“La casa del tè” di Valerio Principessa

Il tempo immobile dei ragazzi di Casa Retrouvailles. “La casa del tè” di Valerio Principessa, ed. Feltrinelli

@ Agata Motta, 07-11-2022

Tra i tanti esordi narrativi regalati dall’anno in corso, quello di Valerio Principessa, studi scientifici e una grande passione per l’affabulazione maturata già nell’infanzia, contiene elementi di forte fascino, soprattutto per un pubblico di lettori giovani, ma non risponde pienamente alle intriganti premesse.
La casa del tè, edito da Feltrinelli, è infatti un romanzo parzialmente riuscito che apre uno spiraglio sulla dinamiche interne di un’improbabile casa famiglia gestita da un’anziana giapponese, Michiko, dedita alla cura delle ferite interiori dei suoi ospiti attraverso una continua mescita di tè e sorrisi empatici, e da uno strampalato francese, Bernard, che custodisce in boccette di vetro gli odori di sensazioni ed emozioni e che costituisce il cuore pulsante della ricca biblioteca cui i ragazzi attingono spinti da motivazioni diverse.
Gabriel, voce narrante e protagonista, è un ragazzo di età indefinita (si può ipotizzare sia ormai alle soglie della maggiore età), molto adulto nei pensieri come spesso accade a chi è costretto a crescere precocemente. Ha perso la nonna con la quale viveva, unico porto sicuro di una vita che si intuisce difficile e zeppa di cose di cui vergognarsi, porta al polso un orologio fermo, simbolo del tempo immobile di chi si dibatte in pantani esistenziali, e si ritrova nella Casa Retrouvailles, con altri ragazzi spezzati e immersi in silenziose pozze di sofferenza.
Ogni ospite ha piaghe aperte nelle quali Gabriel, come ha saggiamente imparato a sue spese, non mette il dito, e dolori maceranti con cui convivere. Tutti, una volta entrati in quella che vorrebbe proporsi come una bolla di serenità, devono lasciare un oggetto in una cesta, bisogna lasciare “ciò che eri e non sarai mai più” precisa Michiko con il chiaro intento di mettere a fuoco l’obiettivo da raggiungere per ottenere la propria rinascita.
Principessa consegna al lettore i personaggi con tenerezza e finezza psicologica, ne fa sgualcite figurine di un sottobosco sociale dominato da una singolare morale e da un rispetto reciproco che passa dalla condivisione del male, inflitto o subìto. Così conosciamo Chiara, la ragazza di brina dai capelli sugli occhi, appassionata di astronomia alla quale l’autore regala probabilmente un suo personale interesse; Leo, bambino logorroico alla perenne ricerca di attenzioni e affetto; Greta, la ragazza dai capelli color miele perennemente tuffata sullo schermo del cellulare a dialogare con se stessa per confermare la propria esistenza; Amina, silenziosa giovane donna nera aggrappata ad un bambolotto; Scar, il più problematico e ambiguo dei personaggi, dotato di una personalità scissa che contiene punte estreme di violenza e sussulti di generosità e abnegazione.
I personaggi esterni alla Casa invece appaiono meno convincenti, sembrano inseriti per arricchire un plot che altrimenti risulterebbe scarno di avvenimenti o per innestarvi snodi rivelatori, come il barbone Natale o il “cantastorie” cieco Kojo. La collocazione, tra le pagine, di messaggi con mittente e destinatario ignoti, risulta inoltre piuttosto discutibile, perché nulla aggiunge alla sofferenza del personaggio (si comprenderà alla fine quale, ma non è difficile arrivarci d’intuito) e crea semmai una fastidiosa ridondanza narrativa.
La frattura nella placida e stagnante sopravvivenza dei ragazzi arriva con un’ulteriore assenza, dura come uno schiaffo in pieno viso, quella della signora Michiko, il polo d’attrazione, il surrogato materno, l’ago della bilancia, il deposito di parole consolatorie sempre pronto al soccorso emotivo. Ma sarà proprio da quella mancanza che scaturiranno altri equilibri e inesplorate dinamiche in grado di riplasmare il piccolo universo e donargli nuovi precari baricentri.

Valerio Principessa

La parte oscura del breve vissuto dei personaggi emerge lentamente, ma poi si svela del tutto con una brusca accelerazione nella parte finale del libro, talvolta in modo sbrigativo e forzato – come la storia di Amina, condensata in una lettera che apre un sipario noto sulle vergognose e atroci peregrinazioni dei migranti – quasi a voler soddisfare residue curiosità e non l’esigenza insita nella narrazione.
La vicenda inizialmente si dipana con un linguaggio semplice fino alla banalità, rimpolpato da etimologie, citazioni, informazioni curiose, fenomeni fisici, riferimenti scientifici (talmente ampi e tecnici da rallentare parecchio il ritmo della narrazione) e filosofici, frasi ad effetto che sembrano sassi piazzati su un fragile ordito. Poi pian piano la prosa prende quota e si assesta su un livello piano e godibile e quelli che sembravano pezzi aggregati diventano tasselli che fungono da colonna sonora, una peculiarità dell’autore. È il caso delle parole intraducibili in altra lingua, la parte più intrigante e civettuola di questo complesso procedimento di accumulazione lessicale, quelle di cui il protagonista subisce il fascino, che vengono disseminate qua e là a seconda dei contesti e che costituiscono il sottotitolo alle fotografie mentali che Gabriel conserva di piccoli momenti che assumono importanza cruciale nel suo personalissimo percorso di crescita.
L’autore guarda al Giappone con l’interesse che ormai da più di un decennio appartiene alle giovanissime generazioni e lo innesta in modo singolare in un rione romano con una commistione sapida e accattivante. Lo sguardo posato sulle vite sdrucite dei giovani emarginati è però prevalentemente letterario, la voglia di raccontare storie sembra prendere talvolta il sopravvento e dominare le pagine in cui personaggi come Kojo diventano narratori di secondo grado pur di incrementare il piacere del racconto quasi (perché comunque una funzione interna Principessa ad essi attribuisce) fine a se stesso. Ecco allora che questa chiave di scrittura se da una parte allontana da un processo di mimesi dall’altra ne costituisce l’originalità.
Preziosa la copertina di Bianca Bagnarelli, per grafica e colori, che attira lo sguardo a chilometri di distanza.

Valerio Principessa
La casa del tè
Feltrinelli editore
pp.283
16,00 €

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Dante di Pupi Avati

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Pellegrinaggio di Boccaccio sulle tracce di Dante, in sala il nuovo film di Pupi Avati

@ Agata Motta, 04-10-2022

Sergio Castellitto e Pupi Avati

Se è vero che ogni regista ambisce ad un film che possa consegnarlo sopra tutti gli altri alla memoria dei posteri, probabilmente Dante rappresenta proprio questo per Pupi Avati che alla genesi dell’opera ha dedicato più di un decennio di amorevoli studi e di sconfinata ammirazione. Il regista aveva già pubblicato lo scorso anno il romanzo L’alta fantasia, Solferino editore, che contiene per intero la sceneggiatura in una suggestiva forma narrativa dal linguaggio ricercato e dalla singolare struttura.
Accingersi a narrare del Sommo Poeta dev’essere stata un’impresa titanica non soltanto per l’altezza inarrivabile del “personaggio” ma anche per l’esiguità delle fonti che da secoli costringe i dantisti ad ipotesi e congetture. Ecco allora giungere in soccorso un altro gigante, Giovanni Boccaccio, che dell’opera dantesca era stato appassionato didattico e che da Dante aveva ricevuto in dono l’amore per la poesia, unica vera gioia della sua vita. Il regista ha dunque sentito di aver trovato una soluzione perfetta nel parlare di Dante attraverso lo sguardo innamorato di Boccaccio, sguardo che in sostanza coincide con il proprio ma che gli ha offerto la possibilità di creare un affascinante gioco di richiami letterari.
Interrogarsi sul rapporto di Dante con la propria creatività e sperare che nella consapevolezza del suo genio abbia vissuto la sublimità, come Avati dichiara nelle note al romanzo, sono stati gli input che hanno messo in moto il processo creativo dal quale emerge un Dante, non coincidente in tutto con quello della memoria scolastica, che vive il proprio tempo gravato dal fardello tutto umano della fragilità, del dubbio, della paura, della lacerazione e dell’umiliazione, ma sorretto, dopo l’esilio, dall’indomita speranza di un ritorno in patria aureolato dalla gloria poetica.
Ad Alessandro Sperduti spetta il ruolo non semplice di incarnare il Poeta e di farsi carico di tutte queste sfumature che restituisce con puntualità e aderenza, specie negli ampi e segmentati passaggi dell’amore per Beatrice e dell’affetto per l’amico Guido Cavalcanti, tanto da commuovere con certi sguardi tracimanti amore e dolore ad un tempo. Boccaccio è interpretato con evidente dedizione da un magnifico Sergio Castellitto, che ne fa un personaggio vero e sofferente, le mani bendate e martoriate dalla scabbia che lo tormenta e il bisogno di riabilitare, mettendone in luce la profonda spiritualità, un poeta considerato eretico per aver fustigato papi indegni e immorali consuetudini ecclesiastiche.
Il film prende avvio dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, lirica che orgogliosamente Dante rivendica, per bocca di Bonagiunta Orbicciani incontrato tra i golosi del Purgatorio, come quella che diede avvio alla “nuova maniera di poetare”, cui segue l’agonia del Poeta a Ravenna vegliata da una piccola folla e dal figlio Iacopo. Trent’anni dopo Boccaccio sarà incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele di portare una borsa di dieci fiorini d’oro a suor Beatrice, la figlia di Dante, come risarcimento per le pene inflitte dalla città di Firenze al padre.

