Universo Iperborea (II parte)

Universo “Iperborea” (parte seconda)

@ Agata Motta (14-12-2020)

E adesso ancora più a Nord nel nostro viaggio sull’affascinante planisfero di Iperborea, un salto nell’Islanda vista con gli occhi di due autori assai diversi ma ugualmente interessanti.
Bisogna superare le prime cinquanta pagine (in tutto sono 611), per capire se Gente indipendente di Halldór Laxness vi regalerà una folgorazione magnifica e duratura. Pur essendo perfettamente calzante, un titolo così poco seducente non gli rende giustizia e non basta l’immagine naif in copertina con un casolare e una pecora – anch’essa pienamente pertinente – a catturare l’attenzione del lettore. La tematica inconsueta per l’Occidente capitalista, i luoghi sperduti da cartolina e lo stile che può risucchiare o respingere ne fanno un romanzo originale di algida bellezza.
La brughiera ghiacciata d’inverno e acquitrinosa in primavera, le distese a perdita d’occhio dei pascoli, le aspre scogliere con i loro anfratti desolati sono l’ambiente ostile eppur magnetico dentro il quale si sviluppa la vicenda dell’ostinato Bjartur di Sumarhús. Uomo rozzo, pragmatico, dalla dura scorza avvezza alle intemperie e alle avversità ma amante della poesia con la quale si diletta, Bjartur decide caparbiamente di investire l’intera sua vita alla ricerca e al mantenimento dell’indipendenza personale. Dopo diciotto anni di lavoro indefesso a servizio di facoltosi signori, che resteranno per lui eterni antagonisti nonostante le tante manifestazione di ipocrita filantropia, Bjartur acquista un podere “maledetto”, Sumarhús per l’appunto, su cui uno spirito infernale, Kolumkilli, e una strega d’altri tempi, Günnvor, hanno fissato dimora secoli addietro. Questo podere, insomma, che lo costringerà ad una lotta impari contro la natura, che ritiene di poter assecondare se non proprio dominare, e contro il soprannaturale, al quale non crede e al cui cospetto mai si inchinerà, diventa il piccolo regno di Bjartur, in cui le pecore saranno l’innocente corte bisognosa di cure e di attenzioni amorevoli.
L’uomo, sempre più caratterizzato da un ottuso e sciocco attaccamento alla terra e alle pecore più che alle persone, vi seppellirà due mogli, figure dolenti e indimenticabili, e vi crescerà i suoi figli, almeno quelli sopravvissuti, tra cui il piccolo Nonni, il sognatore proiettato verso un indefinito altrove geografico che diverrà l’America in cui cercare e trovare fortuna. Le braccia per lavorare e le pecore da moltiplicare saranno gli unici beni di Bjartur. Le mogli, fragili creature destinate ab initio all’infelicità, saranno il ragionevole compromesso con la propria indole solitaria e lo aiuteranno nella gestione delle incombenze domestiche e lavorative fino a consumarsi, ma non avranno pietà o affetto visibile da un uomo arido e cinicamente calcolatore. In quelle lande desolate, in cui i bisogni sembrano esclusivamente primari, la tensione dell’essere umano verso nuovi oggetti del desiderio alberga anche nell’animo semplice di Bjartur. Il sogno di una casa signorile in cui far vivere “il fiore della sua vita” lo condurrà pian piano alla rovina, complici le vicende politiche e la grande guerra, che inizialmente crea un’illusione di benessere e che dopo qualche anno riduce sul lastrico quanti, come lui, avevano fatto il passo più lungo della gamba. Il fiore da accudire è la figlia Asta Sóllilja (il nome così originale, “Amata Girasole”, è l’unico dono possibile per la neonata sopravvissuta alla morte della madre grazie al calore di una vecchia cagna) che, tra gli altri figli che verranno, è l’unica che in realtà non è frutto del suo seme ma di quello degli antichi padroni e, nonostante questa amara consapevolezza, quella amata di vero amore.
Premio Nobel nel 1955 “per la sua opera epica che ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese” Halldór Laxness praticamente inventa la moderna narrativa islandese, attinge al patrimonio di saghe e di personaggi soprannaturali della tradizione – dedicandovi il suggestivo capitolo iniziale che crea un legame magico con la terra maledetta – vi innesta la povera realtà dei pastori dei primi decenni del XX secolo facendone probabilmente anche una metafora politica. Da questa operazione letteraria scaturisce una lingua corposa e densa, i dialoghi e i pensieri fluiscono senza marcatori grafici – il discorso diretto non è mai introdotto dalle virgolette e solo talvolta isolato in timidi capoversi – e tracimano spontaneamente nell’indiretto libero per poi confondersi tra le pieghe di lunghe sequenze descrittive, necessarie perché il paesaggio è protagonista tanto quanto i piccoli uomini che lo abitano.
Bjartur sarà uno dei tanti “vinti” della letteratura e della vita reale, ma di lui a sopravvivere nel ricordo del lettore saranno le battaglie epiche condotte contro i poteri occulti e le avversità naturali, la capacità di non voltarsi mai indietro e di non lasciarsi sopraffare da rimorsi e nostalgie e, infine, l’immagine bellissima di un uomo ormai provato e non più giovane che si avvia con la vecchissima suocera, depositaria di una saggezza fatta di accettazione, con l’unico figlio maschio rimastogli accanto dopo la rinuncia al sogno americano per inseguire un amore impossibile e con la figliastra malata sulle spalle (in un magnifico capovolgimento dell’immagine di Enea che regge il padre Anchise) verso un altro incerto futuro screziato di speranza. Il perdono concesso alla fanciulla, che lo ha deluso lasciandosi ingravidare durante la sua assenza, sembra assolverlo dalle colpe della sua testardaggine e una commossa pietas aleggia su ciò che resta dell’originario nucleo familiare. Tutto ciò fa di Bjartur il tragico eroe dell’indipendenza economica che, coincidendo con quella intima e privata, la rende assimilabile alla libertà.
…non c’è da meravigliarsi se qualche volta a uno balena in mente il pensiero, se non valesse la pena darsi più da fare per preservare la vita umana invece che gli ideali. Perché se l’ideale non mira a migliorare la vita dell’uomo sulla terra, e invece uccide la gente a milioni, be’ allora a uno sorge la domanda se non è meglio essere completamente privi di ideali, anche se naturalmente una vita del genere sarebbe vuota. Perché se l’ideale non è la vita, e la vita non è un ideale, allora l’ideale cos’è? E cos’è la vita?


