di pagarne le conseguenze. La vecchiaia lo travolge naufrago e solo, con le uniche compagnie del gatto e di un amico giornalista testimone delle sue lotte idealiste, amareggiato soprattutto per l’abbandono dell’unica creatura sulla faccia della terra che abbia amato e aiutato senza risparmio, con la determinazione di chi spera che dalla salvezza del singolo possa derivare quella del mondo intero.

La speranza però filtrerà ancora nel cuore ingrigito e cupo del bizzarro dottore dei pazzi, che in fondo un po’ di pazzia ha trattenuto con sé, tramite la riappropriazione della paternità, quella che aveva sacrificato al lavoro e alla dedizione ai pazienti. Seppur in catastrofico ritardo, il dottor Meraviglia accetterà che i figli non si scelgono e non si giudicano, vivono le proprie esperienze e non quelle che i genitori desidererebbero per loro, comprenderà di aver soltanto attraversato e non vissuto la famiglia amata in controluce.

L’autrice posa uno sguardo rivelatore anche sui figli che subiscono la personalità strabordante ed eccentrica dei genitori, sulla difficoltà di intraprendere il proprio cammino senza subire troppi danni e senza assecondare l’istinto, sempre in agguato, di voler deludere il genitore inarrivabile, forse per riceverne finalmente la cura e l’accudimento.

Felici e dense di umana partecipazione risultano nel complesso le parti dedicate al manicomio con il suo corteo di anime perse e corpi disfatti, di infermiere e personale medico, tragici custodi/carcerieri di un’umanità di scarto, mentre risulta a tratti meno ispirato il racconto della tentazione suicida del vecchio Meraviglia, rimasto solo con i suoi nodi irrisolti e i suoi fantasmi.

La lingua scelta per dar voce ad Elba, zeppa di rime, ripetizioni, metafore è indubbiamente la nota più originale di questo romanzo che sa scendere negli abissi della follia con lo sguardo straniato e puro della protagonista che osserva e descrive l’unico mondo conosciuto e accessibile, il “mezzomondo”, dentro il quale anche la vita “normale” che scorre all’esterno arriva a spizzichi e bocconi con le sue lusinghe e le sue più numerose brutture. Ma una volta fuori, una volta liberi, quel mondo che ha riconquistato l’altra metà, non sarà una passeggiata su campi di papaveri. Per qualcuno sarà conferma di inadeguatezza, per altri inserimento nei rugginosi meccanismi lavorativi, per Elba una luce che non illumina ma lambisce attraverso un bacio destinato a non produrre amore e attraverso una conferma di vocazione all’ascolto dell’altrui dolore.

L’empatia come salvezza personale e come messaggio di speranza.

Viola Ardone
Grande Meraviglia
Einaudi editore
pp.299
18,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2024/02/29/la-grande-meraviglia-di-viola-ardone-per-einaudi-editore/

https://www.articolo21.org/2024/03/la-grande-meraviglia-di-viola-ardone-per-einaudi-editore/

“Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta

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Il sovrano che tutto livella. Il giorno del Giudizio di Salvatore Satta, Adelphi editore

@Agata Motta, 6 febbraio 2024

Quando può dirsi conclusa la vita di un essere umano? Con la morte sembrerebbe ovvio rispondere, liberazione o approdo, se giunta in età matura, insulto o capriccio, se stroncata prima di dispiegarsi completamente. E il pensiero della morte istintivamente non può essere disgiunto da un bilancio, da una riflessione sul senso e sull’utilità dei propri passi mossi sulla Terra.

Ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, pubblicato postumo e consegnato al successo dalle edizioni Adelphi, i giorni andati, con il loro corredo di dolore, aspettative e sogni infranti, vengono riacciuffati e ripensati partendo proprio dalla fine, perché forse solo iniziando dalla conclusione è possibile sostanziare il passato. Il Tempo è l’unico vero sovrano che tutto livella, vita e morte si mescolano con un andamento che sembra dominato dal caso. L’illusione foscoliana di una sopravvivenza affidata al ricordo di chi, ancora vivente, la alimenta, è sostituita dall’opposto bisogno di essere “liberati dalla vita” attraverso l’atto della narrazione, quella vita che per legge di natura prende il sopravvento, scavalca il transeunte e si perpetua, paga del proprio trionfo.