Basilica di Sant’Apollinare in Classe

Il viaggio di Boccaccio si trasforma dunque in un pellegrinaggio attraverso i luoghi percorsi dal Poeta che ne conservano le vestigia: le antiche dimore in cui si era mosso, il campo di battaglia di Campaldino, la pineta che conduce alla basilica di Santa Apollinare in Classe dai cui mosaici furono ispirati alcuni versi del Paradiso. Il vissuto del Poeta emerge per frammenti da quelli che tecnicamente sono flashback, ma, sotto il profilo della narrazione, l’espediente di legare quei tasselli ai luoghi e ai testimoni diretti, che seppur vecchi potevano offrire a Boccaccio il balsamo di un ricordo o la soluzione di un enigma (il mistero del ritrovamento degli ultimi canti del Paradiso), àncora l’uomo Dante al suo tempo, a quel complicato brandello di Medioevo fatto di lotte tra fazioni avverse, ingerenze papali e contratti matrimoniali. E al suo tempo appartengono anche gli efferati fatti di cronaca che giungono fino a noi nei ritratti immortali di Paolo e Francesca e del conte Ugolino (gli unici evidenti richiami alla Divina Commedia) che avevano suscitato la commozione del Poeta e ne avevano acceso l’immaginazione. La Morte, che in quell’epoca mieteva vittime in quantità spropositate, aleggia con prepotenza nel racconto e nell’ambientazione, sembra creare un contrappunto necessario ai sentimenti amorosi, e il regista insinua, attraverso le tante immagini cupe, un’amara riflessione sulla durata e sul valore della vita umana.
Nella scelta di costruire una sorta di cornice narrativa dentro la quale innestare il racconto biografico e quello poetico (le liriche tratte dalla Vita Nova costituiscono una sottotrama di suggestiva efficacia) è probabile che il regista abbia voluto omaggiare implicitamente anche Boccaccio che proprio in quegli anni – siamo nel 1350 – stava portando a termine il Decameron.
Ad un oggetto malandato, “la bambola nuziale di una gran signora”, simbolo di fertilità che diviene invece foriero di morte, è affidato il compito di farsi cerniera tra il tempo narrato e quello della narrazione, un oggetto appartenuto a Beatrice che dovrà divenire il dono di un padre, Boccaccio, alla figlia bambina della quale cerca di conquistare l’affetto.

Ecco che il personaggio Boccaccio, nel quale Avati si rispecchia e che pronuncia parole che in realtà gli appartengono, diviene protagonista accanto al suo idolo, si fa riflesso di una visione nuova e sotto certi aspetti romantica che consegna Dante agli spettatori negli anni della giovinezza segnata dal dissidio tra ragione e sentimento.
Dante è anzitutto guidato da Amore, una forza occulta e devastante che determinerà il suo percorso come essere umano e come poeta e la sua Beatrice è più donna terrena che donna angelo. L’esile e bionda Carlotta Gamba ne fa una fanciulla inquieta e turbata dalla dedizione di un ragazzo, incontrato per la prima volta bambino, che la segue per guardarla da lontano, che le sorride il giorno del matrimonio nonostante il dolore gli stia schiantando il petto. Ed è bellissima la scena in cui Beatrice, salendo le scale che la condurranno alla sua dimora di donna sposata dove a breve consumerà le nozze, sembra suggerirgli il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare in un’atmosfera di magica sospensione. Altrettanto poetica la scelta di rappresentare il volto di Beatrice morta deturpato dal vaiolo, quel volto che agli occhi del poeta resterà splendido in eterno, quel volto che lo indurrà a “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Beatrice infatti tornerà nei suoi versi come beata e lo guiderà nell’ascesa al Paradiso, nessuna donna era mai stata cantata in questo modo.
L’esilio è compresso in poche simboliche scene, come quella in cui cui l’esule traccia su un lenzuolo i nomi dei morti da collocare nei mondi ultraterreni, e infine il cerchio si chiude tornando all’immagine iniziale: Dante muore. Il momento è sottolineato dal temporale come gli altri passaggi ritenuti cruciali dal regista, e Avati immagina di far raccogliere al figlio Iacopo le ultime parole del Poeta giunto finalmente a Dio, “alla fine di tutti i disii” (Paradiso, XXXIII).
Il film è diretto con una squisita ricerca formale di forte impronta pittorica, valorizzata dalla fotografia di Cesare Bastelli, che veste di luci e ombre gli interni e di una patina di antico gli esterni, e dal dirompente commento musicale di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa.

Di alto livello tutta la recitazione, ma emergono, per la particolare forza espressiva, Romano Reggiani che ben rappresenta la fierezza aristocratica di Guido Cavalcanti, Leopoldo Mastelloni che porge un Bonifacio VIII grottesco, untuoso, viscido e querulo, e poi ancora Alessandro Haber, l’indignato abate di Vallombrosa, Enrico Lo Verso, il fiducioso compagno di viaggio Donato degli Albanzani, Milena Vukotic, la rigattiera, Erica Blanc, Gemma Donati anziana, Morena Gentile, la donna gozzuta, Gianni Cavina, il vecchio Piero Giardina e Valeria D’Obici che regala a Suor Beatrice un’intensità di rara bellezza. A lei e a Sergio Castellitto la scena finale del film – un approdo per Boccaccio, una carezza per l’anziana monaca amareggiata che non riesce a perdonare – che si imprime negli occhi e nel cuore: un uomo e una donna si tengono per mano nella penombra del chiostro, alle loro spalle, non visibile ma evocato, l’Albero del Paradiso che non produce più mele dalla morte del Poeta e tutt’intorno il tenue baluginio di lucciole che sembrano stelle, quelle stelle di cui il Poeta conosceva tutti i nomi, quelle stelle che chiudono le tre cantiche con un’unica parola.
Con coerenza Avati segue per lo più gli spunti biografici forniti dal Trattatello in laude di Dante del Certaldese e nel farlo si discosta talvolta dalle scarne fonti storiche, come per quanto riguarda il matrimonio con Gemma Donati, che era stato contratto in età adolescenziale, quindi ben prima della morte di Beatrice. E, nel mostrarci questo giovane Dante, il regista sfuma, lasciandola in controluce, la chiara consapevolezza del suo genio che dovette fargli temere più di ogni altro (forse più della lussuria su cui invece si indugia) quel peccato di superbia che tentava di arginare quanto più ne avvertiva la seduzione. Non per nulla, come acutamente ha osservato Piero Trellini nel suo Danteide, la Divina Commedia può essere percepita come l’edificazione della risarcitoria mitologia di se stesso voluta dal poeta. Il tratto dato da Avati alla sua opera, che costituisce un unicum nella sua filmografia, è quindi frutto di una scelta precisa, ciò che vuole definire e circoscrivere è l’immagine del Dante a lui più caro, quello che vagheggerà per sempre con “l’alta fantasia” che appartiene ai grandi artisti, il Poeta che ha “fatto sì che la sua emozione divenisse l’emozione del mondo”.

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Le donne dell’Acquasanta di Francesca Maccani

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Sopraffazione e riscatto ne “Le donne dell’Acquasanta” di Francesca Maccani, edito da Rizzoli

@ Agata Motta, 23-09-2022

Manifattura Tabacchi di Palermo

Una folgorante visita alla Manifattura Tabacchi di Palermo durante la manifestazione “Le vie dei tesori” e in Francesca Maccani, autrice di origine trentina ma ormai da tempo palermitana d’adozione, si accende la scintilla che porterà alla stesura del romanzo Le donne dell’Acquasanta, edito da Rizzoli. Giovani donne chine sui tavoli da lavoro a confezionare sigari bussano alla sua fantasia come personaggi in cerca d’autore, come voci che chiedono di dare corpo e sostanza a vicende dimenticate che hanno attraversato un secolo morente e una città in piena rinascita.
L’anno è il 1897, il ricordo dei fasci siciliani è ancora vivo e l’onda lunga che ha prodotto non si è fermata. Il luogo è la Palermo opulenta dei Florio, degli Ingham, dei Whitaker e degli industriosi imprenditori, della fioritura delle manifatture e delle attività commerciali che fervono facendo da contraltare alla sterile inattività di aristocratici fedeli alla nobile arte dell’ozio, ma è anche la Palermo dei pescatori e della povera gente che si arrabatta per portare in tavola qualcosa, delle ragazze che camminano a piedi nudi e guardano sognanti le signore ingioiellate a passeggio. Sontuosi palazzi, umili dimore, scorci di mare e i rumorosi e umidi locali della manifattura sono lo scenario di una narrazione limpida che sussurra storie di amicizia e di amore che non esauriscono in queste tematiche la loro ragion d’essere, perché l’opera è anche un’indagine rigorosa, ben supportata dalle fonti consultate, di una realtà sociale fatta di soprusi, privazioni, rassegnazione e bisogno di riscatto che vede le donne messe ai margini, incistate in ruoli che hanno il sentore della condanna e dell’ineluttabilità.

