Mese: aprile 2024
Recensione di Lucia Tempestini ad”Anime sperse” a cura di D. Ferrante
Punto di (s)vista, Letteratura, Anime sperse, Agata Motta, Tabula Fati
Il ronzio della falena. “Anime sperse”, ed. Tabula Fati
@ Lucia Tempestini, 19 aprile 2024
Fa piacere che, un poco alla volta, in Italia si stia superando il giudizio negativo di Manzoni sull’uso di elementi fantastici in letteratura. Non sono mancati nel Novecento i raffinati frequentatori dei mondi che si nascondono, e si rivelano, dietro lo Specchio: Landolfi, Buzzati, Soldati, l’immensa Ortese, tutti consapevoli che la realtà – l’inesistente realtà – è soltanto un maligno, fuorviante inganno, il maldestro gioco di prestigio di qualche Sik-Sik da teatrino di paese; un fazzoletto di tessuto dozzinale gettato sul capo dello spettatore affinché non possa vedere quel misterioso squarcio nel fondale che lo condurrebbe a perdersi – e ritrovarsi – in labirinti e abissi, a scomporsi in riflessi e rivolgere la parola alla propria Ombra.
Eppure, nonostante questa nobile prosapia, il soprannaturale continua ancora oggi a non godere, alle nostre latitudini, della considerazione che meriterebbe e che gli viene tributata altrove. Così, i lettori tendono a rivolgersi alla letteratura anglo-americana per appagare l’umano bisogno di trascendenza di cui scrive Shirley Jackson in L’incubo di Hill House (ed. it. Adelphi): Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano.
Quindi, ogni iniziativa editoriale capace di arricchire la trascurata letteratura di genere è motivo di gioia, compresa l’antologia Anime sperse, curata da David Ferrante per Tabula Fati. Si tratta di racconti di fantasmi ispirati a leggende popolari d’Abruzzo e Molise, e nei testi si avverte qualche reminiscenza di Deledda e Serao.
Più in dettaglio, leggiamo di presenze che, per via di una morte violenta, improvvisa, non riescono a staccarsi dalla dimensione terrena e si aggirano in una sorta di limbo, di terra di nessuno, tornando continuamente ai luoghi e alle persone che sentono ancora propri.
Riluce fra i vari racconti, per originalità e profondità, Vuoto a perdere di Agata Motta.
All’interno di una struttura circolare abilissima e avvincente, l’autrice ci fa sentire sotto la pelle, con voce appena sorniona, il disagio crescente della protagonista, pianista di mezza età dal corpo appesantito che ha accettato un ingaggio in un paesino di pietra bianca, un nido d’aquila nel cuore del Gran Sasso: tre strade in croce rischiarate di notte dalla luce affiochita di qualche lampione. L’unica passeggiata possibile per una creatura del mare com’è la musicista è rappresentata dal sentiero che conduce a una panchina situata in prossimità dello strapiombo: un vuoto colmo di azzurrità, insidioso simulacro marino.
Intrattenere i montanini abulici che la sera pascolano ruminando all’Orso bruno non è certo di rimedio al male di vivere, al senso di inutilità e fatica, ai fantasmi che stringono d’assedio Luisa senza concederle riposo.
Fin dalle origini dell’uomo, apparizioni diafane e insanguinate si sono approssimate alla vista dei vivi per ripetere all’infinito le circostanze di una morte percepita in tutta la sua ingiustizia, spesso prematura, quasi sempre brutale. Lemuri in cerca di un’impossibile seconda occasione, più spesso una vendetta; la stessa inseguita da Lucia, morta molti anni prima in un incidente d’auto mentre alla guida si trovava la sorella Luisa.
Persegue la vendetta con un rancore ridacchiante, esibendo le ferite aperte, il viso segnato, la giovinezza interrotta, il desiderio inestinto di vivere ancora, o almeno di pareggiare i conti, finalmente.
Le sue risatine discrete appaiono moleste come lo scricchiolio della falena che turba la colazione in terrazza di Luisa, in apertura di racconto – patate bollite, capperi e fette di pomodoro piluccate di malavoglia. L’insetto finisce miseramente ucciso, almeno così pare, con due colpi di giornale. È da questo episodio – l’agonia del lepidottero sgraziato e petulante sovrapposta alla scomparsa di Lucia – che prende avvio lo smagliarsi rovinoso delle difese di Luisa, la frana della mente davanti all’impossibilità di superare il rimorso.