Molto amato e assai noto Jón Kalman Stefánsson con Luce d’estate ed è subito notte raggiunge, a detta dei suoi più fedeli lettori, uno dei vertici più alti della sua vasta produzione. Con sguardo curioso e penetrante il narratore, che si fa voce collettiva appartenente al microcosmo descritto, apre finestre, dalle quali spiare con soddisfazione, su un piccolissimo paese islandese e sui suoi abitanti, attraversati da noie impalpabili come polvere sottile o da improvvisi guizzi di vitalità. Giovani e vecchi, uomini e donne, tutti i protagonisti insomma sono guidati da una personalissima stella cometa che possa orientare in un’assidua ricerca che dia senso alla vita e soprattutto alla morte, padrona e signora incontrastata che aleggia sovrana su tutti, unica certezza assoluta nella spessa congerie dei sogni mai spenti, delle carezzevoli illusioni, delle innocenti beatitudini, dei tormentosi tradimenti, dei sentimenti tenaci e degli amori spezzati.
Ed ecco emergere dalle pagine il giovane direttore del fiorente Maglificio trasformato in Astronomo dall’incontro fortuito con una lingua morta – il latino – che lo riporta ad una dimensione più autentica della vita; Hannes, il poliziotto del paese, quercia robusta spezzata dalla morte dell’esile compagna; il fragile Jónas, spinto dal suicidio paterno ad intraprendere una professione che è la negazione stessa della propria sensibilità artistica; Kjartan e Kristín, adulteri invischiati nelle pastoie di una passione devastante; Asdís, sposa paziente che si trasforma in tigre dopo l’umiliazione del tradimento; Matthías, che dopo un lungo peregrinare dettato dalla sete di conoscenza torna in paese spinto dal ricordo del volto amato; Benedikt, uomo cupo e solitario che riapre il cuore alle lusinghe dell’amore spinto dall’esplicita offerta di Puríður, donna dai modi spartani non disposta a lasciarsi appassire senza affetti; Elísabet, bella e provocante artefice del proprio destino di donna intraprendente e solida e tantissimi altri ancora, perché in questo piccolo paese ognuno ha un suo posto e una sua occasione per mostrarsi in scena.
Pur non potendo negare che si tratti di un romanzo a tutti gli effetti – la cornice narrativa, il rimbalzo continuo tra i personaggi, la voce narrante che li chiama a racconta riassumendone talvolta le vicende per chiarire il non detto al lettore – il tratto caratterizzante di quest’opera è quello di essere concepita per capitoli che possono configurarsi come racconti a se stanti, per cui il lettore corre sulle pagine all’inseguimento di un personaggio che è già pronto a passare la staffetta a quello successivo e poi ancora all’altro e così via fino alla conclusione, in una beata sbronza di vita vissuta, di attese che si concretizzano in eventi, di strappi che provocheranno lacerazioni, di folgorazioni che imprimeranno direzioni nuove e inaspettate, di peccati da commettere e da scontare, di dolori da affrontare o da cui essere sopraffatti. Senza mai dimenticare che siamo fatti per la morte, siamo carne pulsante che precipita incontro al nulla eterno, siamo esseri desideranti destinati a non conoscere il fine ultimo di questo nostro desiderare. E senza mai trascurare un dettaglio apparentemente insignificante che si finge spesso di non vedere o di non voler prendere in considerazione: il caso, quella mano incurante e neghittosa che si insinua come un tarlo tra le solide strutture di esistenze accortamente pianificate che non reggono al minimo urto, nemmeno ad un soffio di vento.
Per quale motivo ho vissuto, si domanda la vecchia zia in punto di morte. Nessuno è ovviamente in grado di risponderle e molto probabilmente lei stessa non aspetta una risposta. Basta chiedere, interrogarsi, cercare, e lungo il percorso sassoso della ricerca incontrare la vita, dovrebbe bastare questo, l’incontro stesso sarebbe un successo, conclusione scontata e persino banale, ma è proprio questo il punto di forza del libro, mettere su carta pensieri che almeno una volta ci hanno attraversato, rimestare tra tante vicende per portare a galla “il sugo” di tutte le storie, che è il sugo del nostro essere uomini su questa Terra.
Perdersi tra tanti racconti è possibilissimo, talvolta si confondono i nomi e i personaggi, ma questo Stefánsson lo ha previsto e non se n’è curato o più probabilmente è un effetto cercato. Ha affidato al narratore (ai narratori, in realtà, ai tanti occhietti che si infilano nelle case e nei pensieri dei compaesani) il compito di ricucire e assestare la materia narrata e alle “dieci mani” inoperose fuse in un’unica identità (espediente tecnico che si riappropria di una delle funzioni del coro della tragedia greca) quello di intervenire nell’azione con una rancorosa e ipocrita morale che porta a giudicare più che a commentare. Giudizio che non coincide con quello dell’autore, inutile sottolinearlo, perché delle vicende umane uno scrittore può scegliere di essere semplice testimone.
Continuiamo ad aggiungere nuove storie, ci resta difficile metterci un punto, ma forse è anche perché chi racconta la vita ha la tendenza ad andare per le lunghe – tutto quello che facciamo è in un modo o nell’altro una lotta contro la morte… Eppure continuiamo a vivere come se niente fosse più scontato. Senza un barlume di buon senso.

