“Anna Karenina & I”di Tommaso Mottola

Cinema, Teatro, Saggistica breve, Eventi

Immersione sacrale in un altro Io. ‘Karenina & I’, capolavoro atipico di Tommaso Mottola

Possono bastare 85 minuti di film per restituire allo spettatore un autore immenso come Tolstoj, un personaggio femminile eterno come Anna Karenina, un’attrice intensa come la norvegese Gørild Mauseth, una ricerca interiore trasversale che appartiene a tutti i nomi schierati in campo e uno sguardo penetrante sui meravigliosi paesaggi europei e asiatici che vivono e respirano nella stessa magnetica atmosfera? L’impresa realizzata dall’ottimo Tommaso Mottola nel dirigere Karenina & I  riesce a soddisfare nel migliore dei modi tutte queste ambiziose esigenze e corrisponde ad un ideale artistico che scardina la gabbia delle consuete catalogazioni in generi per conciliare compiutamente teatro, letteratura, cinema e vita in un’unica travolgente narrazione.

Il film racconta della sfida affrontata dall’attrice, quella di recitare Anna Karenina in russo, lingua del tutto sconosciuta. La proposta le giunge a Venezia, dopo la lunga tournée norvegese che aveva avuto per oggetto lo stesso lavoro, e lei se ne innamora immediatamente in ciò sostenuta dal marito regista che vi legge un’ulteriore sfida in cui la posta in gioco è altissima sotto il profilo umano e professionale. Così Gørild Mauseth affronterà un viaggio di 11.000 km in treno con il marito e il figlio ancora piccolo, quasi dell’età del figlio di Anna Karenina, e il loro percorso come famiglia procederà di pari passo con quello artistico e con il tentativo di recupero memoriale di un tempo fermo e rimosso che si prospetta per l’attrice come riconquista di se stessa e redenzione delle proprie fratture interiori. Con la cuffia alle orecchie che le porge ossessivamente brani del lavoro da interpretare e l’inseparabile agendina su cui annotare la pronuncia di ogni singola parola e i tanti appunti cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, Gørild Mauseth litiga con una lingua sconosciuta nel tentativo di addomesticarla, vuole parlare la lingua di Anna, vuole conoscere la donna che è stata, non il personaggio, vuole comprendere le ragioni che hanno spinto Tolstoj a scegliere un personaggio con il quale condividerà in qualche modo la sorte (l’abbandono della famiglia e la morte in una stazione ferroviaria) e a scoprire cosa vi abbia nascosto.

“Se è vero che ci sono tante sentenze quante teste, dunque ci sono tante specie di amore quanti sono i cuori” recita Liam Neeson (presente nel film anche come appassionato co-produttore), star internazionale che si rivela presenza preziosa e discreta nel donare la propria intensa voce a Tolstoj attraverso alcuni passi del suo romanzo. Ed è così che va inteso l’amore di Anna, una specie di amore che non cerca condanne o assoluzioni, il suo personale modo di intendere un sentimento travolgente ed inopportuno nella società in cui si trova a vivere.

Il regista non cede alla tentazione del road movie e grazie al superbo montaggio di Michal Leszczylowski, che seleziona e accosta inquadrature preziose e utilizza gli stacchi netti in funzione fluidificante, riesce paradossalmente a rendere snella e agile una materia che si dipana lentamente come il processo creativo che ha portato il grande autore russo alla definizione di un’immagine muliebre che è rimasta nel cuore e nell’anima dei lettori come una sorella o un’amica di cui si riconosce l’errore ma che va compatita in quanto “ostaggio delle proprie emozioni”. Karenina & I  non possiede neanche l’aridità di un certo modo di fare documentari e non ha nulla a che spartire con i pregevoli film sul teatro alla Kenneth Branagh o con quelli che riprendono integralmente per il grande schermo gli spettacoli del genere di Uomini e topi di Anna D. Shapiro e Skylight di Stephen Daldry.

Qui le sequenze teatrali sono saldamente intrecciate alla struttura del film e diventano esse stesse materia narrativa e puro godimento estetico. I tanti inserimenti in ordine sparso della fatidica “prima” illustrano i momenti topici della narrazione di Tolstoj rendendoli comprensibili anche a chi non conosce il romanzo e ciò che per sua natura avrebbe bisogno di tempi più distesi trova un assetto compatto e suggestivo che consente allo spettatore di essere catapultato nella magia della costruzione e della rappresentazione dell’evento. Ecco perché appare una scelta illuminata quella di portare il film inizialmente nei teatri con una tournée di tre date – sabato 9 marzo al Teatro Argentina di Roma, lunedì 11 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano e lunedì 18 marzo al Teatro Mercadante di Napoli – durante le quali saranno presenti sia l’attrice che il regista, e poi nelle sale cinematografiche.

Considerato il valore “sacrale” di immersione in un altro Io – paventato dall’amica e attrice Julia Aug che le prospetta un sofferto processo di identificazione: “quando indosserai il suo vestito ho paura che diventi la tua pelle”- e quello letterario di “inchiesta” – inteso come ricerca di sé, del personaggio e dell’autore – è logico che la peregrinazione in transiberiana fino a Vladivostok, meta finale in cui l’attende la grande prova, debba avere delle tappe necessarie come pellegrinaggi di fede. Bisogna credere fortemente perché avvengano le cose, e non è un caso se la battuta viene detta in presenza di un monaco ortodosso del monastero delle isole Solovki, luogo tristemente noto in cui Stalin fece erigere il primo gulag e luogo mistico in cui il segno della croce davanti ad un altare compiuto da Gørild rimanda a quello di Anna Karenina, il gesto abituale che “suscitò nella sua anima una serie di ricordi verginali e infantili”, quello che squarcia l’oscurità e illumina il passato, quello che la fa gettare tra il primo e il secondo vagone del treno in corsa.

L’attrice cerca Anna e il suo creatore in ogni luogo, mentre si interroga su chi siamo e da dove veniamo. Ulteriori tappe del pellegrinaggio sono l’elegante e signorile S. Pietroburgo che ha accolto Anna bambina, sposa e madre, Mosca e la casa di campagna che hanno visto i tormenti di Tolstoj, Novosibirsk che segna la metà del viaggio dell’attrice e il fiorire dei dubbi sulla riuscita dell’impresa, il lago Baykal in cui bagnarsi per diventare una vera donna russa. E in ogni nuovo luogo nuovi incontri per confrontarsi, per conoscere le opinioni della gente comune e quelle degli artisti, per immagazzinare impressioni momentanee e sollecitazioni durature. Le riprese indugiano sulla donna e sull’attrice, ne restituiscono lo sguardo assorto e ubriaco di bellezza con soggettive e panoramiche di squisita finezza e di grande pregio estetico, la bloccano in primi piani che scrutano il viso bellissimo per coglierne le tante sfumature espressive e in campi medi sul “moto fisico” di attraversamento di spazi sterminati che corrisponde al “movimento interiore”, alla ricerca di qualcosa di indefinibile che si farà chiaro soltanto alla fine dell’avventura.