Al cimitero della città d’origine, Nuoro, torna un anonimo narratore (nel quale è legittimo intravedere lo stesso autore) che sente di essere ormai vicino alla fine. Ha fatto un lungo viaggio per rivedere i luoghi dell’infanzia e percepirne forme e odori, per riconoscerli forse e ritrovare quel troncone della propria vita che lì ha avuto origine e che lì è rimasto conficcato mentre la restante parte si è spezzata per svolgersi altrove. Ha condiviso quel lembo di terra con i tanti personaggi che come spettri inquieti attendono di essere riesumati dalle parole per essere consegnati, almeno sulle pagine di un libro, al supremo giudizio degli uomini e di un Dio che appare indifferente spettatore di una commedia umana dalle tinte fosche.

Impossibile non collocare il romanzo nel solco magnifico e visionario dell‘Antologia di Spoon River, per quell’atmosfera sospesa tra sogno e realtà nella quale i defunti (i dormienti sulla collina di Edgar Lee Masters) possono materializzarsi nella mente dell’autore ed essere consegnati ai posteri, con le loro storie, tutte le storie, da quelle intrise di fallimento e miserie a quelle apparentemente lustre e appaganti. Il romanzo è comunque pregno di altri evidenti rimandi letterari: le descrizioni crude e realiste del territorio sardo già appartenute alla Deledda, la poetica verghiana dei vinti, l’aristocratico fatalismo di Tomasi di Lampedusa. E letterario risulta anche il linguaggio, colto e sostenuto sul piano sintattico e su quello lessicale.

La storia della famiglia Sanna Carboni, ritratta tra la fine dell’Ottocento e gli anni successivi alla Grande Guerra in un itinerario segnato inizialmente dal benessere sino alla progressiva dissoluzione, si porge come filo conduttore alla capacità evocativa del narratore chiamato a raccontare del notaio, retto e lavoratore indefesso, della moglie, donna Vincenzina, e dei loro numerosi figli.

Inizialmente Satta quasi si inebria nella descrizione della città a lui cara e i primi capitoli, che ne tracciano origine, strade e quartieri con estrema minuzia, ne risultano appesantiti e rendono ostico l’approccio al testo, ma durante il suo percorso di messa a fuoco delle vicende dei Sanna Carboni il narratore viene distratto, chiamato, quasi strattonato dai tanti altri personaggi che in qualche modo sembrano rivendicare attenzione e memoria. Il racconto diventa allora sontuoso perché sviscera vizi e virtù di una società chiusa nel bozzolo dell’identità isolana ma sensibile alle lusinghe del continente, pigra al dibattito politico ma consegnata alle manovre di mediocri personaggi e di apparati ecclesiastici assai abili nelle strategie persuasive, inconsapevolmente avviata alla sciagura bellica della quale giungono solo bagliori lontani o rapaci richieste di giovani vite. Come in una allucinata processione sfilano maestri, ereditieri, prostitute, prelati, sacerdoti, dementi, contadini, pezzenti, beoni, serve, zitelle, una commedia umana con piena vocazione tragica alla quale si assiste da vicino restandone però intimamente distanti. Al lettore Satta, che si interroga sulla funzione della sua scrittura rivelatrice, non chiede infatti giudizi né compassione, sebbene quest’ultima sorga prepotente in certe pagine in cui gli umili subiscono offese crudeli e gratuite.

Ai figli del notaio, che lui vorrebbe crescere come naturali propaggini di se stesso, sembra destinato un futuro di studi e successi, ma naturalmente non sarà proprio così. A quei ragazzi, tutti maschi, se si escludono le due femmine morte in tenerissima età, la vita riserverà cadute e risalite determinate da indoli particolari o da eventi avversi, alcuni ineludibili perché generati dalla grande storia. La madre, un tempo bellissima ma ormai sformata dalle gravidanze e rallentata dall’artrite, può solo limitarsi a osservarli come una chioccia amorosa, a palpitare per i loro silenzi, a farsi divorare dall’ansia per la lontananza.

Il Tempo, si diceva, il tempo infine avvolge e travolge, e quando si assottiglia impone i ricordi come ultima fiammella prima che lo stoppino finisca di bruciare.

Salvatore Satta

Il giorno del giudizio

Adelphi editore

pp.292

€ 13,00

https://www.scriptandbooks.it/2024/02/06/il-sovrano-che-tutto-livella/