https://www.scriptandbooks.it/2021/04/21/eppure-il-natale-arrivera-universo-iperborea-parte-seconda/

Universo Iperborea (parte I)

Eppure il Natale arriverà | Universo “Iperborea” (parte prima)

@ Agata Motta (05-12-2020)

Selma Lagerlöf

Se avete voglia di esplorare ad ampio raggio la letteratura dei paesi nord-europei non esitate ad accostarvi alla casa editrice milanese Iperborea che propone titoli accuratamente selezionati in un accattivante formato lungo e stretto (10×20) che rende i volumi immediatamente identificabili e la lettura più riposante.  A piccoli passi Iperborea ha saputo conquistare un pubblico sempre più ampio puntando sulla qualità di offerte raramente deludenti che innescano nel lettore una sorta di fidelizzazione. Potrete dunque scegliere tra autori danesi, norvegesi, svedesi, islandesi, estoni, finlandesi, olandesi, belgi con la certezza che ne troverete almeno qualcuno di vostro gradimento.

Cominciamo con un autore cult svedese, Stig Dagerman, anarchico e ribelle come il protagonista del romanzo Bambino bruciato, che narra di una drammatica passione per la matrigna, donna matura e navigata che non sa opporsi alla fresca tentazione di un giovane corpo devastato dal rancore e dalla rabbia. Il lutto per la madre apre una voragine di dolore nel ragazzo che si lancia senza alcuna rete protettiva in un percorso autodistruttivo che ha il sapore della vendetta nei confronti dell’insensibilità paterna e dell’immersione in un nuovo grembo materno che non può offrire conforto ma aggiungere soltanto altra disperazione. L’esigenza insopprimibile di purezza e l’incapacità di adattamento alla vita che appartengono al giovane Bengt sono le stesse caratteristiche di cui è intrisa la parabola esistenziale dello stesso Dagerman, suicida poco più che trentenne.