E davvero ogni singola scena è talmente intrisa di rimandi visivi e di corrispondenze interiori e formali che bisognerebbe segnalarle una per una, dall’accostamento degli inquieti cavalli in movimento alle statue equestri e al temperamento del personaggio di Anna all’inquadratura attraverso il semicerchio del finestrino del treno sul basso caseggiato turchese della stazione di Novosibirsk e sulla statua bianca dell’atleta proteso nello sforzo, dal pedinamento attuato dall’occhio famelico della macchina da presa sul movimento continuo della donna nei preziosi abiti di scena – nero, bianco e rosso – tra incantati boschi di betulle, luccicanti distese di neve, anonime stazioni ferroviarie all’immagine anaforica della bambina vestita di rosso che si riverbera nell’attrice vestita dello stesso colore.   “Tentare di arrivare a quella piccola bimba”, è proprio questa l’intenzione di Gørild, la bambina vestita di rosso simboleggia quell’infanzia lontana della quale entrambe le donne, l’attrice e la protagonista del romanzo, devono impossessarsi per comprendere se stesse e tutto quel capitolo di vita che ha bisogno di essere illuminato e portato allo scoperto.

“Quel che è insopportabile è non poter estirpare il passato dalle radici, ma se ne può disperdere la memoria” suggerisce ancora la voce di Liam Neeson. Sono le parole iniziali del film sigillate in perfetto contrappunto da quelle conclusive dell’attrice: “Tolstoj aveva creato Anna per disperdere il suo passato, io non lo farò”. La scelta dunque è quella del ritorno in Norvegia, il filo reciso da un brutto incidente durante l’adolescenza va riannodato, il destino che sembrava volerla separare definitivamente dalla propria terra ve la riporta attraverso tortuosi sentieri, il recupero delle proprie radici è necessario per ridefinire un’identità altrimenti minacciata. Infine la donna scia su un paesaggio ghiacciato che le appartiene – in un rapporto di circolarità visiva con la scena iniziale in cui la stessa donna camminava instabile sulla neve – il solco che si lascia alle spalle è un binario che non porta morte ma nuova vita, resurrezione.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/03/07/immersione-sacrale-in-un-altro-io-karenina-i-capolavoro-atipico-di-tommaso-mottola/

anche su Articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/03/immersione-sacrale-in-un-altro-io-karenina-i-capolavoro-atipico-di-tommaso-mottola/

Regia: Tommaso Mottola
Anno di produzione: 2017
Durata: 86′
Genere: docufiction/teatrale
Paese: Norvegia
Produzione: Orto Polare
Data di uscita: 09/03/2019
Ufficio StampaLo Scrittoio

Con:
Gorild Mauseth (Anna Karenina)
Liam Neeson (Leo Tolstoj)
Sonia Bergamasco (Se stessa)
Valentin Zaporozhets (Vronsky)
Fekla Tolstoy (Se stessa)
Evgeny Veigel (Karenin)
Vladislav Yaskin (Levin)
Kristina Babchenko (Kitty)
Denis Nedelko (Stephan)
Yana Myalk (Dasha)

Soggetto:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Sceneggiatura:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Musiche:
Philip Glass
Michael Nyman
Lars Ardal

Montaggio:
Michal Leszczylowski

Fotografia:
Andreas Ausland
Tommaso Mottola
Gleb Teleshov

Produttore:
Gorild Mauseth
Liam Neeson

Voce Narrante:
Liam Neeson

“Preludio alla follia” di Daniela Di Benedetto

Saggistica breve. Letteratura

Distorsioni percettive di una scrittrice. ‘Preludio alla follia’ di Daniela Di Benedetto, Pietro Vittorietti Edizioni

”Tutto andava come doveva andare”. E’ l’incipit spiazzante del romanzo Preludio alla follia di Daniela Di Benedetto, autrice palermitana alla sua ventesima pubblicazione, edito da Pietro Vittorietti. E’ spiazzante perché la rassegnata quiete che vi si avverte o, come si capirà subito dopo, la presa di coscienza di una vita nuova che comincia a cinquantacinque anni per la protagonista Lisa, avviene nel giorno del funerale della propria madre. La morte della madre, a qualunque età avvenga e in qualsiasi condizione, dovrebbe sempre rappresentare un evento traumatico perché va a recidere le radici, sia che esse siano state immerse in torba scadente senza principi nutritivi vitali sia che abbiano tratto linfa corroborante da un terreno fertile. In Lisa, invece, nessuna lacerazione visibile e quelle lacrime che tutti si aspettano non hanno nessuna voglia di sgorgare.

Il lutto in lei si è già compiuto molto tempo addietro, quando la coscienza della propria “diversità” – racchiusa in un altissimo quoziente intellettivo accompagnato da una sostanziale incapacità empatica e da un fastidio epidermico per situazioni ai limiti della normalità – le ha consegnato la capacità di vedere oltre la superficie delle cose e la consapevolezza di una vita destinata ad essere difficile e in permanente urto con le convenzioni e i doveri sociali. Un dono e una condanna, a seconda dei punti di vista, ma il primo si perderà tra i rivoli di un’esistenza in cui le passioni dovranno farsi spazio a spallate per sopravvivere e per restituire senso a ciò che ai suoi occhi appare incomprensibile e assurdo. Quali passioni, dunque, bruceranno senza fine nell’animo della bella, ombrosa e ferocemente sarcastica Lisa? Quella per un uomo, al quale resterà fedele come amante quasi casta fino alla morte di lui, e quella per la scrittura, alla quale si aggrapperà in un’operazione salvifica di scavo e di recupero memoriale o di immaginazione sbrigliata nella quale costruire con vulcanica energia altri mondi percorribili dai personaggi usciti dalla sua penna.

Senza tanti giri di parole la Di Benedetto instaura subito una relazione ben precisa tra se stessa e la protagonista, definita alter ego, che talvolta si esprime in prima persona (in un evidente corsivo) mettendo a nudo sensazioni, riflessioni e commenti, mentre per la maggior parte della storia compare dietro un narratore eterodiegetico che, attraverso la focalizzazione interna, ne restituisce sempre e comunque il punto di vista.

La narrazione semplice, fluida e scorrevole sotto il profilo linguistico, gioca ambiguamente con il lettore, suggerendogli in modo esplicito che quella vita sofferta è sì del personaggio chiamato Lisa ma è anche dell’autrice, in ciò seguendo una consuetudine che oggi attraversa molta produzione contemporanea, attecchita in particolare anche a Palermo, da Alajmo ad Enia giusto per citare i più recenti e notevoli esempi. Si allude al disvelamento del sé ferito come modalità terapeutica e come consegna intima e impudica della propria parte dolente al lettore che voglia accoglierla e farsene depositario. Talvolta la Di Benedetto cede ad una tentazione diaristica che smorza il respiro alle sue pagine tra le quali fanno capolino certi indugi narcisistici, mentre in più occasioni emerge una notevole capacità di autoanalisi.

Risulta particolare il metodo utilizzato per il trattamento del tempo – molto più ampio quello della storia rispetto a quello della narrazione – dettato certamente da una scelta di stile, ma la sensazione è quella di una compressione dei fatti narrati che sacrifica ampiezza e spessore per privilegiare invece l’inserimento di piccoli aneddoti ed improvvise digressioni. Anche l’uso frequentissimo dei flashback, che trasportano il personaggio con rapidi passaggi e in ordine sparso nelle diverse fasi della vita, se da una parte concede dinamicità al racconto dall’altra crea un certo disorientamento nel lettore che deve soffermarsi un momento sulle date per rientrare nei tempi giusti della storia.