Franca e Rosa sono due tabacchine, lavorano e contribuiscono al mantenimento delle loro famiglie. Questo le colloca già su un piano diverso rispetto alle loro madri, sono quasi privilegiate nonostante le mortificazioni e le vessazioni che sono costrette ad ingoiare dai loro capi, uomini, ovviamente, perché soltanto agli uomini (siano essi datori di lavoro, mariti o padri) è permesso comandare e manovrare la vita delle donne. Sono diverse sia fisicamente che come temperamento, e pertanto complementari, ma sanno di possedere il dono prezioso della complicità e della reciproca comprensione.
Rosa vorrebbe sposarsi e mettere su famiglia, non ha una visione negativa dell’universo maschile, pensa che non si debba fare di tutta l’erba un fascio e che anche negli uomini possano albergare sensibilità e amore sincero. Franca non ne è convinta, vede le sue compagne salire sulle carrozze di signori viziosi per consegnarsi alle loro voglie per pochi soldi, è importunata per la sua fresca bellezza, sa che può capitare la disgrazia di un marito ubriaco e violento. Il suo obiettivo diventa allora quello di rendere più vivibili le condizioni lavorative delle sue compagne, specie quelle delle giovani madri, costrette a lavorare con i neonati aggrappati alle spalle e a subire le pressioni dei sorveglianti affinché non abbassino il loro livello di produttività. Costruire un baliatico rappresenta una conquista straordinaria e Franca, con la determinazione che le è propria e con l’aiuto di un sindacalista capace anche di scalfire la corazza che lei ha imposto al suo cuore, riuscirà, pagando il prezzo altissimo dell’umiliazione e della violenza, ad ottenere ciò che ha disperatamente voluto. È vero, si trovano tanta paura e rassegnazione nelle sue compagne di lavoro, spesso anche invidia e maldicenza gratuite, elementi che in fondo le rendono umane e vere, ma Franca ha gettato il lievito della consapevolezza nell’impasto informe e per molte di loro si apriranno nuovi orizzonti.
Accanto alla coppia di amiche protagoniste della storia si muovono tanti altri personaggi tratteggiati con precisione e finezza, dalla giovane madre Maria alla sventurata Mela, dalla ricca Margherita dal grembo sterile, preoccupata solo di assicurare una discendenza al marito e un’occupazione alle sue lunghe giornate, allo squallido baronetto che renderà realizzabile il sogno consegnandole il suo “bastardo”, dai beceri e violenti sorveglianti, indaffarati a sopprimere qualsiasi rigurgito di libertà, all’illuminato padrone della manifattura che pian piano maturerà l’idea del baliatico e della salvaguardia della dignità nei luoghi di lavoro. E infine il sindacalista Salvo, l’uomo in grado di prendersi cura dei più deboli e di ascoltare le parole di Franca, di comprenderne la forza dirompente, di riconoscerne la giustezza e il valore.

Francesca Maccani

L’autrice manovra una prosa curata, fluida e amabile, sa restituire il cambio delle stagioni o la scansione delle ore del giorno con immagini sempre nuove e di grande impatto visivo, intreccia dialoghi freschi e credibili, inserisce – con una scelta quasi obbligata ma graditissima ai lettori – intere espressioni o singole parole dialettali che consentono di respirare ambienti e odori di una terra assai amata dalla letteratura, ma, nell’appropriarsi di una consuetudine, la Maccani riesce a rendere solida e significativa la mappatura di un quotidiano che da certi termini non può prescindere. Il narratore onnisciente, infatti, abbraccia attraverso quel dialetto il punto di vista di una collettività che in esso si identifica e la presenza nello stesso periodo di un registro alto trapuntato da un lessico dialettale crea un linguaggio pastoso e avvolgente.
La Sicilia e il suo complesso passato, specie negli aspetti meno noti ed esplorati, sono coordinate che continuano a guidare la letteratura declinata al femminile – da Stefania Auci ad Anna Chisari giusto per citare alcuni dei nomi più recenti – e Francesca Maccani vi si colloca a pieno titolo.
Le donne dell’Acquasanta non è soltanto “una storia palermitana”, come recita il sottotitolo, ma una storia dal respiro più ampio e profondo. La sopraffazione e il bisogno di riscatto appartengono purtroppo al mondo contemporaneo e vi alloggiano con una desolante e pervicace presenza.

Francesca Maccani
Le donne dell’Acquasanta
Rizzoli editore
pp 320
16,00 €

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La fuga di Anna di Mattia Corrente

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Vite sbagliate e vite possibili. “La fuga di Anna” di Mattia Corrente, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 31-08-2022

Mattia Corrente

L’attitudine alla scomparsa come tara genetica o come capacità di rinascita, la necessità di essere se stessi, il gioco delle ipotesi su quali pieghe avrebbe potuto prendere la vita se fossero state compiute altre scelte. È soprattutto sulle scelte, infatti, che si concentra l’attenzione di Mattia Corrente nel suo romanzo d’esordio La fuga di Anna, edito da Sellerio, un libro, attraente sin dalla copertina, che sta conquistando i lettori.
Esistono tramonti che lasciano presagire nuove albe ed è appunto quello che accade ad Anna e a Severino che, per vie diverse e con motivazioni antitetiche, interrompono il loro cammino condiviso di coppia di lungo corso per approdare a vite diverse, svincolate da doveri imposti e promesse pesanti come macigni. Ormai ultrasettantenne Anna fugge da un matrimonio che ha accettato per aderire alle convenzioni sociali dell’epoca e per soddisfare le pressanti richieste materne che riteneva essenziale per le sue figlie avere accanto un uomo e dargli dei figli. Proprio lei, Serafina, che invece il marito l’ha perso. Il suo adorato Peppe un giorno è andato via e non è più tornato e da quel giorno porta il lutto nel cuore e negli abiti e coltiva un dolore profondo per un abbandono incomprensibile.
Anche Anna, come il padre amatissimo, un giorno scompare e al vecchio Severino, dopo un anno di sterile e fiduciosa attesa, non resta altro da fare che indossare il suo inseparabile borsalino, infilare in una valigia le cose di Anna, tra cui l’abito da sposa tirato fuori da una buca nel giardino, e salutare Stromboli, l’isola nella quale avevano scelto di trascorrere la vecchiaia, per andare alla ricerca di quella moglie che aveva caparbiamente voluto e che aveva persuaso al matrimonio con una promessa di felicità.
Un viaggio a ritroso nel tempo quello di Severino, che tenta di rintracciare tutte le persone che hanno lasciato impronte profonde nell’esistenza di Anna, e nei luoghi – ben noti all’autore che li restituisce in tutta la loro tangibile e affascinante bellezza – in cui hanno lasciato porzioni di vissuto.
Scoperchiando verità nascoste di una donna che in realtà non gli è mai appartenuta del tutto, Severino scopre anche aspetti inediti di se stesso, di quel ragazzo con grandi sogni sacrificati alla ponderatezza (tale allora la considerava) di una vita serena accanto alla donna amata. Si accorge che avrebbe potuto essere un altro Severino, avrebbe potuto persino creare una nuova famiglia con un’altra donna fugacemente amata nel periodo in cui Anna, divenuta madre, aveva smesso di essere moglie. Lo seguiamo dunque mentre si lascia sedurre dai dolci, sempre evitati per via del diabete, mentre guarda i luoghi del passato con occhi diversi, mentre getta i vecchi abiti e ne acquista di nuovi – compreso un nuovo borsalino – e in quel gesto assapora altre possibilità, compresa la solitudine, compresa una vita senza Anna.

Sebbene la narrazione e il punto di vista siano prevalentemente quelli di Severino, l’autore lascia ampi spazi ad Anna, affidandoli ad un narratore onnisciente che ne racconta il passato e la vita sbagliata in cui si è infilata con le proprie mani, e qualche capitolo a Peppe (forse con una lieve forzatura, non tanto sul piano delle intenzioni quanto su quello del risultato complessivo) di cui pian piano affiora il vissuto, dal punto in cui ha abbandonato la famiglia, e infine il rimorso che lo condurrà ad un gesto indirettamente risarcitorio. L’amore per la libertà, che Peppe ha inculcato alla figlia che ha avvertito a lui più simile e vicina, qui coincide con la fuga.
Non può quindi essere un atto indolore, c’è un prezzo altissimo da pagare che si traduce nell’infelicità, nelle ferite insanabili e negli interrogativi giganteschi di chi resta attonito ad aspettare. La maternità invece si rivela, sia in Anna che nella madre Serafina, una responsabilità spossante e totalizzante e soprattutto un cappio al collo per i figli sovrastati, sin dal loro affacciarsi al mondo, da un amore soffocante e ansiogeno.
Il linguaggio, fluido e molto gradevole, offre piccole oasi di profondità nelle quali indugiare, crea immagini delicate e zuppe di tenerezza, costruisce dialoghi freschi e spontanei. La galleria di personaggi che emerge dalle pagine con brevi pennellate risulta ben delineata, tanto da poterne conservare un ricordo preciso fatto di caratteristiche fisiche appena abbozzate, gesti, sguardi e parole. Un rosario di brevi incontri in successione che aiuta Severino a ricomporre i pezzi mancanti dell’altra Anna, la donna inquieta e sfuggente che gli è vissuta al fianco per decenni senza mai mostrarsi nella sua autenticità, ma anche il punto di partenza per smascherare l’impostore che lui stesso ammette di essere stato.La libertà individuale è la più preziosa delle conquiste anche quando conserva il sapore acre delle lacrime, ne sanno qualcosa Beppe, Anna e alla fine anche Severino, “un vecchio con una valigia che parte”.
Le promesse estorte in situazioni particolari possono essere infrante come i voti che coinvolgono le altrui volontà, ne sa qualcosa Lucia che altrimenti non avrebbe sposato Renzo.
La fuga di Anna è un’ulteriore conferma di quanto gli scrittori amino indagare sul crepuscolo della vita e farne oggetto di narrazioni attente e delicate. E il pensiero corre al suggestivo e luminoso romanzo di Jocelyne Saucier Piovevano uccelli (pubblicato in Canada nel 2011 e divenuto nel 2019 un film diretto da Louise Archambault), proposto in Italia dalla casa editrice Iperborea, che si spinge fino all’estremo limite delle scelte e delle rinascite possibili.