La falena riapparirà alla fine, durante una frugale cena di Luisa con il vicino Gianluca, per morire fra i resti del pasto con le ali spalancate e un ronzio simile alla risata sommessa di Lucia, precipitando Luisa nel panico. La donna fuggirà verso il sentiero, correndo a fatica mentre il torpore della corsa risale dalle caviglie alle anche. Via, col respiro che annaspa, verso la panchina, oltre la panchina, verso quel vuoto buio dove infine potrà dimenticarsi.
Curatore: David Ferrante
Editore: Tabula Fati
Anno edizione: 2024
In commercio dal: 1 marzo 2024
Pagine: 224 p.
EAN: 9791259882660
Incontro con l’autrice Agata Motta a Palermo
“Baumgartner” di Paul Auster
Saggistica breve, Letteratura, Paul Auster, Einaudi Editore, Baumgartner
Le onde lunghe del dolore. Baumgartner di Paul Auster per Einaudi Editore
@ Agata Motta, 7 aprile 2024
Il dolore, anche quello più lacerante e profondo, non uccide, mantiene chi lo ha provato in una zona di confine tra la tentazione dell’autodistruzione e la pulsione alla vita. Una vita monca, imperfetta – ma la vita lo è sempre anche nelle migliori condizioni – inaridita, piena di buche come una strada male asfaltata, costellata di piccole vertigini e continui vacillamenti, ma pur sempre una vita che continua malgrado tutto. Di questo dolore e delle sue infinite mutazioni si occupa l’ultimo romanzo di Paul Auster, Baumgartner, Einaudi editore, che torna alla perdita della persona amata, già presente in precedenti romanzi come Uomo nel buio o Il libro delle illusioni, ma vi aggiunge una consapevolezza nuova, una maggiore saggezza nutrita da un bilancio filosofico ed esistenziale condensato in poco più di 150 pagine attraversate da innumerevoli forze centrifughe che vengono con pazienza disciplinate e ricondotte al nucleo centrale.
L’autore racconta una fase particolare della vita del professore Seymour Baumgartner, filosofo e saggista giunto al decimo anno della propria desolata vedovanza, con il consueto stile rassicurante che si snoda in un’elegante e sinuosa ipotassi che talvolta precipita in frasi brevi e lapidarie. Il protagonista viene inizialmente presentato attraverso piccoli contrattempi quotidiani ‒ un pentolino bruciato e la conseguente scottatura della mano, una rovinosa caduta dalle scale, un dialogo strampalato con il logorroico letturista dell’azienda elettrica ‒ tra i quali si destreggia a fatica. Anziano, distratto e brontolone Baumgartner cerca il proprio benessere anzitutto nella casa-mondo in cui si muove, uno spazio che deve garantirgli la quiete, quasi a compensazione di ciò che gli è stato sottratto, ma l’ironia che avvolge le pagine iniziali, e che continua a affiorare nel corso della narrazione, lascerà pian piano spazio ad una profonda riflessione sul lutto e sulle sue ripercussioni emotive e soprattutto sul senso della vita che, in realtà, continua a sfuggire al protagonista tanto quanto all’autore.
Auster si affida a un narratore esterno per guardare con maggiore obiettività dentro le giornate poco sensazionali e il triste grigiore di chi si avvia a passi incerti verso una vecchiaia da reinventare o forse per prendere pacatamente le distanze dalle tempeste interiori dell’anziano professore, che si sono ormai trasformate in onde lunghe che aggrediscono la battigia come una carezza pregna di solitudine e malinconia. Ma è una scelta dalla quale scantona più volte con incursioni nel territorio del metaromanzo e con la cessione della voce alla moglie assente che parla attraverso i suoi scritti. Ancora una volta Auster sceglie un protagonista scrittore, dunque un alter ego, ed è proprio l’attività dello scrivere ad essere scandagliata e a divenire oggetto di indagine e di narrazione, come in certi romanzi di Pascal Mercier o di Graham Greene.