Il personaggio o se vogliamo l’autrice – basta scegliere a quale affezionarsi di più – analizza sin dalle prime pagine i traumi che l’hanno depositata, stanca ed avvilita, sul ciglio di una vita dentro la quale sembra muoversi da estranea, così come da ospite si è mossa nella grande casa dei genitori: una stenosi del collo uterino che rende il ciclo mestruale simile ad un incubo, rumori condominiali che le impediscono di dormire, un lavoro da insegnante che trova avvilente e frustrante, un tumore alla tiroide da stress, la morte degli unici uomini che abbia mai amato incondizionatamente – il padre amorevole e premuroso e il brillante amante già sposato con un’altra donna (un po’ padre anche lui, per via dei tanti anni in più, in un evidente complesso edipico) – la convivenza con una madre ostile e insopportabile, le disavventure mediche e ospedaliere, quest’ultime duri atti di accusa nei confronti di un sistema sanitario, pubblico e privato, che non si occupa minimamente del benessere dei pazienti e che dispensa farmaci in maniera dissennata come panacee buone per tutte le stagioni. Ma quella vita che avverte con prepotenza e che le ruggisce dentro ancora incompiuta la rende vestale della scrittura, unica divinità cui votare ogni scelta ed ogni sforzo, nonostante i capricci e le lungaggini degli editori. Così, niente marito, come si auspicherebbe la madre angosciata da un patrimonio destinato a restare senza eredi, niente figli, che ruberebbero tutto il tempo libero, e uno sguardo livido – spesso baciato da guizzi di ironia – da posare sul mondo che le appare capovolto nei valori e nei più banali meccanismi di funzionamento. In compenso qualche amicizia sincera, l’affetto di una zia e di una cugina prematuramente scomparsa, un adorato Dolcepapà e un gatto, fulcro esistenziale e coprotagonista che condizionerà azioni e decisioni senza che questo venga avvertito come un sacrificio.

A ben guardare nulla di veramente eclatante se rapportato alla soglia di tolleranza comune, in fondo tutti sono attraversati da piccole e grandi gioie e da piccoli e grandi dolori, ma la visione della protagonista apre una finestra sulla depressione e sulla distorsione operata da una patologia neurologica di base (una larvata sindrome di Asperger) che trasfigura situazioni e percezioni collocandole in un’atmosfera di eccezionalità che non sempre il lettore può riconoscere come tale. Un percorso per certi versi simile a quello compiuto da Gail Honeyman in Eleanor Oliphant sta benissimo con il quale Preludio alla follia condivide la difficoltà di leggere certe dinamiche relazionali e la presenza di una madre ingombrante che in qualche modo altera la percezione di sé.

Il processo di identificazione appare allora più immediato in certe pulsioni inesprimibili che la maschera sociale impone di controllare e di reprimere, in certe sensazioni che albergano nell’animo umano come patrimonio comune al quale non è possibile aprire un varco liberatorio.

Non mancano le situazioni leggere in questo romanzo breve, anzi se ne trovano parecchie nel continuo ondeggiare tra presente e passato che ricostruisce i tasselli fondamentali dell’infanzia e della giovinezza, epoche in cui le possibilità di sopravvivenza sembravano infinite e praticabili, e quelli dell’età matura, in cui la disillusione e la stanchezza assumono le sembianze di una pericolosa depressione, malattia di proporzioni sempre più ampie sulla quale l’autrice si sofferma come se volesse mettere in guardia il lettore per fornirgli strumenti utili al suo riconoscimento e al suo devastante potenziale.

Che prima o poi si scatenerà l’uragano della follia è chiaro sin dal titolo, ma l’evento è continuamente procrastinato, perché il lettore deve sentire l’esasperazione della protagonista giungere all’apice e frattanto congetturare su chi ne resterà vittima e per quale motivo, quindi ovviamente non staremo qui a fare rivelazioni inopportune.

Sarebbe bello alla fine immaginare di sentire la risatina lieve dell’autrice che strizza un occhio e sussurra: “Ci hai creduto? Era tutto un gioco!”, ma di certo l’epilogo vuole invece mantenere un carattere di assoluta drammaticità attraverso una riflessione su quanto la follia non sia affatto straordinaria e immediatamente percepibile, riflessione che l’autrice aveva già effettuato nel recente Tre gesti di ordinaria follia edito da Tabula Fati.

E la madre tiranna? Alla fine è soltanto una vecchietta affetta da demenza con la quale l’autrice e la protagonista, dopo la morte, possono riappacificarsi, senza rancore.

Daniela Di Benedetto

Preludio alla follia

Pietro Vittorietti Edizioni

pp.184, € 12.00

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/28/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

anche su www.articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/03/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

Melancolia della resistenza di L. Krasznahorkai

Saggistica breve. Letteratura

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

 

Dev’essere una fissa della letteratura dei paesi europei centro-orientali quella dei personaggi strambi al limite dell’alienazione o della follia, quella delle storie in bilico tra la più abbrutente solitudine e i grandi sogni impossibili. Basterebbe scomodare autori quali i cechi Hrabal o Haŝek per averne conferma, ma la lettura di Melancolia

della resistenza dell’ungherese László Krasznahorkai, pur vicino nello spirito e nella caratteristiche essenziali agli autori citati, se ne distacca per la totale assenza di ironia che viene sostituita da una visione più cupa e disperata dell’agire umano.

Ripubblicato a distanza di cinque anni (la prima edizione italiana era della scomparsa casa editrice Zandonai) da Bompiani, il romanzo è ambientato in una piccola cittadina ungherese, sulla quale l’autore preferisce mantenere l’anonimato pur inserendo alcune coordinate che potrebbero facilitarne l’identificazione, al fine di rendere subito evidente e forte la valenza metaforica che potrebbe assumere la vicenda. Nello srotolare le microstorie dei tanti abitanti, Krasznahorkai utilizza una tecnica che potremmo definire “a staffetta”, perché la storia avanza e progredisce nel momento in cui il personaggio coinvolto porge il testimone al prossimo personaggio del quale il narratore seguirà la corsa o il pantano immobile, le emozioni segrete o gli avidi istinti.

La recente proliferazione di romanzi distopici – tra i quali Melancolia della resistenza si inserisce a pieno titolo – segnala con chiarezza una condizione di tentata e mancata resistenza ad una società civile – o forse è più opportuno dire incivile – nella quale non ci si riconosce più. Il cambio di guardia prospettato da Krasznahorkai non veste i panni del nuovo, ma sembra sprofondare negli anni bui dell’ordine costituito – dall’alto e senza possibilità di confronto – e dell’asservimento brutale ai cinici di professione, ai rampanti ammannitori di improbabili banchetti populisti. Se teniamo conto del fatto che il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1989, l’autore si mostra critico tanto nei confronti dell’agonizzante comunismo ungherese, che avrebbe ridotto il paese in un luogo malsano dominato da paure indefinite, sia nei confronti degli eventuali “nuovi manovratori” che spacciano l’ordine come il più prezioso dei beni conseguibili e complottano – immolando il solito capro espiatorio – per crearsi una credibilità politica e sociale a buon prezzo. Nel solco aperto nella fase del cambiamento, si insinua un grottesco circo che espone una gigantesca balena imbalsamata e che, pare, si porti dietro un seguito di facinorosi e violenti personaggi che si abbandona a violenze tanto inaudite quanto gratuite. Pur senza essere regale e minacciosa come la bianca Moby Dick, anche intorno a questa balena si coagula un universo di paure e speranze, di sensazioni contraddittorie e spiazzanti. Il giovane postino Valuska vi scorge una bellezza magnetica che cattura lo sguardo e lo immobilizza nell’atto del guardare, gli altri invece ne avvertono un sentore di marcio e di decomposizione, un’attrazione perversa che istiga alla violenza.