Mattia Corrente
La fuga di Anna

Sellerio editore
16,00 €
pp.254

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“Tomàs Nevinson” di Javier Marìas

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I crocevia morali di un agente segreto. “Tomás Nevinson” di Javier Marías, Ed. Einaudi

@ Agata Motta, 21-07-2022

E adesso tocca a lui, all’ineffabile agente segreto dalla vita blindata, all’uomo dalle mille identità, al personaggio già conosciuto in Berta Isla al quale il lettore si era legato a doppio filo in una sorta di spiazzante rapporto di attrazione/repulsione.
Con Tomàs Nevinson Javier Marías si conferma narratore raffinatissimo e colto, conoscitore profondo dell’animo umano, conduttore spericolato nei meandri della filosofia morale, maestro indiscusso di tecniche narrative sofisticate e coinvolgenti. La copertina del poderoso volume, edito come il precedente da Einaudi, sorprende l’uomo, del quale possiamo finalmente ipotizzare il viso, in un momento di stanca riflessione, sigaretta alla mano e un filo di fumo che lo avvolge, quasi un pendant visivo della copertina di Berta Isla. Anche il secco titolo, costituito da un nome e un cognome, crea un’ulteriore risonanza nei due volumi che, come lo stesso autore afferma nei ringraziamenti finali, creano una coppia.
Tomàs e Berta sono stati infatti una coppia, prima fidanzati ligi al conformismo della loro epoca, poi coniugi divisi dall’ingombrante lavoro di lui che lo porta a vivere molte altre vite sotto copertura non condivisibili con la compagna di una soltanto di quelle molteplici esistenze.
Se è evidente che Tomàs Nevinson costituisce una continuazione, in termini cronologici, di Berta Isla, è anche vero che i due romanzi godono di vita propria e di una pienezza e compiutezza narrativa che non comporta la necessità di leggerli entrambi, sebbene non farlo sarebbe quasi delittuoso.
Nel primo romanzo Marías ha mostrato la metà oscura di quel rapporto colto dallo sguardo femminile, l’attesa come fulcro esistenziale, l’ovvia curiosità e la necessaria rinuncia alla conoscenza come cifre incandescenti di anni che si snodano avvolti da un manto di cieca e fiduciosa comprensione reciproca, di separazioni che non possono non incidere sui sentimenti e sui percorsi individuali.
Adesso è invece Tomàs che finalmente si svela al lettore, non sarà comunque possibile rivelarsi alla moglie che, con una manovra perfettamente simmetrica al primo romanzo, resterà parzialmente in ombra. La donna lo ha creduto morto per molti anni – questo le era stato riferito dall’ineffabile Bertram Tupra, machiavellico burattinaio dei servizi segreti britannici – ma ritrovarsi sulla soglia di casa, dopo dieci anni, quell’uomo molto amato e mai conosciuto veramente non riuscirà a sconvolgere l’impostazione di una vita in cui da sola ha dovuto andare avanti come donna e come madre.
Berta resterà presente tra le pagine del romanzo come monito amaro per Tomàs, come paradigma di una normalità impossibile e probabilmente mai davvero desiderata. Spetta al lettore, e solo a lui, il privilegio di un varco prospettico dal quale osservare il travaglio interiore di un uomo che si era immaginato monolitico e senza incrinature, le sue battaglie etiche, le sconfitte, gli incidenti di percorso, le parziali vittorie, perché dev’essere subito chiaro che in quel tipo di attività vincere significa guadagnarsi la fiducia o addirittura l’amore di qualcuno per consegnarlo alla discutibile giustizia dei servizi segreti o alla morte.
Ed è proprio questo il nocciolo duro del romanzo, quello che a tratti – specie nella parte iniziale – gli conferisce un sapore saggistico, quello che ne fa una spettacolare riflessione sull’opportunità o addirittura sulla necessità del male per impedire che avvenga altro male.
Bisogna quindi partire dai lunghi aneddoti, un vero e proprio smisurato prologo che, attingendo alla finzione filmica e alla realtà, detta il tema di tutta la narrazione. Uccidere Hitler prima che arrivasse alla follia dell’olocausto sarebbe stata un’azione meritoria di portata universale o sempre e comunque un ignobile delitto?

Il dilemma parte da un vecchio film di Fritz Lang, girato nel 1941 quando ancora gli Stati Uniti non erano entrati nel conflitto. In esso un oscuro cacciatore interpretato da George Sanders si accosta con un fucile di precisione al luogo più sorvegliato della Germania, la villa a Berchtesgaden in cui Hitler si ritirava spesso. L’uomo lo inquadra nel mirino, spara consapevolmente un colpo a vuoto, poi lo inquadra di nuovo e potrebbe stavolta con il suo sparo raggiungere il suo obiettivo. Ma tutto questo non avviene e la Storia prende la strada della catastrofe. Stessa cosa, ma stavolta scendiamo sul piano della realtà, capita allo scrittore Friedrich Reck-Malleczewen che, nel suo Diario di un disperato, racconta come, pur avendo avuto l’occasione e la tentazione di eliminare Hitler con facilità, non lo aveva fatto, sostanzialmente perché lo aveva percepito come “un personaggio da vignetta comica”. Certo non poteva ancora sapere che lui stesso sarebbe morto in un campo di concentramento. Se gli sviluppi futuri fossero stati chiari e lampanti con congruo anticipo, anche uccidere avrebbe avuto un altro peso, un’altra morale, un altro provvidenziale spessore. È l’irreversibilità della morte a creare profonde lacerazioni interiori, l’impossibilità di tornare indietro, di rimettere tutto a posto, di cancellare persino le tracce di ciò che è avvenuto con un momentaneo atto di volontà.
Ecco, il romanzo consiste proprio in questo. Coinvolto dallo stesso Tupra, che lo aveva ingaggiato con l’inganno e che con un altro sottile inganno psicologico lo recluta nuovamente, Tomás è incaricato di scoprire quale tra le tre donne segnalate dai servizi segreti è Magdalena Orùe O’Dea, cinica e spregiudicata terrorista dell’Eta legata anche al terrorismo irlandese, inattiva da diverso tempo ma probabilmente intenta alla preparazione di altre terribili stragi.
Il primo tragico dilemma, per un uomo che ha ricevuto un’educazione all’antica per la quale le donne non si toccano nemmeno con un fiore, è legato proprio all’ordine di uccidere una donna; il secondo all’uccisione di un essere umano del quale si sospettano future azioni illecite senza averne la certezza, di una persona che, pur essendosi macchiata di atroci nefandezze, potrebbe aver scelto la strada della redenzione.
Calatosi nel panni del professore Miguel Centurión, Tomás deve entrare in confidenza con loro. Tutte vivono nella tranquilla e quasi narcotica cittadina di Ruàn, nome fittizio di un luogo del Nordovest della Spagna, e lui deve seguirne le mosse, carpire il segreto di un passato oscuro e sporco di sangue innocente e naturalmente ucciderne una, dopo averla identificata.
La vicenda procede con estenuante, avvolgente e grandiosa lentezza, ancora una volta l’attesa come vera protagonista, sia essa di un cedimento di una delle tre donne che possa portare allo smascheramento sia essa una rinuncia che possa condurre al fallimento della missione. Le ore, i giorni, i mesi sono avvolti dal crescente, colloso disagio del protagonista che, come gli verrà rimproverato da Tupra, sembra aver perso il suo intuito. Tomás annaspa nell’indagine, occupa il letto di una di loro, impartisce lezioni di inglese ai figli di un’altra, divide spazi lavorativi con la terza, collega nella stessa scuola in cui i servizi segreti lo hanno piazzato con quell’identità nuova di zecca.

Javier Marías

Tra un’occupazione e l’altra, Berta si infila nei suoi pensieri, richiamo irresistibile, e non mancheranno brevi pause in cui incontrarla e in cui fingere – la finzione regna sovrana in ogni anfratto di questo prodigioso romanzo – di essere una coppia normale che pianifica gli incontri con i figli, che cena scambiando quattro chiacchiere. Come sempre solo lei, Berta, ha capito, ha colto la sua sofferenza e il suo strazio, ma mantiene il consueto ruolo di muta testimone, di sostanziale estranea al viluppo venefico delle attività dell’antico coniuge.
Sotto il profilo stilistico, al di là del sapiente uso delle strutture sintattiche e del lessico, la vera novità è costituita dalle pagine vorticose e affascinanti in cui Marías realizza un repentino passaggio di focalizzazione da Tomás a Miguel e viceversa, passaggio fluido, accattivante, spiazzante, spontaneo. Sembra quasi che il protagonista si osservi dall’esterno, constati la distanza che lo separa dal nuovo Io, ma vi si cali dentro adottandone parole e punto di vista. Essere due vite contemporaneamente, essere due sguardi, due corpi, due personalità fino a scoprirne infine la sostanziale coincidenza attraverso uno strappo brusco, uno strattone della coscienza non del tutto sopita. E come se non bastasse anche la voce narrante passa dalla prima alla terza persona, a seconda del punto di osservazione, la vicenda da intima e personale si apre all’oggettività fino a spalancarsi sull’universalità delle questioni etiche, sui princìpi essenziali, sulle scelte incontrovertibili, sulle brucianti responsabilità, sui possibili orizzonti.
Sono tanti i personaggi che incrociano il cammino di Tomás verso la verità più probabile e tutti risultano vivi e verosimili, dal politico volgarotto e ruffiano al giornalista ammanicato e ghiotto di piccoli scandali, dal maneggione e abile costruttore allo spacciatore pavido che rifornisce di coca i notabili del paese, ci vuol poco a ritagliarsi un’aura di importanza in un luogo tanto asfittico e ordinario. E naturalmente loro, le tre donne dal passato impenetrabile e dalle personalità diversissime, materia viva dentro cui scavare. Una soltanto è stata una spietata terrorista, ma quale? “La scienza, con tutti i suoi progressi e le sue scoperte, non ha ancora trovato un metodo infallibile per capire quando una persona è sincera e quando mente […] perché il pensiero è ondivago, contraddittorio, sfuggente, e non si stabilizza mai né sta fermo, come le raffiche di un vento vorticoso”.
Della meravigliosa instabilità del pensiero Marías possiede le chiavi e le maneggia con compiaciuta voluttà. Al lettore non resta che l’avido desiderio di tornare ai suoi testi, alle sue parole, alle sue pagine in cui echeggiano i versi del Bardo come un passaggio di testimone da un classico all’altro, perché, tra i classici contemporanei, Marías senza dubbio va collocato.