I personaggi che ruotano intorno alla coppia sono poco più di ombre sbiadite (la fidanzata oppressa dal mal di testa e soggiogata dal fascino malato del giovane Bengt) o fin troppo vitali (il padre che ama i piccoli piaceri della vita e non sa rinunciarvi in nome di una superiore morale), ma il loro amore non basta a sanare l’ansia di assoluto di chi sembra votato alla sconfitta o ad una cinica e probabilmente precaria sopravvivenza. In realtà non si tratta di vero amore, questo appare chiaro ad entrambi anche nei momenti di divorante passione, ma di un sentimento malato che di esso assume le fattezze nel tentativo consolatorio di riempire vuoti e restituire significato a giorni che inseguono altri giorni senza costrutto fino a perdersi nella menzogna e nell’esibizione quasi teatrale del proprio dolore.

La candela, oggetto presente in modo ossessivo tra le pagine, è il simbolo del lutto  – per la madre, per la propria giovinezza, per i propri ideali – ma è anche quello della luce intensa che attira e che brucia, perché “non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. E’ attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina.”

Restiamo in Svezia con Jerusalem un classico del primo Novecento di Selma Lagerlöf, autrice prolifica e colta, grande affabulatrice che attinse alla tradizione orale restituendone il fascino attraverso un linguaggio semplice e potentissimo, prima donna a vincere il premio Nobel della letteratura che le venne attribuito nel 1909.

Il corposo romanzo nacque dopo un viaggio in Terra Santa compiuto con la compagna e scrittrice Sophie Elkan, un viaggio fortemente voluto per seguire le tracce di un gruppo di mistici che, partito da un piccolo villaggio della Dalecarlia, si stabilì a Gerusalemme, la terra dove camminò Cristo, per aggregarsi ad una colonia americana nella quale avrebbero dovuto realizzarsi i più puri ideali evangelici. L’interesse dell’autrice fu inizialmente di carattere sociale e politico ma l’impulso personale di ricerca interiore fu probabilmente  l’elemento determinante che le consentì di indagare con serietà e trasporto i meccanismi alla base di una delle tante utopie che attraversarono il diciannovesimo secolo. L’utopia della Colonia Spaffordita (dal nome di Anna Spafford, madre delle comunità) era particolarmente severa e intransigente nella predicazione della rinuncia al matrimonio e al lavoro (elementi entrambi che la resero invisa e spesso aspramente attaccata dagli osservatori esterni) e ricordava per certi aspetti alcuni elementi delle “eresie” medievali sradicate con sanguinaria crudeltà dai pontefici dell’epoca, ma di sicuro esercitava un’attrazione irresistibile su quanti reputavano la propria esistenza priva di nobili finalità se incentrata sul guadagno e le transitorie passioni terrene.

Nel romanzo della Lagerlöf, i protagonisti del viaggio della salvezza sono descritti inizialmente nell’irrequieto avvicendarsi di piccoli eventi – innamoramenti, scelte morali, acquisti per accrescere il proprio patrimonio, ricerca di prestigio sociale – che cominciano a scardinare un sistema costituito di valori e di tradizioni, fino all’arrivo di un predicatore carismatico, Hellgum, che attraverso un’indefessa operazione di proselitismo getta il seme da cui germoglieranno scelte di vita laceranti destinate a lasciare segni indelebili sia in chi deciderà di restare fedele al vecchio sistema sia in coloro che, sedotti dalla sirena della redenzione, si metteranno in viaggio per compiere un percorso fisico e spirituale di rinnovamento nell’attesa del vicino compimento del regno dei cieli. La famiglia Ingmarsson, nell’arco di due generazioni, fungerà da fulcro narrativo e morale dell’intera parabola evolutiva della grande utopia rappresentata, una famiglia costantemente protesa al compimento del Bene ma costantemente schiacciata dal senso di colpa che inciderà sull’agire dei suoi membri anche a costo di immani sacrifici e di muto dolore.