E’ un romanzo strano e allucinato, che afferra e risucchia per qualche pagina per poi respingere in modo molesto, come nella lunghissima tirata del vecchio Eszeter, intellettuale e musicista, che attraverso il semplice atto di attaccare un chiodo trova la quintessenza di una personalissima filosofia: egli decide di far cambiare rotta alla sua stanca vita, con un’ulteriore chiusura al mondo esterno e una patologica apertura empatica al giovane mezzo matto, Valuska, cui vanno per intero anche le simpatie del lettore, l’unico personaggio – tra squali e opportunisti di professione – che conservi ancora la capacità di stupirsi e di scorgere ed apprezzare il bello anche dove non ce ne sarebbe neanche l’ombra.

Che da un romanzo tanto immaginifico e visionario si potesse trarre un film altrettanto denso di immagini e situazioni simboliche era persino troppo ovvio. E’ del 2000, infatti, il suggestivo Le armonie di Werckmeister, sceneggiato dallo stesso Krasznahorkai e dal regista Béla Tarr, il cui titolo rimanda al musicista tedesco noto per un tipo particolare di accordatura che, nel romanzo, rappresenta l’obiettivo degli inani studi del vecchio Eszeter, coniuge tradito e abbandonato a se stesso della spregiudicata donna che prenderà, insieme con un sinistro e compiacente generale, le redini del potere nella cittadina ormai giunta al collasso definitivo. Nel romanzo, come nel film, i due personaggi chiave del sognatore Valuska e del musicista Eszeter hanno un ruolo privilegiato, essi sono i depositari della tentata malinconica resistenza al male, ma il loro approccio con la realtà è troppo astratto e utopico, non può attecchire nessun sogno nel terreno solcato da cadaveri e immondizia in cui la sorte li ha posti a vivere. Sono perdenti, eroi e martiri, l’uno con lo sguardo perennemente in alto nella stupita osservazione del cosmo, l’altro sedotto dal richiamo dell’armonia cercata nelle note e nella purezza dei rapporti umani.

Durante la lettura potrà capitare di odiare certe complicazioni linguistiche e certe estenuanti lentezze, ma alla fine, anche a distanza di mesi, qualcosa rimane pervicacemente attaccato alla memoria, qualcosa di indefinibile che possiede un retrogusto malinconico e inquietante.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/22/la-balena-imbalsamata-di-krasznahorkai-melancolia-della-resistenza-ed-bompiani/

pubblicato anche su www.articolo.21.org

https://www.articolo21.org/2019/02/la-balena-imbalsamata-di-krasznahorkai-melancolia-della-resistenza-ed-bompiani/

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/

Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale

Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale. I classici della letteratura moderna e contemporanea

Thomas Mann La montagna incantata: dedicato a chi non si lascia prendere dalla fretta, questo è un colossale romanzo di formazione in cui si fondono l’attraversamento vertiginoso del tempo immobile e dilatato di un sanatorio e lo snodarsi della vicenda di un singolo come simbolo della storia del popolo tedesco alla vigilia della grande guerra. Hans Castorp, un giovane borghese giunto nel sanatorio svizzero di Davos per incontrare il cugino lì ricoverato, effettuerà il proprio percorso di maturazione attraverso i temi universali della malattia, dell’amore e della morte. L’incontro con alcuni personaggi carismatici gli farà conoscere il conflitto, che rimarrà irrisolto, tra l’irrazionalità e l’individualismo da una parte e la fiducia nel progresso materiale e nella scienza dall’altra. Il vasto e avvolgente tessuto narrativo di una prosa complessa e perfetta consente digressioni di impianto saggistico che sembrano sgorgare in modo spontaneo e naturale dai dialoghi dei personaggi.

“Ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano” dice lo stesso Mann, parole su cui meditare.

Josè Saramago Caino: ”La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui”. Basterebbero queste poche folgoranti parole per comprendere la grandezza di un testo breve, scorrevole ed estremamente gradevole in cui l’autore portoghese immagina la storia di Caino all’indomani dell’odioso fratricidio. A cavallo di un mulo, in una landa desolata che funge da bizzarra macchina del tempo, Caino racconta le più note vicende bibliche – dalla costruzione della torre di Babele alla distruzione di Sodoma, dal sacrificio di Isacco alla consegna delle tavole della legge a Mosè, dall’accanirsi della sventura sul probo Giobbe alla costruzione dell’arca di Noè – attraverso il punto di vista straniante del protagonista, che coglie l’insensatezza e la crudeltà delle richieste di un Dio egocentrico che appare pertanto molto più discutibile delle antropomorfizzate divinità dell’Olimpo. Di Saramago – uno dei Nobel più meritati che sia mai stato attribuito – si consiglia comunque la lettura sistematica di tutta l’opera.

Giuseppe Berto Il male oscuro: a chi si lascia andare alla depressione da festività natalizie e a chi soffre di ipocondria molesta questo bellissimo romanzo psicanalitico offre una spalla sulla quale piangere e uno specchio nel quale riconoscersi. La narrazione fortemente biografica ed introspettiva sfrutta l’espediente che già fu di Svevo ne La coscienza di Zeno, cioè quello della scrittura come terapia suggerita dall’analista, e il protagonista si configura come uno dei fratelli più giovani dei tanti inetti primonovecenteschi. Partendo dal difficile rapporto con l’ingombrante figura paterna e con l’irrisolto nodo della sua morte, Berto sviscera la natura dei suoi mali – riassumibili in un unico male oscuro – e la natura delle relazioni con altre figure condizionanti della sua vita, tra cui la moglie, fino ad approdare al porto sicuro di un voluto e voluttuoso isolamento nel lembo estremo dell’Italia che guarda alla Sicilia come terra ancestrale dal prorompente richiamo. Dalla lotta con il padre all’identificazione con esso, dalla ricerca dell’autonomia al bisogno di ritrovare le proprie radici, in fondo si tratta del passaggio noto e comune a tante generazioni.