Tomás Nevinson

Javier Marías
Einaudi
pp.590
22,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2022/07/21/i-crocevia-morali-di-un-agente-segreto-tomas-nevinson-di-javier-marias-ed-einaudi/

“Anime brevi” di Andrea Dei Castaldi

I guizzi scomposti della vita nel nuovo romanzo di Andrea Dei Castaldi. Barta pubblica ‘Anime brevi’

@ Agata Motta, 18-05-2022

Scritto durante un lungo soggiorno in Argentina, Anime brevi, ultimo romanzo di Andrea Dei Castaldi, pubblicato ancora una volta dall’editore toscano Barta di cui si apprezzano sempre le deliziose copertine, giunge, dopo sei anni di attesa, a concludere la trilogia che, con Finistère (2013) e La cesura (2015), attraversa i grandi temi universali della colpa e del perdono, cui si aggiunge infine l’espiazione come ipotesi “irrisolta” di riparazione post mortem.
Due amici d’infanzia, Pietro e Marcello, si ritrovano dopo trent’anni. Dovrebbe essere festa, invece sarà tragedia. Marcello, che appena adolescente aveva seguito il padre in America Latina, torna nel paese d’origine coronato da un certo successo economico e sociale; Pietro, che invece non si è mai mosso, ha rinunciato alla proprio sogno artistico travolto dal tracollo della famiglia, ma ha ritrovato la serenità grazie a un matrimonio che lo ha sollevato da un lavoro umile per consegnarlo a una bottega in cui gli strumenti musicali potrà almeno accarezzarli, se non proprio suonarli come un tempo. Entrambi hanno costruito la loro vita su segreti e menzogne che rosicchieranno il territorio comune sul quale si ritroveranno ad agire.
Il perno intorno al quale tutto ruota è l’arte, sia essa quella magnificata nella ricostruzione del teatro comunale affidata all’architetta Irene (contraddittorio il destino contenuto nel nome, colei che dovrebbe rappresentare la pace diviene invece strumento di spossanti lotte interiori) e alla sorella scenografa Greta, sia essa quella incarnata dall’opera scelta per il debutto, il Tristano e Isotta di Wagner, sia quella discreta e antica dei liutai perpetuata da Pietro e dal vecchio Chille.
A differenza del romanzo precedente, la voce è quella di un narratore onnisciente che indossa gli occhi e i pensieri più intimi e ingombranti dei personaggi, probabilmente perché l’autore ha sentito il bisogno di consegnare l’idea ambiziosa che sottende il suo romanzo a forme più rassicuranti e salde, quasi a volerlo ancorare a un impianto classico che ne contenesse le forze centrifughe.
In ogni singola scheggia di vita si avverte un guizzo scomposto, un tentativo di sopravvivenza, almeno finché essa non viene consegnata al disegno sotterraneo che ne farà un tassello da collocare nella nicchia che sembra attenderla da sempre. E quando quell’agonia è vista dall’esterno, come se lo sguardo potesse distaccarsi dal corpo e osservarlo con asettica curiosità scientifica, il racconto diventa ancora più lancinante, la possibilità di scissione che si concretizza nella presenza di un altro sé genera dolore puro e la tragedia non offre rifugi catartici.
Delizioso il titolo che, nel suo ossimoro evidente, sembra fornire una chiave di lettura: le anime brevi – come rivela lo stesso Dei Castaldi in un’intervista – sono quelle di chi sente di aver perduto irrimediabilmente una parte preziosa di sé, forse la migliore, e di sopravviverle e ad esse l’autore si accosta per rubare segreti e turbamenti, le pedina nella loro quotidiana relazione con il mondo attraverso sequenze descrittive che arrivano al cesello o le condanna all’eterno dilemma tra ragione e sentimento fino alla chiusura del sipario sulla catastrofe – quella antica che si riverbera su quella presente – che finirà per coinvolgere tutti da attori o da spettatori.
I personaggi agiscono in un presente di apparente normalità – il presente della storia è quello degli anni Ottanta del benessere diffuso e delle grandi manovre economiche – ma i segnali di uno slittamento del piano della narrazione verso il baratro sono disseminati sin dall’inizio. Già durante la festa di compleanno di Irene, in cui i due amici dovrebbero finalmente ricucire il passato, ancor carico di promesse, al presente (un’ampia ellissi temporale occulta la parentesi centrale), l’atmosfera si surriscalda con i polemici commenti dello stranito Pietro allo starnazzante cinismo del commensale di riguardo, un politico tronfio e interessato solo al denaro che stramazzerà al suolo colpito da un infarto. E ne troviamo tanti altri di indizi, che pian piano si trasformano in prove e conferme, quelli più eclatanti durante le feste (la notte di San Silvestro) o le grandi occasioni (l’inaugurazione del teatro restaurato) che, in perfetto parallelismo (uno per ogni atto), si tingono sempre di scuro.
Il vissuto emerge qua e là nel racconto tramite il lento affiorare dei ricordi – che Dei Castaldi sa manovrare con impeccabile maestria tanto da renderli la parte più solida e affascinante del suo edificio narrativo – o in capitoli isolati che costituiscono illuminanti e magnifici flashback. A svettare in un delicato lirismo sono infatti gli uomini e le donne già scomparsi (Sebastiano e Anita, genitori di Pietro) o i vecchi (Chille, la fidanzata respinta di Sebastiano che sciupa la propria giovinezza nella furia vendicatrice) che di quel passato sono custodi o vittime, mentre le figure del presente a tratti appaiono sbiadite (Livio, il compagno di Greta), appena sbozzate ma fortemente carismatiche (Cecilia, la moglie di Pietro) o puramente funzionali all’azione (Manuel, il violento e ambiguo collaboratore di Marcello, il politico Bozzetto).

Andrea Dei Castaldi

Alcuni bellissimi capitoli sono costituiti da fotogrammi che si dilatano a dismisura fino ad espandersi e a straripare; sono percezioni improvvise, sono un lento sporgersi nella propria interiorità, sono domande di cui si conosce la risposta e domande che non osano nemmeno affiorare, sono riflessioni che rischiarano in parte la coscienza, sono sguardi poggiati su un universo che sembra non appartenere più a chi lo abita.
Nel dono che il vecchio liutaio Achille fa ad Irene, un pezzetto di legno situato tra il piano armonico e il fondo di ogni violino chiamato “anima”, è davvero racchiuso il senso stesso della vita, nessuno lo vede ma è indispensabile e davvero “il nome che si dà alle cose non è mai un caso”. E non è un caso infatti la cura maniacale che l’autore riserva al lessico, dietro la scelta di ogni parola si avverte la ricerca, quasi l’ansia di trovare i termini giusti, gli accostamenti più efficaci. Identica attenzione si avverte nella sintassi che cattura il lettore nelle spire di avvolgenti subordinate che lo costringono spesso a tornare indietro per non smarrire qualcosa dentro la densità del testo e per recuperare ogni singolo profondo pensiero. Non è una scrittura sempre agevole quella proposta questa volta da Dei Castaldi, ma complessa e ripiegata su se stessa come il pensiero dei suoi personaggi. E sembra quasi di respirare la fatica, la lotta, il rovello che lo scrittore deve aver ingaggiato con una materia incandescente che si intuisce possa aver costituito per qualche tempo un’ossessione.
Non che sia indispensabile conoscere il Tristano e Isotta di Wagner (una storia particolarmente cara al musicista perché pregna degli echi dell’amore per Mathilde Wesendonck, moglie del suo migliore amico), ma sicuramente aiuta parecchio a penetrare negli anfratti del romanzo che ne è tanto innervato da costituirne uno specchio contemporaneo. La serie di espliciti rimandi al dramma – quasi la sua replica – comincia sin dalla tripartizione in atti (la nave, la selva, la torre), ulteriormente sottolineata dalla preparazione scenografica di Greta che diviene rappresentazione e metafora ad un tempo, fissa in Pietro e Irene i novelli Tristano e Isotta, sostituisce una lettera al filtro d’amore, scandaglia il tema del tradimento di chi si fida (il più terribile nella visione dantesca e degno del cerchio infernale più basso) sino a trionfare nella magnifica sequenza del debutto dell’opera – in un teatro fresco di restauro e sfavillante di bellezza – chiosata dallo sguardo ardente e inquieto di Greta, infausta demiurga. La donna ha portato a termine il suo disegno, ma si accorge di non averne previsto fino in fondo le conseguenze. Consumata dal morbo sacro, al quale ha pensato di poter resistere con un puro atto di volontà, è costretta a cedere e a farsene travolgere, quando ormai tutto intorno a lei è rovina e maceria.
Ma allora il destino esiste davvero come dato incontrovertibile o le vite delle persone si possono manovrare a piacimento? Quanto incide la volontà sui percorsi umani e quanto invece le colpe ataviche? E il perdono può mutare il corso degli eventi o suggella semplicemente la sconfitta degli interpreti dell’insensata tragedia umana? L’autore ventila la possibilità che la redenzione possa arrivare a patto che il dolore la intrida e la accompagni non senza aver prima compiuto il passo più difficile, quello del perdono concesso a se stessi.
La sensazione finale però è quella di un testo non pienamente risolto, forse troppo compresso, come se su molte cose l’autore avesse preferito tacere. Una scelta rispettabile, sebbene rimanga il desiderio di oltrepassare il corto orizzonte che ci ha mostrato queste anime brevi come tremolanti bagliori presto spenti.

Andrea Dei Castaldi
Anime brevi
Barta editore, 2021
pp.224
€ 13,00

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Fiction Rai1 “L’amica geniale”, “Blanca”, “Noi”

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La sostenibile seduzione di Rai1

@Agata Motta, 20-04-2022

Al di là delle fisiologiche oscillazioni negli ascolti, la fiction di Rai 1 ha goduto in questa stagione di ottima salute grazie ad un’ampia gamma di offerte in grado di blandire variegati palati. Tra le tante proposte di prima serata, almeno tre meritano attenzione: L’amica geniale, terza stagione, Blanca e Noi, entrambe al debutto.

Chi ha amato la tetralogia di Elena Ferrante, ma anche chi non l’ha mai letta, avrà sicuramente provato l’impulso di accostarsi ad una serie tv che, riprendendo un discorso già avviato con successo negli anni precedenti, continua a non deludere nello spontaneo confronto con l’opera letteraria.