Ad illuminare le vicende come un faro dalla luce mai attenuata è il dispiegarsi sovrano dell’Amore in ogni sua declinazione, quello per Dio e per Cristo naturalmente ma anche e soprattutto quello tra esseri umani che sanno tacere e rinunciare, che sanno cogliere quelle scintille di infinito che niente e nessuno potrà spegnere. La scelta del giovane Ingmar di rinunciare a Gertud, la ragazza teneramente amata sin dall’infanzia, per riscattare la propria fattoria attraverso un matrimonio portatore di grossi vantaggi economici costituisce uno dei momenti più alti e struggenti del romanzo, scelta seguita a distanza di anni da un viaggio di ammenda e riparazione che aprirà un varco magnifico a nuovi ed imprevisti sviluppi, quasi a sancire la complessità dell’animo umano e dei sentimenti che possono sbocciare nelle condizioni più avverse o trasformarsi per dar vita a nuove combinazioni in cui gli aspetti della dedizione paziente e dell’affetto tenace si rivelano vincenti e degni di essere accettati e gratificati. Altro elemento di grande fascino è costituito dalle avversità che si trasformano in opportunità, come il terribile naufragio, descritto con potenza pittorica, dal quale la superstite signora Gordon (La Spafford della finzione) trae l’energia per dar vita al suo grande sogno di salvezza collettiva, o l’imprevisto legame affettivo tra Gertud e Bo che riporterà Ingmar alla moglie di cui si scopre inaspettatamente innamorato e inaspettatamente ricambiato. E poi ancora le leggende, i sogni, le maledizioni, l’impronta calvinista della predestinazione, il rovesciamento del dettato luterano per cui non basta la fede senza l’indispensabile corredo delle buone azioni, i percorsi tortuosi che conducono alla Verità, sebbene essa suoni in maniera diversa a seconda della persona che pensa di possederla.

Di ogni personaggio, maschile o femminile che sia, l’autrice coglie emozioni e stati d’animo porgendoli al lettore senza enfasi, con una spontaneità e una naturalezza che inducono alla comprensione e all’indulgenza. Più delle parole sono le azioni a “rappresentare” ciò che è davvero importante, i dialoghi sono ampi e argomentativi per ciò che concerne l’esposizione della dottrina ma divengono asciutti e pudichi quando devono esprimere i sentimenti e le paure, le speranze e le illusioni perdute e ritrovate.

Gerusalemme, la città miraggio, il luogo primigenio da cui tutto ha origine e verso cui tutto si dirige, è un luogo di aridità e di arsura, di fame spirituale e materiale, di morte esibita e di vita adombrata, di maldicenza e avidità, centro di raccolta di sette sempre nuove e coacervo di religioni in netta contrapposizione, prime tra tutte quella cristiana e quella musulmana che si fronteggiano materialmente nella coesistenza di chiese e moschee che si rinfacciano i loro rispettivi meriti in un allucinato capitolo in cui il sensibile udito della signora Gordon,  acuito dal calore e dalla luna piena, ne registra le voci. Gerusalemme è anche la città dei miracoli, non quelli tramandati dal Vangelo che non hanno più un Cristo che li compia, ma quelli compiuti dagli uomini di buona volontà che riescono a dissodare un terreno avaro e sabbioso, che si prodigano per curare gli ammalati, che si riuniscono per cantare la grandezza del Creatore, che riconoscono l’amore e lo addomesticano affinché ne rimanga solo l’essenza più pura. Nell’arco di un paio d’anni, la Lagerlöf attraverso Jerusalem edifica un mito e lo consegna alla storia.

Ingmar pianse a lungo; quando alzò la testa, Gertrud era scomparsa, e dalla fattoria accorrevano a cercarlo. Batté il pugno sul sasso, e il suo volto assunse un’espressione dura e ostinata.

«Forse Gertrud e io ci incontreremo ancora», si disse, « e allora le cose potrebbero anche andare in modo diverso. Noi Ingmarsson finiamo sempre per ottenere quel che desideriamo con tutta l’anima.»

http://www.inscenaonlineteam.net/2020/12/06/eppure-il-natale-arrivera-universo-iperborea-parte-prima/

 

Little Joe

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Il fiore rosso della felicità. ‘Little Joe’ di Jessica Hausner, Prix d’interprétation féminine Cannes 2019 a Emily Beecham

@ Agata Motta (13-08-2020)

Un caschetto di capelli rossi e uno sguardo mite e innocuo, il fisico esile come quello di un elfo. Si presenta così Emily Beecham, vincitrice del Premio all’interpretazione femminile al Festival di Cannes 2019, nel ruolo di Alice, una fitogenetista che lavora con un’équipe di scienziati alla creazione di un fiore che dovrebbe innescare una vera e propria rivoluzione sociale ed economica per le proprietà terapeutiche del suo profumo.

Little Joe, in uscita il prossimo 20 agosto, è un delizioso film, diretto con rigore e forte senso estetico dall’austriaca Jessica Hausner, che al di là delle etichette di genere che gli sono state attribuite (distopico, fantascientifico) offre innumerevoli sollecitazioni etiche, un impianto fortemente metaforico e un’atmosfera paranoica che non sembri assurdo definire elegante e stilizzata.