Gabriel Garcìa Màrquez L’amore ai tempi del colera: se siete ostinati e se avete una visione romantica della vita questo è il libro perfetto. Si può modulare la propria vita sociale e lavorativa per raggiungere l’obiettivo del coronamento di un sogno d’amore? Florentino Ariza lo fa con convinzione e caparbietà, con la fede incrollabile in un destino che prima o poi aprirà le porte ai suoi desideri. Passeranno “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” prima che ciò avvenga, ma il tempo è relativo quando si parla di felicità, e anche un breve e fuggevole appagamento può valere il tempo lunghissimo dell’attesa. Per chi ci crede… Naturalmente il romanzo attraversa il Novecento latinoamericano fornendo anche uno spaccato sociale di indubbio interesse.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/19/qualche-libro-da-regalare-o-regalarvi-a-natale-i-classici-della-letteratura-moderna-e-contemporanea/

“Andrè e Dorine”del KulunKa Teatro

La perdita delle ‘piccole cose’. ‘André y Dorine’ al Teatro Libero di Palermo

 

Un interno discreto e raccolto con scrittoio, poltroncina, qualche mensola e tante foto appese al muro che racchiudono il percorso comune di una coppia giunta alla vecchiaia. Lui è uno scrittore prolifico ma non particolarmente affermato che continua a produrre, lei una violoncellista che strimpella qualche nota per farsi compagnia e attirare l’attenzione del compagno. Sono le solite dinamiche note delle coppie antiche quelle che si aspettano dall’altro solo la presenza che basta e avanza per condire quel poco di vita che rimane.

Ogni tanto la visita frettolosa del figlio ormai adulto che porta un piccolo dono ai genitori già pronti e predisposti all’ennesimo abbandono. Ma sarebbe troppo semplice e persino bello questo ménage paziente di reciproca tolleranza, questa condivisione di giorni uguali senza alcuno spiraglio di novità diverso da un mesto sorriso o da un affettuoso rimbrotto, è ovvio che non può durare…

Dopo più di cinquecento repliche in giro per il mondo, giunge al Teatro Libero di Palermo – con il supporto di PICE/Acción Culturale Española – la compagnia basca Kulunka Teatro con il pluripremiato André y Dorine di José Dault, Garbiñe Insausti, Iñaki Rikarte, Edu Cárcamo e Rolando San Martín. Successo meritato, perché lo spettacolo, nell’affrontare le tematiche universali di amore, malattia e morte, gode di una grazia particolare costituita dall’equilibrio perfetto tra malinconia e leggerezza. L’uso del physical theatre ha inoltre consentito il superamento di qualsiasi barriera linguistica (anche il cinema muto delle origini era fruibile alla stessa maniera), mentre l’uso delle maschere conferisce paradossalmente un tocco di maggiore umanità ai personaggi, come se i sentimenti venissero amplificati dai volti enormi ed inespressivi, per cui lo spettatore stenta a comprendere come sia possibile trasmettere persino impercettibili variazioni emotive nonostante l’imperturbabilità esibita dalla maschera. Così nello spettacolo, diretto da Iñaki Rikarte, e interpretato dagli stessi autori – José Dault, Garbiñe Insausti ed Edu Cárcamo – non sono le parole ad accompagnare la narrazione, ma le musiche di Yayo Cáceres, contrappunto gioioso o malinconico dello snocciolarsi del presente e dei ricordi.

Il giorno in cui arriva l’infausta sentenza sulle compromesse facoltà mentali di Dorine, André sembra non interessarsene, ma è soltanto il disperato tentativo di rifiutare ciò che sarebbe troppo difficile da accettare. La storia di questa coppia comincia a materializzarsi in ampi flashback scenici di ariosa freschezza e di sottile ironia avviati da un gesto o da una fotografia che traghettano nel presente amaro, perché le vittime della demenza non sono semplicemente quelle colpite direttamente dal male ma anche quelle che intorno a quel male sono costrette ad orbitare. I familiari, inizialmente spiazzati e determinati a resistere, pian piano si adeguano all’unica via percorribile, quella dell’accettazione che può esistere soltanto se le radici dell’amore sono davvero profonde, tanto profonde da trasformare un timido abbraccio in un ballo romantico e dolcissimo, finché gli allegri coriandoli nuziali trattenuti dal ricordo si trasformano in petali funebri e la custodia dell’amato violoncello diventa simbolica bara nella quale seppellire la donna e il suo universo.

Se è vero che l’arte attinge alla vita per indagarne i meccanismi e le verità, è interessante notare come la tematica della malattia – nell’inquietante e desolante versione della demenza senile – sia presente in maniera ossessiva e continua al cinema, nella letteratura e nel teatro. Forse l’attuale trionfalismo scientifico dell’allungamento della vita si scontra inevitabilmente con i guasti della dilatazione temporale di una vecchiaia in certi casi indignitosa e l’arte sa smascherare le statistiche, sa leggere oltre i numeri e le percentuali. Da Le pagine della nostra vita di Nick Cassavetes ad Iris – Un amore vero di Richard Eyre, da La versione di Barney di Mordecai Richler a Io non ricordo di Stefan Merrill Block, da I nostri passi di Chiara Bazzoli a Il Vangelo secondo Antonio di Dario De Luca le opere sull’argomento sono tantissime e l’elenco si potrebbe allungare a dismisura. Si tratta della conferma di un’emergenza narrativa che attraversa le ultime generazioni e si pone come tema etico dominante sul quale è necessario fermarsi a riflettere.

La regia pulita e sensibile e le capacità di espressione corporea degli interpreti consentono allo spettacolo di trasformarsi in una storia perfettamente leggibile che sa far sorridere senza allentare mai la morsa che stringe il cuore e che in qualcuno fa sgorgare una lacrima.

Il vecchio André affida la sua storia più intima e vera alla carta, la narrazione diviene dunque memoria e trasmissione di sentimenti e dolori per quelli che saranno in grado di raccoglierli, di porgere orecchio e di restare in ascolto.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/12/01/la-perdita-delle-piccole-cose-andre-y-dorine-al-teatro-libero-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/12/la-perdita-delle-piccole-cose-andre-y-dorine-al-teatro-libero-di-palermo/

ANDRÉ Y DORINE

drammaturgia José Dault, Garbiñe Insausti, Iñaki Rikarte, Edu Cárcamo, Rolando San Martín

regia Iñaki Rikarte

con José Dault, Garbiñe Insausti, Edu Cárcamo

scene Laura Gómez

musica Yayo Cáceres

costumi Ikerne Giménez

luci Carlos Samaniego “Sama”

maschere Garbiñe Insausti

fotografia Gonzalo Jerez “El Selenita”

aiuto regia Rolando San Martín

Kulunka Teatro / Bilbao – Spagna

L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/11/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

Faust di V. Pirrotta

L’Inferno ovunque. ‘Faust’ di Marlowe al Teatro Biondo di Palermo

La vicenda dell’eroe negativo e della sua eterna dannazione contenuta ne La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe godette di grande notorietà sulla scene per poco più di una cinquantina d’anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, almeno finché il gretto moralismo dei puritani non chiuse i battenti ai teatri. Il Novecento, passando ovviamente per la più nota e letta ripresa goethiana, ha tributato nuovamente grandi onori all’autore e non sono stati pochi i registi e gli attori che hanno voluto cimentarsi con il delirio di onnipotenza e di onniscienza che hanno reso Faust un personaggio estremamente complesso e affascinante.

E anche molto simpatico, diciamolo senza remore. Se persino un poeta come Dante, di ferreo rigore morale, aveva ammirato nel suo Ulisse, dannato e ridotto a lingua di fuoco per l’agire fraudolento, questa sete inestinguibile di sapere, non può stupire che l’attrazione magnetica per i temerari che spingono sempre più il là l’asticella del traguardo da raggiungere, costi quel che costi, si sia perpetuata e rinvigorita attraverso i secoli. L’uomo contemporaneo, sostenuto da una scienza di matrice positivista e sempre più lontano da ipotetiche remore morali, del mito faustiano è ovviamente intriso fino al midollo e l’andare oltre è assurto a valore assoluto, oltre la natura, oltre la malattia, oltre la vecchiaia, oltre la morte, a dispetto della saggia lezione di moderazione e misura proposta da altri grandi del passato.