Sarà perché la stessa Ferrante firma la sceneggiatura, in un eccellente lavoro di squadra, insieme con Saverio Costanzo (il regista delle prime due serie), Francesco Piccolo e Laura Paolucci, ma davvero i nuclei tematici fondanti del romanzo si ritrovano intatti e, in questa stagione sottotitolata “Storia di chi fugge e di chi resta”(come l’omonimo romanzo da cui è tratta, che risulta il più ostico dei quattro), il complesso contesto politico-sociale degli anni Settanta e le vicende private di Elena e Lila si intersecano creando un affresco di grande bellezza. Il cambio di regia si avverte appena, Daniele Luchetti mantiene una continuità nei ritmi, nella struttura e nel lavoro già impostato delle brave protagoniste, Margherita Mazzucco (Elena) e Gaia Girace (Lila). La contestata mancata sostituzione delle due giovanissime attrici, che si sono ritrovate nei panni di due donne trentenni, si è rivelata invece una scelta giusta, perché entrambe hanno mantenuto una forza e un’intensità tali da mettere a tacere qualsiasi voce critica.

La storia segue il percorso accidentato di un’amicizia tanto travolgente quanto tossica che si incunea nel malsano rione di provenienza, la Napoli ben conosciuta dalla Ferrante, e nei tanti luoghi di fuga e di rinascita in cui il talento di Elena, ormai divenuta promettente scrittrice, cerca conferma.

Senza dubbio la forza della fiction sta nel sostrato letterario e nell’ottima sceneggiatura, che isola dialoghi perfetti e lavora sul malessere trasversale di generazioni che, pur appartenendo ad ambienti diversi, si nutrono di ideali convergenti. È soprattutto lo sguardo delle donne quello che si posa su istanze sociali che riguardano sì i lavoratori e la coscienza del loro sfruttamento ma soprattutto una nuova consapevolezza intrisa di rancore, rivendicazioni e dolore. Quello che viene rappresentato è un mondo ancora dominato dagli uomini ma filtrato dalla sensibilità femminile che reclama i propri spazi in ogni ambito, compresa la sfera sessuale nella quale è adesso possibile confrontarsi ed esprimere insoddisfazioni. Ed ecco che il dialetto si piega agli usi più diversi: diventa il modo più spontaneo per relazionarsi nel microcosmo del rione, ribolle sulfureo nel grande serbatoio della rabbia sociale o consente di ribadire le proprie origini in ambienti solo in apparenza accoglienti, sempre comunque in netta contrapposizione alla lingua italiana, quella della cultura, del riscatto e della salvezza, la lingua che seduce promettendo cambiamenti e rivoluzioni che restano appannaggio di chi la possiede veramente e si trova nelle condizioni di dirigere e indirizzare quei cambiamenti e quelle rivoluzioni.

Ma tutto ciò potrebbe non bastare per garantire lo spessore di questa fiction se non ci fossero tanti altri robusti interpreti a sostenere l’altissima prova delle protagoniste. Primo fra tutti Matteo Cecchi, uno straordinario Pietro Airota, giovane talento accademico e rampollo di illustre famiglia, che sposerà la combattuta e già esitante Elena decretandone di fatto l’affossamento nel ruolo di moglie e di madre. Immerso nel proprio universo letterario, Pietro crede di poter attuare la sua rivoluzione dalla scrivania domestica e dalla cattedra universitaria, ma non si accorge di quanto essa possa trovarsi lontana anni luce dai fermenti sociali che di altre lotte e di altri strumenti si stanno frattanto dotando. Da una parte esorta la moglie a proseguire il suo percorso artistico dall’altra la vincola a ruoli tipicamente femminili, come se si potesse scrivere un libro nei ritagli di tempo tra un’incombenza domestica e l’altra o tra due maternità subite e non desiderate. Nello sguardo, nella modulazione della voce, nei gesti, Cecchi costruisce un personaggio a tutto tondo con le sue spossanti contraddizioni e riesce a farlo amare nonostante tutto, perché proprio l’amore per la donna che ha scelto di sposare, superando l’enorme divario sociale, è tangibile e pieno di sofferenza.

Buona la prova di Francesco Serpico che interpreta Nino Sarratore, il grande amore di Elena, un uomo apparentemente aperto e incline ad incoraggiare la nuova condizione femminile, ma in realtà spavaldo e impunito seduttore, disposto a qualsiasi bassezza pur di soddisfare i suoi appetiti assai poco moderni e rivoluzionari.

Molto intensi anche Giovanni Buselli nel ruolo di Enzo Scanno, l’amorevole e paziente compagno di Lila, unico personaggio maschile di matura e piena sensibilità, ed Eduardo Scarpetta in quello di Pasquale Peluso, compagno pieno di risentimento e di bisogno di rivalsa che non esiterà a sbattere in faccia all’amica d’infanzia un imborghesimento ritenuto disgustoso. E non ha in fondo tutti i torti, perché Elena, ormai imparentata agli Airota, si prodigherà per denunciare la condizione degli operai nelle fabbriche e per proteggere l’amica devastata dai ritmi lavorativi, ma lo farà ricorrendo alle amicizie dei potenti, all’ala protettiva di una famiglia illuminata e progressista che agisce in soccorso dei deboli dall’alto della propria posizione privilegiata e che usa pertanto proprio quei metodi contro i quali dovrebbe per coerenza lottare.

A Rosaria Langellotto, che interpreta Gigliola Spagnuolo, moglie del boss del quartiere Michele Solara (Alessio Gallo), va un monologo da brivido, quello in cui, con una gelida sofferenza che diviene carne viva e sanguinante, rivela la sconcertante percezione dei corpi femminili del marito e i sentimenti suscitati invece da Lila, unica donna da lui veramente amata e mai posseduta, donna della quale ammira la straordinaria intelligenza con ottuso sbigottimento.

Tutti gli attori (Gabriele Vacis, Giulia Lazzarino, Elvis Esposito, Giovanni Amura, giusto per citarne alcuni) contribuiscono comunque, anche nei più piccoli ruoli, a quell’effetto corale di contrasto e dissonanza che in fondo è la nota peculiare di questa serie.

A restare sottopelle è infine la vibrante malinconia della colonna sonora di Max Richter, eccellente musicista già da tempo prestato al cinema (Valzer con Bashir, Arrival, Venuto al mondo, Perfect sense, La chiave di Sara, The Congress) e alla tv (The Leftovers – Svaniti nel nulla), che riesce a dar corpo alle immagini e sostanza ai sentimenti. Il tema di Elena & Lila è pura emozione.

Si possono dunque perdonare certe piccole cadute, come l’effetto cartolina sullo sfondo dei cambi di ambientazione.

E poi ci sono quelle fiction che, nonostante la volatile aderenza alla realtà, hanno il pregio di predisporre lo spettatore ad una sorta di disponibilità all’accoglienza, di naturale stupore.

È il caso di Blanca, serie poliziesca diretta con cura da Jan Maria Michelini e Giacomo Martelli liberamente tratta dai romanzi di Patrizia Rinaldi, scrittrice napoletana con una notevole esperienza nella gestione e nella cura di ragazzi difficili e pertanto particolarmente adatta all’analisi di situazioni limite e personalità fragili e complesse.

Maria Chiara Giannetta è Blanca Ferrando, una giovane non vedente esperta in décodage, l’ascolto analitico di tutti i materiali audio delle inchieste. Basta perdersi nel suo sguardo perso per constatare che la sua è una superba prova attoriale, basta seguirne il passo incerto, guidato da Linneo, il bulldog femmina divenuto star della serie, per sentire quanto lo spazio, agevolmente abitato dagli altri personaggi, possa essere insidioso e attraente per chi ha scelto di non arrendersi e di inseguire le proprie ambizioni nonostante gli evidenti limiti. Il lavoro d’ufficio, al quale potrebbe validamente contribuire con le sue competenze, le calza stretto, lei vuole immergersi nelle indagini, divenire membro attivo del Commissariato presso il quale lavora come stagista.

Un passato fin troppo tragico, che avrebbe abbattuto anche una quercia, sorregge la necessità di Blanca di giungere alla sorgente del male per snidarlo e affrontarlo a qualsiasi costo. L’omicidio della sorella Beatrice e l’incendio che le fa perdere la vista continuano a martellare i suoi ricordi in flashback sparsi che stuzzicano lo spettatore per il quale non è difficile intuire come in quei ricordi qualcosa si sia inquinato e che la verità processuale su quelle vicende potrebbe non essere la verità dei fatti realmente accaduti. La vocazione per la giustizia, scaturita da quel passato, ha bisogno di continui banchi di prova e i casi, man mano affrontati nelle sei puntate, le offrono l’opportunità di combattere nonostante la diffidenza, se non addirittura il fastidio, che l’ambiente lavorativo le riserva. Le sue armi sono state affilate dalla paziente dedizione di un padre (il valido Ugo Dighero) che ne ha costruito pezzo per pezzo l’autonomia e che la segue a distanza con discrezione per non invadere la fragile indipendenza alla quale comunque la donna è giunta. Per questa tenace e deliziosa creatura l’amore è in agguato, quello che si fa strada con difficoltà nel seducente commissario Liguori (il calibrato Giuseppe Zeno) e quello che si insinua come una serpe velenosa assetata di vendetta in Nanni (Pierpaolo Spollon), personaggio chiave che condurrà alla vera risoluzione dell’omicidio di Beatrice.

Prima serie al mondo realizzata con la tecnica dell’olofonia, che permette di riprodurre il suono in modo simile a come viene percepito dall’apparato uditivo dell’uomo, Blanca è un prodotto ben confezionato, con una buona regia, attori di consolidata esperienza nel settore delle fiction e una complessiva resa di bell’impatto visivo e sonoro. La sceneggiatura talvolta annaspa in situazioni che sfiorano l’assurdo ma più spesso costruisce tensione e si concede qualche battuta di alleggerimento politicamente scorretta sulla disabilità, affidandola al Commissario Mauro Bacigalupo (Enzo Paci), ormai disilluso e allergico alle complicazioni. Sullo sfondo una Genova “con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che intriga senza esagerare.