L’ambientazione è londinese, ma naturalmente potremmo trovarci in qualsiasi altra parte del pianeta votata all’industrializzazione, all’ottimizzazione dei profitti e al sacro furore della ricerca scientifica. Che un profumo seduca, influenzi le scelte e determini comportamenti non è una scoperta eccezionale, lo hanno ben capito le star del mondo dello spettacolo, gli imprenditori e le grandi catene alberghiere che usano fragranze accattivanti per predisporre alla sensualità, all’acquisto e al benessere, ma qui il passo compiuto è assai più lungo e non può non condurre nella selva intricata dell’ingegneria genetica praticata con discutibile disinvoltura.

Nel bianco asettico e abbacinante del laboratorio aziendale, il fiore erge la sua fiammeggiante corolla lanciando promesse di successo allo sguardo assorto degli scienziati che lo coccolano amorevolmente, prima tra tutti la solerte e determinata Alice, che non esita ad effettuare mutazioni genetiche poco ortodosse per il raggiungimento dell’obiettivo: il fiore, sprigionando ossitocina, deve indurre al cervello una sensazione di appagamento simile ad uno stato costante di felicità, un vero passo da gigante nella storia dell’umanità da sempre in lotta con la sofferenza e con il malessere interiore.

Malessere che attanaglia la stessa protagonista, madre proiettata alla realizzazione professionale e rosa da sensi di colpa nei confronti del figlio adolescente Joe. Alice tenta di far luce sui propri lati oscuri tramite sedute di psicoterapia che serviranno soltanto a sedare timidi bagliori di lucida coscienza nei confronti della realtà esterna che pare voglia sfuggirle di mano. Per la terapeuta (Lindsay Duncan) infatti, tutto dev’essere ricondotto nell’alveo rassicurante di una razionalizzazione delle pulsioni e dei desideri inconfessabili e pertanto repressi, come quello, inaccettabile per qualsiasi madre che si ritenga amorevole e devota, di volersi alleggerire del peso di un figlio limitante per la propria carriera.

Il malessere soffoca anche Bella (tenera Kerry Fox), l’anziana collaboratrice dal fosco passato, unica portatrice sana di pensiero divergente in un ambiente infetto. La donna comprenderà subito l’impatto devastante degli effetti collaterali dello splendido fiore e, come Cassandra, rimarrà profeta inascoltata di prossime sventure finché il sistema, fallito il tentativo di assorbirla, non ne decreterà l’espulsione. Gli altri colleghi e collaboratori (David Wilmot, Phénix Brossard, Sebastian Hülk), tutti efficacissimi sul piano di una recitazione volutamente pacata e senza eccessi, saranno progressivamente fagocitati dal sinistro fascino olfattivo del fiore che placherà insicurezze, dubbi, e qualsiasi altra manifestazione di disagio. Persino il timido Chris (un camaleontico Ben Whishaw), corteggiatore discreto e paziente perderà le sue specifiche caratteristiche per divenire un ambizioso ricercatore senza scrupoli e un innamorato intraprendente e a tratti prevaricatore nell’intrufolarsi capziosamente nel rapporto di Alice con il proprio figlio.

Joe (Kit Connor), del quale il fiore porta il nome come se per Alice fosse quasi un duplicazione, è un perfetto prototipo di adolescente figlio del suo tempo che vedrà interrotto (o trasformato/evoluto?) il profondo legame affettivo con la madre a causa della presenza del rosso ospite trapiantato illecitamente in casa come innocente dono risarcitorio. Se l’essere umano vive lottando quotidianamente con i propri mostri, la loro definitiva sconfitta porta ad una condizione simile alla morte, come esplicitamente dichiarano, sotto forma di scherzo, Joe e la sua amichetta del cuore in un significativo dialogo che sembra volerci condurre ad una interpretazione risolutiva per poi avviarci nuovamente sui sentieri già battuti del dubbio.

Sotto il profilo squisitamente tecnico, il film possiede un impianto connotato dai contrasti, sia per quanto riguarda le contrapposizioni cromatiche valorizzate dall’ottima fotografia di Martin Gschlacht  sia per quanto concerne il linguaggio delle riprese che dipanano pigramente l’elemento perturbante che si insinua poco alla volta nella mente dei personaggi.

Il bianco e il rosso, con la variante del fucsia, e il verde mela dominano incontrastati negli interni del laboratorio, dai quali emana una sensazione ambigua di freddo – i camici bianchi degli studiosi e i loro calcoli razionali – e di caldo umido – i petali filiformi e folti che si distendono beati nella serra/incubatrice loro destinata – mentre tinte più cupe e tonalità ramate come quella dei suoi capelli dominano l’abitazione di Alice. La macchina da presa avanza con lente carrellate in netta opposizione alla velocità di crescita che si vorrebbe imprimere alle piante per essere pronte per la grande esposizione che segnerà il traguardo dell’ardita sperimentazione.