Prodotto dal Teatro Biondo, Faust ovvero arricogghiti u filu, sanguigna e densa rilettura del testo di Marlowe operata da Vincenzo Pirrotta, inaugura degnamente la stagione nella sala Strehler dello stabile palermitano e si colloca nella giusta dimensione di un’ulteriore riflessione sull’argomento, attuale oggi come lo era già stato secoli addietro.

Nell’accostarsi al testo, Pirrotta ha operato una drastica scrematura, ha agito, espellendole, sulle parti legate alla dispersiva congerie dei tanti interlocutori del protagonista, sul racconto delle beffe operate ai danni dei potenti della terra, sulla processione dei peccati mortali, e ha ricomposto, questa volta con devota fedeltà, uno spartito drammaturgico per poche voci, quelle necessarie a tracciarne il tormentoso percorso.

Pirrotta dirige egregiamente se stesso e l’ottima Cinzia Maccagnano – nei ruoli di Mefistofele e Lucifero – firma scene e costumi e imbandisce un banchetto infernale dalle atmosfere fortemente caratterizzate da pochi oggetti di scena pregni di significato e dalle musiche originali di Luca Mauceri che costruiscono un itinerario sonoro di grande suggestione parallelo a quello interiore del personaggio.

Nella preziosa scansione del dialetto ritmico che ormai Pirrotta indossa come una seconda pelle, Faust incarna la voluttà del libero arbitrio e sguinzaglia la sua ambizione, quella che gli farebbe mordere, senza esitazione e come novello Adamo, il frutto dell’albero della conoscenza. Al sapiente Faust non bastano più le vette altissime della filosofia, della teologia e della medicina, forse ridare la vita ai morti… questo sì potrebbe essere un vero traguardo! Allora l’esoterismo e l’evocazione delle forze del male saranno l’ultimo tentativo praticabile per placare il bisogno di ricchezza e di potere, per soddisfare la vocazione al divino attraverso la negazione del Divino stesso.

Dall’Angelo buono e dall’Angelo Cattivo, lo specchio illuminato d’azzurro e quello solcato dal rosso posti alle estremità destra e sinistra del proscenio, giungono i suggerimenti per la via della salvezza e per quella della perdizione, ma Faust ha già fatto la sua scelta nel momento in cui ha percepito gli angusti confini del vivere umano, nel momento in cui ha capito che essi non avrebbero mai potuto contenere il suo bisogno d’assoluto. Neanche l’ombra di tristezza che attraversa il viso di Mefistofele, quando rievoca il dolore per l’impossibilità di godere della visione divina e quando ribadisce l’esistenza dell’inferno come condizione possibile in ogni luogo e in ogni momento, può convincerlo a desistere.Ventiquattro anni da trascorrere con l’alleanza di Lucifero e dopo l’anima potrà essere consegnata al signore delle tenebre. Tanto non esiste una vita dopo la morte, cosa dovrebbe temere Faust?

Il patto deve essere firmato col sangue e Pirrotta porge una soluzione scenica di grande effetto, perché vomita materialmente quel sangue che non vuole sgorgare, che si coagula in un raccapricciante segnale di avvertimento seguito dal rinnovato appello alla fuga di una voce interiore ancora vigile. Quella voce che sopravvive in un roco rantolo di pentimento, in un’invocazione che suona ormai blasfema viaggiando sulle vibrazioni acustiche alle quali Pirrotta ha abituato il suo pubblico.

Ma la discesa è già iniziata e prenderà la forma di un’ascesa gloriosa veloce come un battito di ciglia, perché a questo infine si riducono i lunghi ventiquattro anni di godimento pattuiti con Lucifero.

Cinzia Maccagnano, che unisce alla padronanza recitativa belle movenze da danzatrice, traccia la via della tentazione e dei suoi tentacolari aspetti. E’ un Mefistofele che può assumere voce e movenze da maschera della commedia dell’Arte o forme tentatrici da donna fatale, è un inquietante Lucifero celato da bende funebri che si libra sull’altalena dopo il suo trionfo, quasi a ribadire che per lui, signore del male, si tratta solo di un gioco come un altro.

Pirrotta ha fatto dunque una scelta registica netta: soppresso qualsiasi elemento farsesco si concentra sul lato oscuro e spettrale del suo eroe, sulla coscienza dilaniata, sull’orgoglio supremo e infine sulla disperazione e nel far questo utilizza lo spazio come alleato.

Tutti gli oggetti del culto sacro, maneggiati da chi ha rinnegato Dio pur percependone voce e sostanza, sono presenti ma capovolti nella loro destinazione d’uso: sul bastone da negromante Faust si abbarbica con le braccia per farne bracci di croce e farsi a sua volta Cristo crocifisso; le lapidi pietose del culto dei morti si issano arroganti per divenire specchi vanesi; l’ampolla atta a contenere il sangue sgorgato per suggellare il demoniaco patto è quella dell’offertorio, l’ampolla del vino che diventa sangue nel misterioso rituale della transustanziazione; l’aspersorio e l’incensiere sono gli strumenti del battesimo e della benedizione della salma, cioè quelli dell’entrata e dell’uscita nel patto cristiano tra Dio e i suoi figli; i lumini votivi delimitano un cerchio luminoso atto a contenere l’ultima celebrazione possibile, quella dell’ultima ora di vita.

Nella bellissima scena conclusiva, Faust raccoglie il filo rosso della propria esistenza. Esso non porta gioiosamente all’uscita dal proprio labirinto esistenziale ma dritto dritto all’abisso della propria cattiva coscienza. Se il biblico Giosuè aveva chiesto a Dio di fermare il corso del Sole per concludere vittoriosamente la battaglia contro gli Amorrei, Faust formula analoga richiesta affinché possa compiersi il tempo del suo pentimento o affinché la pena, per quanto lunga e terribile, possa essere sottratta all’eternità, l’attributo infernale per il quale Faust ha maggiormente orrore.

Ma l’uomo sa di non potere ottenere grazia e si avvia muto e sconfitto tra le braccia di Mefistofele che lo accoglie senza trionfo, consapevole di una disperazione che appartiene anche a lui, angelo ribelle che ha voltato le spalle ad aeternum alla contemplazione divina.

Faust

ovvero

Arricogghiti u filu

di Vincenzo Pirrotta

da La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe

con Cinzia Maccagnano e Vincenzo Pirrotta

musiche originali di Luca Mauceri

regia, scene e costumi di Vincenzo Pirrotta

assistente alla regia Marta Cirello

produzione Teatro Biondo Palermo

repliche fino al 4 novembre

Autore: Agata Motta

» Read more

“Berta Isla” di Javier Marìas

 

Vite che si sciolgono nell’oscurità. ‘Berta Isla’ di Javier Marìas, editore Einaudi

 

Berta Isla è un nome di donna, una parentesi aperta e mai più richiusa, una speranza di normalità inseguita con ostinazione.