Il saggio sulla “sindrome dell’arto mancante” nel quale Baumgartner si immerge rende perfettamente l’idea di quanto la parte mancante del corpo, o nel suo caso la parte mancante dell’anima, possa ancora essere fonte di un dolore indescrivibile e indegno. L’uomo, che razionalmente ha ripreso quasi subito a insegnare, a scrivere, a produrre, a interessarsi all’universo femminile dopo quarant’anni di assoluta dedizione alla moglie, sa di essere tuttora pericolosamente vicino alla zona rossa della follia dentro la quale, nei mesi successivi al lutto, stava per precipitare. E si meraviglia, come sanno fare gli anziani che hanno molto visto e ascoltato, di essere in grado di emozionarsi ancora, pur comprendendo che si tratta delle fredde e precarie emozioni di chi avverte di essere intimamente morto. La porzione di vita che aveva avuto il privilegio di vivere con la persona amata si è esaurita all’improvviso per un tragico incidente in mare, il mare che lei affrontava come l’abbraccio voluttuoso di un amante, lo spazio sconfinato che coincideva con il suo naturale bisogno di libertà. Ciò che è rimasto del tempo è divenuto per l’uomo il prima e il dopo, quando lei non era ancora comparsa nel suo orizzonte e quando lei in quell’incolpevole pomeriggio è tramontata. Le tracce della presenza di Anna, quelle incancellabili, perché costituite da avvii della memoria legati a oggetti, odori, musiche, situazioni, continuano a palpitare e si trasformano in persecuzioni, in larvati sensi di colpa o in dolcissime nostalgie. E in rapidi fotogrammi appaiono gesti, sguardi, parole di quella donna sconosciuta al lettore che si svela nei modi in cui l’assente bussa alla vigile attenzione di chi resta, più nelle piccole cose che in quelle importanti, l’ordinarietà che cementa il quotidiano di una coppia in sintonia.
Che sia sogno o visione diurna non importa, Baumgartner riuscirà a parlare con lei e capirà che deve lasciarla andare, che i morti non devono essere trattenuti nel luogo dal quale si sono distaccati, che non appartengono più ai vivi, che il riverbero del loro amore non deve trasformarsi in un cono d’ombra protettivo sotto il quale crogiolarsi in attesa che il dolore cessi di far male.
Ecco, il romanzo porge momenti altissimi proprio in tutto questo scavare nel dolore presente e passato, in tutte quelle piccole riflessioni, buttate lì come un inciampo sulla pagina, che davvero restituiscono in perfetta simbiosi malessere e lucidità, ragione e sentimento, e rappresentano l’espressione perfetta e tersa di quanto poco la morte possa tradursi in assenza. I ricordi, dai più banali e apparentemente insignificanti a quelli fulgidi di momentanee felicità, sostengono l’ordito così come le piccole vibrazioni del presente. Il giovane Baumgartner era già ben conscio del valore del momento in corso, della bellezza di un sorriso baciato dal sole, di quanto un giorno lo avrebbe rivissuto con lo strazio delle cose perdute.
Elementi autobiografici compaiono nelle dettagliate ricostruzioni delle rispettive famiglie d’origine. Si comprende che portare alla luce quei reperti accarezzati dall’affetto corrisponde all’intima necessità dell’autore di un ancoraggio alle proprie radici, ma nel contesto si collocano come piccole forzature e inutili distrazioni. Anche il tentativo, non riuscito, di Baumgartner di contrarre un nuovo matrimonio con una donna dalle caratteristiche opposte a quelle che erano appartenute ad Anna risulta puramente funzionale al dispiegarsi dello stupore per la rinnovata capacità di amare dell’uomo, nonostante la vita umana non sia altro che un carosello di auto impazzite “sulle autostrade della solitudine e della morte possibile”, come recita un altro saggio sul quale il professore ha lavorato.
La prospettiva di dare luce e visibilità alla produzione poetica della moglie, rimasta sempre volutamente una questione privata non destinata al pubblico, potrebbe determinare un nuovo approccio con la memoria della perdita e con la vita, la sopravvivenza forse potrebbe trasformarsi in altro anche in tarda età, ma il condizionale è d’obbligo perché il finale resta aperto e lascia nel lettore un leggero fastidio o una larvata delusione.
Da sempre sedotto dalla logica della casualità e dal trambusto delle tragedie scagliate sulla Terra come fulmini divini, Auster tronca all’improvviso quello che probabilmente sarà il suo ultimo romanzo, non senza aver disseminato indizi di non univoca interpretazione. Possiamo leggervi vitalità e speranza o forse un tortuoso tragitto verso l’autodistruzione o forse, molto semplicemente, la malattia non ha permesso all’autore di continuare il lavoro.
Scrivere di un’assenza per confermare la propria presenza: questo l’esito più alto di questo breve, denso, potente romanzo.
Paul Auster
Baumgartner
Einaudi editore
pp.153
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