Per quanto suoni fiabesca, l’idea che si possa danzare sotto la pioggia invece di aspettarne la fine (uno dei preziosi insegnamenti paterni) è talmente bella che si può far finta di crederci e sorridere, perché illudersi e sognare sono pratiche sane per chiunque.

Si sono appena conclusi i sei appuntamenti con Noi – remake di This Is Us, popolarissima serie tv creata da Dan Fogelman vincitrice di due Emmy Awards e un Golden Globe – la cui sceneggiatura porta i nomi prestigiosi di Sandro Petraglia, Flaminia Gressi e Michela Straniero. Mettere da parte il confronto con la serie statunitense, che ha già prodotto malumori e recriminazioni di ogni genere, è l’atteggiamento più saggio per accostarsi alla vicissitudini della famiglia Peirò e per lasciarsi trasportare dalle affascinanti debolezze di personaggi dilaniati da conflitti interiori che inevitabilmente si riverberano nelle relazioni affettive.

La vita di Pietro e Rebecca (Lino Guanciale in stato di grazia e Aurora Ruffino, ottima nelle vesti di Rebecca da giovane e inadeguata in quelli della donna matura, complice un trucco inaccettabile), profondamente diversi per collocazione sociale, cultura e ambizioni ma folgorati da un’attrazione reciproca che diventa amore profondo, viene messa alla prova dall’arrivo di tre gemelli. In realtà uno morirà durante il parto e la coppia, con un atto di generosità che rasenta l’incoscienza, porterà a casa ugualmente un terzo figlio attraverso l’adozione di un bambino di colore abbandonato e portato in ospedale da un vigile del fuoco. I tre fratelli crescono insieme creando di fatto una frattura nella giovane coppia, spossata da una genitorialità che risucchia ogni energia e chiude per qualche tempo il sipario sui sogni artistici di Rebecca. Claudio e Cate si aiutano a vicenda, uniti dal viscerale legame spesso presente nei gemelli, mentre Daniele vive alla perenne ricerca di un’approvazione che si trasforma in perfezionismo,

Conosciamo i tre fratelli alle soglie dei trentaquattro anni, con vissuti diversi e problemi che affondano le radici nell’infanzia: Claudio – l’adorabile Dario Aita che imprime un’impronta fortissima e personale ad un ruolo che suona come una sfida – è un attore insoddisfatto che non ha ancora metabolizzato la propria percezione di invisibilità rispetto ai due fratelli più problematici che hanno invece fagocitato le attenzioni dei genitori; Cate – una Claudia Marsicano in perfetta simbiosi con il personaggio ma in maniera incostante – è talmente condizionata dai propri problemi di sovrappeso da non riuscire ad abbandonarsi con naturalezza alla dedizione di Teo – un Leonardo Lidi impeccabile in ogni sfumatura – e si accontenta di impartire lezioni di musica rinunciando a quel talento musicale che potrebbe fare la differenza; Daniele – il bel Livio Kone che non può supplire con la gestualità esasperata alla sdrucciolevole aderenza emotiva di volto e di voce – pur avendo goduto di affermazione sociale e pienezza affettiva, scava nel proprio passato alla ricerca dei genitori naturali per colmare il vuoto percepito sin da piccolo. Con loro entrano in relazione molti altri personaggi, con interpretazioni non esaltanti come quella di Angela Ciaburri (penalizzata anche da battute e psicologia discutibili dettate dalla sceneggiatura) nel ruolo di Betta, moglie di Daniele, o di Timothy Martin in quello di Mimmo, padre naturale di Daniele, che avrebbero invece dovuto dare un contributo determinante alla ricerca di identità del personaggio. Poco incisiva Francesca Agostino nei panni di Sofia, amica d’infanzia di Cate e primo amore di Claudio, più convincente Liliana Fiorelli in quelli di Chiara, attrice egocentrica che condivide con Claudio un difficile debutto teatrale corredato da coinvolgimento sentimentale, altalenante la resa scenica di Flavio Furno (anche lui migliore da giovane e un po’ impacciato da adulto), il Michele amico di Pietro e poi nuovo compagno di Rebecca. Massimo Wertmüller giganteggia nel ruolo del dottor Castaldi, uno di quei medici capaci di trasformare il dolore in distillato di saggezza che chiunque vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita. Un plauso va ai fratelli Peirò da piccoli (Francesco Mandolini, Anna De Luca e Girum Felicani) e da adolescenti (Gianmaria Brambillasca, Giulia Barbuto C. Da Cruz e Malich Cisse) che contribuiscono alla creazione di un tessuto familiare solido e veritiero.

Luca Ribuoli, che ha firmato moltissime fiction di successo (La squadra, Don Matteo, La mafia uccide solo d’estate), è attento alla creazione di un contesto italiano (Torino, Milano, Roma e Napoli sono le città di riferimento, ma l’intento rimane parzialmente realizzato) per una storia molto americana nella quale l’identificazione non è immediata, si avvale dell’impegnativo montaggio di Pietro Morana e si affida ad una birichina e assai orecchiabile colonna sonora, il cui brano portante Mille stelle, scritto da Andrea Farri e da Nada (che la canta) sembra solleticare dolcemente le corde dei sentimenti.

I continui flashback, giocati su più livelli temporali, che creano una continua corrispondenza tra passato e presente e che movimentano con un perfetto disegno la linea narrativa, costituiscono l’aspetto più avvincente e tecnicamente ben riuscito di un plot senza grandi colpi scena che spinge sull’acceleratore delle emozioni perché intorno ad esse in sostanza si gioca tutta la partita.

Lo scavo introspettivo, che avrebbe dovuto essere la nota più alta nella rappresentazione del vissuto di ogni personaggio, appare però talvolta diluito per qualche falla nella sceneggiatura (molti dialoghi sono densi e graffianti altri risultano sciatti) e per un livello di recitazione poco omogeneo e compatto che inficia in parte il risultato complessivo.

Se l’intenzione era quella di fare di Noi il prodotto di punta della stagione, qualcosa non ha funzionato perché gli ascolti non sono stati quelli previsti. Sarebbe meglio accoglierlo per quello che invece è riuscito ad essere, un appuntamento domenicale di buona qualità e perfettamente godibile, una parentesi dentro cui racchiudere qualche lacrima e qualche sorriso. Con mille stelle che vengono giù e la ricerca mai conclusa dell’amore.

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“Le vie dell’Eden” di Eshkol Nevo

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Le vie dell’Eden, l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza

@Agata Motta, 03-04-2022

Scritto durante la forzata reclusione della pandemia, Le vie dell’Eden, ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza, torna alla modalità narrativa già sperimentata in Tre piani e continua la ricognizione delle presunte verità che l’uomo si racconta per non soccombere e delle colpe mai confessate che rendono sanguinosa l’esplorazione dell’Io.

Tre racconti lunghi in cui le vicende di tre personaggi, giunti ad una sorta di resa dei conti con la propria natura e con le proprie scelte, corrono su binari differenti fino a convergere per brevi istanti o in incontri casuali. Persuaso dalla felice esperienza di Tre piani, l’autore segue l’impulso di assecondarne la forza ipnotica e dirompente, ma nel farlo rinuncia all’effetto novità e smussa la solidità dell’architettura della narrazione, resa esplicita e coesa dalla palazzina borghese di Tel Aviv e dal suggerimento delle tre istanze freudiane, del precedente romanzo. Qui invece è la Bolivia, che racchiude in sé i semi della morte e della rinascita, l’esile punto di contatto delle prime due storie, mentre i loro protagonisti entrano di sguincio nel terzo racconto. Freud o comunque la tentazione psicanalitica non sono lasciati fuori dalla porta perché la confessione e la scrittura di sé restano gli strumenti privilegiati di conoscenza.

Gli accadimenti, attraversati da una moderata corrente di inquietudine, sono comunque trascinanti, perché in sostanza ciò che affascina in Nevo non è l’impalcatura che di volta in volta decide di costruire nei propri testi, ma l’indagine condotta su personaggi che si siedono davanti al tribunale della propria coscienza e che, in questo caso, sono chiamati a difendersi da accuse precise e concrete che arrivano inaspettate come frustate su corpi nudi e inermi.

Omri, un giovane musicista, alto e bello come un vichingo, si ritroverà accusato di complicità in un omicidio; il dottor Asher Caro, un anziano primario vedovo e padre di due figli, dovrà difendersi da accuse di molestie sessuali; una donna, testimone della scomparsa del marito, dovrà dimostrare di non esserne la causa.

Nessuno di loro è colpevole, ma, alla luce di quanto raccontano, neanche totalmente innocente. Bisogna dunque individuare il punto di rottura dell’equilibrio, il momento in cui si capisce che niente potrà più essere come prima e lo scavo dei personaggi apparirà di conseguenza proporzionato alla gravità delle accuse.

Omri, durante un viaggio in Bolivia che rappresenta l’esigenza di assestamento interiore dopo un divorzio che gli ha lasciato ricordi agrodolci e una figlia molto amata, vive la brusca svolta durante l’incontro casuale con una coppia in luna di miele attraverso il pericoloso coinvolgimento erotico e affettivo ottenuto dalla giovane sposa divenuta subito dopo vedova; invece il dottor Caro, per comprendere l’attrazione magnetica provata per una giovane specializzanda, deve ripercorrere a ritroso la relazione con la moglie adorata e cercare l’origine di quello che lui interpretava come istinto di protezione in un atto compiuto molti anni addietro e sepolto nella sua memoria. Allo stesso modo, la donna, rimasta sola e scombussolata ad aspettare invano il ritorno del marito scomparso durante la consueta passeggiata nei frutteti, è costretta a scoperchiare ipotetiche responsabilità delle quali rispondere anche ai propri figli.

Per tutti loro il rientro alla normalità, se tale si può definire ciò che ha subito strappi e lacerazioni, potrà avvenire a costo di dolorose rinunce e di una nuova definizione di ciò che può restituire senso alla quotidianità.