Berta Isla possiamo immaginarla con le fattezze della bella donna ritratta in copertina. Fuma appoggiata ad una ringhiera e il fumo le nasconde parte del volto. L’immagine svela subito gli elementi fondanti della narrazione – sebbene il lettore non sia ancora in grado di coglierli e decifrarli – e li racchiude in quello sguardo assorto, nella miriade di punti interrogativi che hanno riempito i giorni di una vita sospesa tra l’ansia di sapere e il bisogno di ignorare ciò che potrebbe sconvolgere certezze caparbiamente edificate. E’ solo un richiamo seduttivo che ancora non oltrepassa quello puramente estetico, mentre alla fine si tornerà a fissare quello sguardo con complice amarezza.

Con Berta Isla, ponderoso e bellissimo romanzo pubblicato da Einaudi, lo spagnolo Javier Marìas, che già in Italia era stato apprezzato per il pregevole ma non esaltante Domani nella battaglia pensa a me, raggiunge livelli di scavo psicologico, al maschile e al femminile con identica intensità (cosa non facile o almeno non a tali altezze), che inchiodano il lettore alle pagine con il desiderio rabbioso di rivelare ai due protagonisti, Berta e Tom, ciò che uno non sa dell’altro e viceversa.

Berta e Tom si sono innamorati quasi bambini, in quello sbocciare dell’adolescenza che rende l’amore assoluto e immortale, privo di incrinature, ottuso e irragionevole. Si promettono l’un l’altra senza riserve, in una Spagna su cui incombono le milizie franchiste ma nella quale si accendono le prime fiamme della ribellione, nel mitico 1969 in cui le mode che percorrevano i giovani e l’Europa erano sostanzialmente riconducibili alla politica e al sesso. Studiano in luoghi diversi, Madrid lei e Oxford lui, coltivano grandi ambizioni e possiedono una visione precisa del loro futuro insieme che la lontananza non può intaccare, nemmeno quando concedono le loro rispettive verginità a compagni occasionali. Si amano certo, ma si rispettano sessualmente, come è giusto che sia in una giovane coppia di fidanzati della buona borghesia. Ancora non sanno che la distanza sarebbe stata “la cifra di gran parte della loro vita insieme…insieme ma dandosi le spalle”.

Tom ha una spettacolare capacità di assimilare le lingue straniere e di riprodurre accenti e cadenze dialettali, una dote istrionica che, oltre a provocare il divertimento collettivo degli amici, susciterà l’interesse dei suoi docenti e dei servizi segreti della Corona inglese. Un giovane così non può essere sprecato all’interno dell’ambasciata, un giovane così deve essere reclutato nonostante il suo rifiuto, anche a costo della più abietta menzogna e del più sporco inganno.

Javier Marías

Ci sono vite che sembrano destinate al silenzio e quella di un agente segreto, in modo particolare, deve restare oscura a chiunque, anche alla moglie e ai figli. Il grande segno che questi  “eletti” devono lasciare nella storia dell’umanità, dietro le quinte di guerre – suscitate, deviate, impedite – o di fondamentali acquisizioni di segreti di stato, deve riempirli di un orgoglio che non potrà mai valicare i confini del proprio Io, che non potrà mai essere raccontato e condiviso. I reclutatori sanno quali corde toccare per gonfiare e saturare l’autostima sino a renderla presunzione, come trasformare l’abiezione in eroismo di cui godere in solitudine in una sorta di onanistico titanismo. Solo autori talentuosi sono in grado di affidare magistralmente la voce narrante ad entrambi i personaggi e di intervenire direttamente come narratore esterno quando il racconto deve superare la soggettività delle focalizzazioni interne. Solo grandi maestri della scrittura sanno scavare dentro gli esseri umani e i loro misteri, mantenendo in ombra ciò che non può essere detto e immergendosi in quell’oscurità per rivelare come essa possa vestire i panni del quotidiano, come possa essere plausibile muoversi nel buio con la disinvoltura dei ciechi, che della luce possono fare a meno perché l’oscurità è la loro condizione naturale e non sanno nemmeno immaginarne una diversa.

La moltiplicazione della propria identità diverrà lo status naturale di Tom, l’attesa e la rinuncia ad una parte cospicua della vita del marito sarà quello di Berta.

Ma come può una donna continuare ad amare incondizionatamente un uomo che vive ingannando  persone delle quali estorce la fiducia se non addirittura l’amore, che probabilmente ha ucciso a sangue freddo prima di indossare i panni del marito e del padre affettuoso, che resta lontano per mesi senza fornire notizie impegnato in azioni prive di qualsiasi remora morale? E come può Tom agire con fede e convinzione pur sapendo di non aver potuto scegliere la propria strada, di essere stato costretto ad entrare nell’ingranaggio, di essere stato derubato del futuro che aveva con pazienza e amore cominciato a costruire?

Sono interrogativi che pesano come macigni e infine, per questo novello Mattia Pascal non toccato dalla grazia dell’umorismo, la moglie può ipotizzare (perché le parole tra loro sono sempre state merce rara o oggetto di dissipazione) una consapevolezza  tragica, quella di appartenere “a quel tipo di persone che non sono protagoniste neppure della propria storia… che scoprono che la loro storia non meriterà di essere narrata”.

“E’ il destino delle vite, come la mia e come la sua – conclude Berta – che, come tante altre, stanno solo in attesa”.

Ed ecco che l’immagine di copertina balza adesso agli occhi del cuore: Berta aspetta, la nuvola di fumo avvolge la sua interminabile attesa di donna che intuisce e che preferisce in fondo non sapere, dentro il fumo le vite evanescenti e sulfuree dell’uomo amato, inconsistenti eppure tossiche. Ci siamo ma non ci siamo, agiamo ma è come se non avessimo agito. La filosofia incomprensibile dei servizi segreti ha preso il sopravvento anche nei residui di esistenza reale, molto denaro in cambio della dedizione alla causa e del silenzio. Non ci saranno racconti rocamboleschi da imbandire allo sguardo sorpreso dei figli, né ringraziamenti per il probabile sangue versato, né compensi per chi ha incrociato una strada senza sbocco restandone vittima.

Restano insieme Tom e Berta, sgomenti e impotenti, oltre la morte vera o presunta (meglio non rivelare all’ipotetico lettore), un uomo e una donna vicendevolmente aggrappati senza essersi mai del tutto conosciuti.

Una scrittura corposa e vertiginosamente ipotattica per uno stile intrigante che non lascia niente al caso: un gran bel libro.

Autore: Agata Motta

https://www.scriptandbooks.it/2019/01/02/vite-che-si-sciolgono-nelloscurita-berta-isla-di-javier-marias-editore-einaudi/

Un’estate con Omero di S. Tesson

Rabbia e ricostituzione sullo scudo di Efesto. ‘Un’estate con Omero’ di Sylvain Tesson

I classici e il nostro tempo. Sono ancora attuali, ci insegnano qualcosa?

Prendiamo Omero e i suoi poemi, raccontiamoli alla luce delle vicende contemporanee e il gioco è fatto, magari basta forzare un tantino la mano e puntualmente le pagine irte di poesia del Poeta cieco si prestano a spiegare le costanti dell’animo umano e le dinamiche della sfera sociale e politica attraverso un percorso che procede per analogie e per differenze.