La tradizione ebraica da una parte, presente nell’ultimo episodio tramite l’allusione precisa al Pardès, il giardino dell’Eden di cui si parla nel Talmud, e le istanze di diverse generazioni in bilico tra vecchio e nuovo sono vissute con intensità da un autore molto amato che sa rovistare negli agguati e nelle strettoie di pulsioni non domabili, di giustificazioni logiche atte a tacitare i sensi di colpa, di menzogne lucide indispensabili alla sopravvivenza.

Le vie per l’Eden si mostrano con il loro carico di seducenti richiami e sembrano indicare con chiarezza la strada da percorrere, ma qual è l’Eden che i personaggi di Nevo cercano, quello verso il quale tutti gli esseri umani tendono con la speranza di potervi entrare o quello che ci si è lasciati alle spalle senza averlo riconosciuto? Accade spesso di provare rammarico per le cose a portata di mano che non sono state afferrate, per le parole non pronunciate che bruciano in gola come acido corrosivo, per le fughe del cuore che sono state percepite come bisogni insopprimibili, ma se è vero che il tempo non si srotola al contrario è anche vero che prendere coscienza di ciò che non abbiamo visto o compreso aiuta a sintonizzare mente e corpo in direzione di nuove onde emotive.

Come sempre in Nevo, le parole si poggiano semplici e chiare sulle pagine ma senza ombra di banalità, i dialoghi scorrono agili senza il virgolettato, le interrogative dirette piovono fluide senza l’urgenza delle risposte. Per esse è sufficiente la complicità del lettore che determina, tramite la propria empatica adesione, la riuscita del gioco avviato dall’autore. Gioco senza vincitori, come la vita di ogni essere umano in grado di guardarvi dentro senza inganni.

Eshkol Nevo
Le vie dell’Eden
Neri Pozza editore, Vicenza, 2022
pp. 248
€ 18,00

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“Leonora addio” di Paolo Taviani

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Le ceneri di Pirandello. In sala ‘Leonora addio’ di Paolo Taviani

@Agata Motta, 24-03-2022

Unico titolo italiano al Festival di Berlino 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, Leonora addio, ultimo lavoro di Paolo Taviani, giunge in sala in questi giorni e si porge come testamento spirituale di un uomo attento alle istanze politiche e alle trasformazioni sociali che non ha mai cessato di confrontarsi con la grande letteratura e di nutrirsene ma, questa volta, ha dovuto farlo con lo sguardo orfano di quello simbiotico del fratello Vittorio, a cui il film è dedicato.

Il ritorno a Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi, denota una scelta cosciente e un abbandono fiducioso a quello che sembra essere divenuto un nume tutelare del proprio percorso artistico e probabilmente esistenziale. Immagini d’epoca mostrano la consegna del Nobel nel ’34 e raccontano la percezione dell’amaro di cui è stata impregnata siffatta gloria. Poi, in un bianco e nero voluto come raffinata scelta estetica e valorizzato dalla bella fotografia di Paolo Carnera e Simone Zampagni che ne accentua i contrasti, Taviani racconta la grottesca vicenda del viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello e ad essa aggiunge, tramite un rapido passaggio in dissolvenza al colore, il libero adattamento della novella Il chiodo, scritta poco prima della morte dell’Autore, in cui è narrata l’atroce vicenda di un ragazzo che uccide una bambina (Pirandello si era ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Brooklyn) senza alcun motivo, spinto dall’ineluttabilità di un destino che deve compiersi. Taviani però non rinuncia ad una delle sue cifre stilistiche e costruisce invece per quell’assassino adolescente un vissuto di emigrazione dettata dal bisogno, riproponendo in tal modo tematiche sociali care e frequentate e regalando frammenti di cupa bellezza.

Il film avrebbe potuto concludersi con la realizzazione delle ultime volontà di Pirandello, il ritorno delle sue ceneri alla campagna natia, e l’aggiunta della novella potrebbe ragionevolmente apparire incongruente e forzata, ma è una sensazione che svanisce in fretta, basta ripercorrere a ritroso le immagini e cogliere le innumerevoli corrispondenze formali e la compattezza del messaggio, basta guardare ai continui contrappunti visivi e tematici all’insegna del doppio pirandelliano che creano un dialogo ininterrotto tra le varie tessere, sproporzionate e difformi, di un mosaico libero da convenzioni filmiche e da necessità diegetiche.

L’onnipotenza capricciosa del tempo, che rapido attraversa i giorni depredandoli delle quotidiane conquiste o fissandone poche ore indelebili nella memoria, si impone subito nella scena onirica in cui le assorte e desolate considerazioni del protagonista/narratore della novella Una giornata divengono quelle dell’Autore malato e allettato in una stanza/scatola di un bianco abbacinante nella quale gli arredi e la porta sembrano sospesi, come sospeso dev’essere il tempo della morte nei brevi istanti in cui se ne respira la presenza e ci si interroga su come sia possibile morire se appena ieri si era ancora giovani.

Io già vecchio? Così subito? E com’è possibile? Già finita la mia vita? Quale amarezza, quale stupore, quale percezione di ingiustizia in queste parole che dal personaggio scivolano all’Autore affinché diventino quelle del regista novantenne in un gioco di specchi che riguarda ogni essere umano.

E torna ancora il tempo, sovrano assoluto, a ricucire con andamento circolare le ultime scene del film in cui si mostra, in rapidissima successione, l’invecchiamento del ragazzo che visita ogni anno, a mantenimento di una promessa, la tomba della piccola Betty dai capellacci rossi, trafitta dal chiodo caduto “apposta” da un carro. I riferimenti all’opera di Pirandello sono così insistiti e fitti che sarebbe sterile elencarli tutti, essi sono spesso affidati a semplici inquadrature, come quelle contenenti il gioco della carriola (che torna due volte a siglare il tempo della partenza della famiglia emigrante e quello della perdizione del ragazzo) che suggeriscono l’intero universo filosofico contenuto nella novella La carriola, o disseminati in maniera bizzarra, come nel caso del falso indizio legato al titolo del film, quel Leonora addio che rimanda ad una novella del tutto assente sotto il profilo narrativo e visivo, ma riconducibile alla funzione salvifica (e foriera di morte) del teatro e del canto. La vicenda stessa della sepoltura dello scrittore si trasforma in ottima occasione narrativa che Taviani compone pirandellianamente con tocchi grotteschi e umoristici. Ne sono esempi lampanti le sequenze della processione per le vie della città con la piccola bara che contiene le ceneri di un gigante o della partita di “Tressette col morto” giocata in treno.

Ma il regista non dimentica di omaggiare anche film particolarmente amati (Paisà, LAvventura, Estate Violenta, Il bandito, L’Amore Difficile, Il sole sorge ancora, l’autocitazione di Kaos), ne prende in prestito alcuni spezzoni e li innesta nel proprio percorso narrativo per descrivere gli eventi che coprirono il tragico decennio, tra la morte e la riesumazione delle ceneri dello scrittore (1936/46), in cui la guerra e la Resistenza sconvolsero il Paese. Prendono quindi avvio le peregrinazioni del delegato del Comune di Agrigento (un persuasivo Fabrizio Ferracane dallo sguardo dolce e determinato) con le ceneri racchiuse in una cassetta: dapprima il rifiuto del superstizioso pilota americano di volare con un morto a bordo e poi il lungo viaggio in treno al quale Taviani imprime un andamento di pura poesia. Un’umanità da poco uscita dalla guerra, con i volti segnati dalla fame e dalla povertà, appena sbozzata come in certe pagine di Elio Vittorini, si mostra timida e speranzosa in un viaggio di ritorno alle proprie radici o di nuovi inizi, e persino nel ballo non ci sono sorrisi e allegria ma la semplice presenza di una vita che vuole riappropriarsi del suo monotono e tranquillizzate passo.

Che le opere di Pirandello siano state così tanto frequentate dal grande schermo è un fenomeno curioso se consideriamo che il rapporto tra lo scrittore e il cinema, com’è noto, fu piuttosto complesso e contraddittorio. Già il romanzo Si gira del 1916, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, aveva esplicitato il curioso fascino e il forte turbamento che il nuovo mezzo espressivo esercitava sullo scrittore che talvolta collaborava persino alle sceneggiature altrui o consentiva l’adattamento per lo schermo, non senza perplessità e malcontenti, di sue novelle o romanzi.  Si arrivò al paradosso nel 1930, quando dalla novella In silenzio venne liberamente tratto il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore diretto da Gennaro Righelli. Pirandello si era pubblicamente esposto in diverse occasioni con pareri trancianti sul sonoro e il suo ideale di film era stato da lui racchiuso nel concetto di “cinemelografia”, cioè una pellicola che avrebbe dovuto puntare sulla vista e sull’udito in un’unica esperienza immersiva fatta di immagini e musica.

Paolo e Vittorio Taviani

Vero è che poi tornò ancora sull’argomento esprimendosi in maniera meno rigida e più conciliante, ma è probabile che Paolo Taviani, nel tornare all’amato autore, abbia voluto avvicinarsi a quella visione puramente sensoriale, costruendo un film in cui la sceneggiatura è ridotta a ordito essenziale fatto di parole dense e ricche di impliciti, mentre il fluire lento delle immagini si compenetra delle musiche di Nicola Piovani con tenace adesione. Persino nella scena stilisticamente stridente della lite tra le due bambine, anch’essa avvenuta “apposta” come la caduta del chiodo, le parole scompaiono per lasciare il posto ad uno scontro feroce ed epico, con inquadrature fisse, oltre le quali debordano i corpi rabbiosi, o con campi lunghi che sembrano accogliere tori schiumanti nell’arena o gladiatori in attesa che l’imperatore (nel caso specifico il ragazzo assassino interpretato efficacemente da Matteo Pittiruti) ne determini la sorte.

Taviani non sembra cercare in questo film unanimi consensi, chissà quanto poco possa importargli, si limita a consegnare le proprie considerazioni sul Tempo e sulla Morte con un disordine apparente dal quale affiorano rapide intuizioni e limpide visioni. Ha accanto a sé il ricordo del fratello e il genio di un classico. Possono bastare.

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