L’obiettivo che Sylvain Tesson, scrittore, giornalista e viaggiatore instancabile, si è prefisso nel suo ultimo saggio Un’estate con Omero, edizioni Rizzoli,è proprio quello di dimostrare per l’ennesima volta (come se esistessero ancora dubbi da dissipare!) che i grandi classici sono tali perché trattano temi universali che possono parlare all’uomo contemporaneo con la stessa efficacia di sempre. Già nella Prefazione, riferendosi ad Omero, Tesson ci ricorda che “ogni evento contemporaneo trova eco nei suoi versi o, per meglio dire, ogni sussulto della Storia è il riflesso di una sua premonizione… In questo risiede il genio di Omero: nell’aver tracciato, nei suoi canti, i contorni dell’uomo. Nulla è mutato da allora”.

L’avventura letteraria intrapresa, che Tesson ritiene indispensabile considerata la battuta d’arresto subìta dallo studio del mondo greco e latino negli ultimi decenni (il mondo della scuola, manovrato  dall’imperscrutabile giudizio di chi ci governa da siderali distanze, ne è, suo malgrado, partecipe e testimone) consiste dunque nella riproposta degli snodi fondamentali della trama e talvolta nella citazione sic et simpliciter dei versi immortali di Omero resi funzionali al teorema che si vuol dimostrare. Il linguaggio è sempre semplice ed estremamente accessibile, la platea dei lettori potrebbe allargarsi anche a studenti volenterosi.

Così, dall’eremo felice delle Cicladi – la scelta del luogo non è ovviamente casuale – l’autore si immerge nella ri-lettura e restituisce man mano le proprie osservazioni prima attraverso l’analisi puntuale dei singoli poemi e poi con focalizzazioni tematiche non sempre coese e talvolta persino ripetitive nella trattazione ma di certo robuste e persuasive nell’impianto. Davvero semplice, ma il meccanismo è tutto qua. Tesson agisce come un insegnante intento a chiosare il testo e a fornire spunti di riflessione ai propri allievi.

Basta essere dotati di una sufficiente cultura classica e si può accompagnare ad occhi chiusi Tesson in questo viaggio nella bellezza, nella poesia e nel divino, un viaggio in cui riafferrare la barra del timone delle nostre vite strapazzate e vorticose perché il messaggio finale si racchiude in questo: Omero insegna a vivere, basta saperlo ascoltare con la disposizione primitiva e ingenua degli antichi che ascoltavano i versi degli aedi. E ascoltarlo con un’attitudine pagana, attitudine che si traduce nell’accogliere il mondo senza pretese o aspettative. “Tutto è bello, quanto si vede, dice Priamo, re di Troia. Sì, tutto è bello e le parole sono asservite a questo svelamento, incaricate di esprimere il caleidoscopio della vita”.

Spontaneamente la nostra preferenza va alla seconda parte del testo, quella meno scolastica, quella in cui l’autore apre nuovi orizzonti interpretativi o illustra il proprio concetto di attualità.

‘Iliade’ del Teatro del Carretto

L’ineluttabilità dello scontro all’interno delle società umane è vissuto come destino di cui la Storia fornisce continuamente prova, il prosperare delle grandi divinità (o dei leader politici) sulle macerie del mondo è un necessario dato costante, la generica questione del bisogno di guerra insito nell’uomo è sempre aperta se si guarda con mente serena l’universo geopolitico nel quale ci muoviamo, l’offesa perpetrata dall’uomo alla Natura si rivela come la più recente guerra di Troia ed è letta come ultimo atto di hybris collettiva. L’uomo pensa di essere un dio o un demiurgo e, così facendo, dimentica l’affermazione del filosofo Protagora che ribadisce invece che “l’uomo è misura di tutte le cose” o almeno dovrebbe esserlo, visto che tra i moniti sempre presenti nei poemi alcuni non tollerano deviazioni: non bisogna turbare l’ordine delle cose, non vanno oltrepassati i limiti, le colpe, spesso legate proprio a queste azioni, dovranno comunque essere espiate.

La tensione tra destino e libero arbitrio costituisce uno dei nuclei tematici più interessanti perché cozza di netto con “la glorificazione dell’autonomia individuale” dei nostri tempi; gli eroi greci aveva compreso che gli “dei conducono la danza”, che si può provare a persuaderli con sacrifici e preghiere ma che alla fine la libertà consiste “nel mettersi in cammino verso l’ineluttabile”, senza che ciò tolga nulla all’incessante movimento verso l’appagamento dei propri desideri, alla  possibilità di scelta, alla spontanea partecipazione alla suddetta danza. Insomma, “vivere consiste nell’andare, cantando, verso il proprio destino” e la sottomissione agli dei guerrafondai e interventisti può persino sollevare l’uomo dalle proprie responsabilità Oggi sottrarsi alle proprie responsabilità sembra l’occupazione preferita dai politici per i quali, senza scomodare il Fato, ciò che non funziona è attribuibile alle circostanze  avverse o a chi li ha preceduti.

Altro nucleo tematico forte è quello relativo all’oblio e alla gloria che conduce, nell’eroe greco, alla necessità della scelta della Memoria, intesa come bisogno di affidare il proprio nome alla Storia e come necessità di riappropriazione di se stessi e delle proprie radici, concetti che oggi suonano assai stonati. Per l’uomo di Zuckerberg- l’inventore di Facebook, cioè della versione digitale dello specchio d’acqua di Narciso – i social network si presentano “come meccanismi di disgregazione automatica della memoria: appena postata, l’immagine viene dimenticata” in omaggio al culto dell’odierno “presentismo”.

In tempi recenti, ci ammonisce Tesson, siamo propensi all’identificazione con la parte debole dei grandi protagonisti del passato e delle loro divinità antropomorfe, con le loro imperfezioni. “Anche il divino e il meraviglioso mostrano i propri limiti”, ecco perché Omero sa essere vicino e familiare. Dovremmo infatti prestare orecchio a chi, come Achille, pur avendo fatto della Gloria il proprio faro e la propria ossessione, riconosce dal buio dell’oltretomba che niente ha più valore di una vita semplice e rimpiange la propria incapacità alla rinuncia.

L’eroe classico comunque resta affascinante per le sue virtù canoniche: la forza, il valore, il coraggio e la bellezza di Achille, l’astuzia, l’arte oratoria, la sete di conoscenza, l’ostinazione di Ulisse. A ciascuno di noi la possibilità di riconoscersi nell’uno o nell’altro, a ciascuno la scelta del poema che meglio riflette l’indole e le aspirazioni: la rabbia devastante dell’Iliade, la ricostituzione dell’ordine nell’Odissea. In fondo sono due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari del mondo, quel mondo ricchissimo e vario raffigurato sullo scudo che Efesto forgia per Achille.

Accontentarsi del mondo e nulla sperare ci dice Omero attraverso le parole e i gesti dei suoi eroi, potrebbe sembrare l’atteggiamento pessimista del perdente e invece è la formula giusta per godere appieno dei doni della vita.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/03/rabbia-e-ricostituzione-sullo-scudo-di-efesto-unestate-con-omero-di-sylvain-tesson-ed-rizzoli/

1 8 9 10 11 12 21