La sceneggiatura della stessa Jessica Hausner e di Géraldine Bajarde porge dialoghi scarni e asciutti, l’impotenza delle parole scagliata contro il muro di una coalizione di intenti. Vengono invece sfruttate le variazioni quasi impercettibili della mimica facciale che riflette comportamenti nuovi e stati d’animo diversi, i gesti mai esibiti o ridondanti, le atmosfere ora fiabesche ora iperrealistiche che slittano in quelle da costante incubo ad occhi aperti, le musiche del compositore giapponese Teiji Ito che costruiscono un ordito di suoni dolci e percussivi, il montaggio sonoro di Tobias Fleig che inserisce un sottofondo di latrati, quasi ad annodare un filo immaginario con il cane Bello, lo stesso nome declinato al maschile della proprietaria che non esiterà a farlo sopprimere quando non lo riconoscerà più come il proprio oggetto d’amore.

Nessuna violenza esibita, nessuna scena forte da digerire, solo una leggera, serpeggiante inquietudine che di tutti questi contrasti si nutre.

Il fiore è sterile, per sopravvivere ha quindi bisogno di una riproduzione assistita che solo gli esseri umani possono garantirgli in uno scambio di “favori” che potrà perpetuare lo spiraglio di felicità conquistata coincidente con la fine delle emozioni. Un virus (casuale e inquietante riferimento in questa fase storica che al virus è assoggettata) si trasmette al cervello per costringerlo ad amare il fiore e a far sì che non si estingua.

Davvero tante le chiavi di lettura e tra tutte si è liberi di scegliere la propria, sebbene l’autrice  definisca nell’ultima scena il quadro multiforme schizzato con volute polivalenze.

Il messaggio più semplice e superficiale, da fiaba a lieto fine e pertanto assai improbabile, sarebbe che se ci prendiamo cura di qualcuno o di qualcosa esso possa restituirci l’amore e la felicità che meritiamo, ma qui c’è qualcosa di più sottile e inquietante, perché l’amore presenta sempre le sue insidie, porge un conto da pagare. Il fiore, che esala vapori apparentemente benefici e pollini in grado di modificare le strutture psichiche, sembra più che altro la messa in scena di un legame profondo e perverso con le parti più intime e nascoste dell’Io, di un amore simile a quello di Narciso, devastante e impossibile, condannato a ripiegarsi su stesso e a nutrirsi di proiezioni illusorie.

La felicità rincorsa da un’umanità zombificata sarebbe frutto dell’assenza di empatia, di una finzione che porta a recitare se stessi per mantenere un appagamento che possa protrarsi oltre l’effimero degli attimi fuggenti, della messa al bando dei sensi di colpa e degli scrupoli etici, di un parossistico individualismo che bandisce sentimenti potenzialmente dolorosi per crearne di nuovi perfettamente anestetizzati.

Il dubbio resta la sostanza pregnante del film. Si è trattato di suggestioni o dell’avvio verso una nuova società di uguali, di soldatini efficienti impegnati nel perpetuo sogno della conquista della felicità?

https://www.scriptandbooks.it/2020/10/02/il-fiore-rosso-della-felicita-little-joe-di-jessica-hausner-prix-dinterpretation-feminine-cannes-2019-a-emily-beecham/

“Altrove” di Agata Motta su Scenario

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Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

 

 

Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.

La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.

La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.

Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.

Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

http://www.inscenaonlineteam.net/2020/08/07/la-necessita-di-restare-tabula-fati-pubblica-la-produzione-drammaturgica-di-agata-motta-nel-volume-altrove/

Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

Altrove
Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.
La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.
La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.
Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.
Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

 

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

https://www.edizionitabulafati.it/altrove.htm

 

Tre Piani di Eshkol Nevo

Reperti del dolore. ‘Tre piani’ di Eshkol Nevo, ed. Neri Pozza

@ Agata Motta (27-04-2020)                          Letteratura. Saggistica breve.

Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.

Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che  riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.

Marc Chagall (1887-1985)_Het blauwe huis

Marc Chagall, Il sogno di Giacobbe

La sua è un’altra limpida voce che giunge da Israele, dopo quelle già da tempo affermate ed apprezzate della generazione precedente – Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman – e con esse condivide la necessità di raccontare storie di disagevoli normalità con lo scavo meticoloso e asettico di un bisturi che si fa spazio dentro i labbri di una ferita infetta, ma senza alcun compiacimento, come mosso da una necessità conoscitiva che trova la sua piena realizzazione nella comunicazione con l’altro, con colui che saprà ascoltare. Già con Nostalgia, pubblicato inizialmente da Mondadori e poi da Neri Pozza, casa editrice che ha continuato a seguire tutto il percorso dell’autore, Nevo aveva raccolto grandi consensi e il successo ha accompagnato anche i lavori successivi.

Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.

Marc Chagall, Violinista verde

Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.

Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.

Talmud babilonese

Marc Chagall, Sabbath

Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.

La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.

Marc Chagall_Russian village

E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.

Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/reperti-del-dolore-tre-piani-di-eshkol-nevo-ed-neri-pozza/

“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

anche su Artcicolo21

https://www.articolo21.org/2020/04/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

“Viva la vida”spettacolo su Frida Kahlo

L’anima prigioniera di Frida. ‘Viva la vida’, con Pamela Villoresi, al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-03-2020)

Teatro. Saggistica breve.

Palermo – In questi giorni di confuso smarrimento, di attesa, di rabbia, di impotenza, il Teatro Biondo ha aperto per tre pomeriggi (dal 6 all’8 marzo) il proprio sipario virtuale in sala Strehler proponendo Viva la vida, spettacolo su Frida Kahlo liberamente tratto dall’intenso monologo di Pino Cacucci, che ha definito la pittrice come colei che meglio ha saputo dipingere l’anima profonda e ancestrale del Messico.

Diretto con precisione e grande sensibilità da Gigi De Luca, che ne ha curato anche il progetto e il fedele adattamento, il lavoro, prodotto dal Biondo, riesce a fondere gli ossimori stridenti che hanno caratterizzato l’esistenza di una donna fuori dal comune, innamorata della vita nonostante la presenza di un dolore necessario e perenne.

Inizialmente la voce galleggia nel buio a narrare le proprie origini – quasi una sorta di predestinazione alla complessità – poi la luce incontra e svela il corpo di Frida, ovvero il corpo di una magnifica Pamela Villoresi che indossa immediatamente il personaggio per impossessarsi del suo dolore, della sua voracità e della sua carne.

L’arbusto rampicante trafitto da fiori rossi che si abbarbica sulla poltrona/letto che accoglie il corpo tormentato della donna è il primo timido segnale di una natura che ha prodotto aridità e passioni, ma è anche il simbolo dell’importanza attribuita a radici culturali mai rinnegate e sempre coltivate.

Poi la trama compatta e preziosa della drammaturgia e il sicuro incedere verbale della protagonista accendono l’incanto di uno spettacolo vertiginoso e coinvolgente, in cui la scelta registica di inserire il canto risulta vincente, il canto come compagno/antagonista, perché tutto in questa esistenza martoriata è lotta, contrasto, coesistenza di opposti e bisogno di mescolarne i succhi per trarne nutrimento. Ecco che la struggente voce di Lavinia Mancusi diviene anch’essa corpo vivente, quello di Chavela Vargas, altra mitica figura messicana che accompagnerà Frida nell’ultima parte del suo percorso umano e artistico: “Le due donne si incontrano per caso e si riconoscono”, la bambina malata e la gatta randagia, nella bella definizione della scrittrice Silvana La Spina. Alla parola allora saranno affidati il dolore rabbioso, il ruggito, la stanchezza, l’amore, l’arte; al canto il soffio vitale, anche quando è velato di malinconia, anche quando traveste la sofferenza con i panni colorati dell’allegria.

La Villoresi conduce magistralmente il gioco spietato degli ultimi giorni – quelli del riepilogo, della sintesi, del bilancio, dell’immersione memoriale e della trasfigurazione nel sogno – con azioni minime ma con tutte le modulazioni vocali necessarie a restituire la multiforme esperienza di un’anima inquieta prigioniera di un corpo malato: la scoperta della pittura e delle sue capacità catartiche, l’impegno politico condiviso con il marito due volte sposato, Diego Rivera, muralista illustre e adultero impenitente, amore fatto di tormento e sollievo, amore indispensabile come l’aria, lo strazio degli aborti ripetuti e l’impossibile maternità per un ventre profanato da un’asta metallica nel terribile incidente che, a soli diciotto anni, devastò il fragile corpo già segnato dalla malattia marchiandolo con l’infamia di continui interventi e onnipresenti dolori, il sollievo tratto dall’alcol e dalla morfina, l’interesse per il suo popolo e le sue tradizioni cui si sente legata a doppio filo, l’attrazione per le donne e la complicità tutta femminile che rende unici certi legami, il desiderio sorprendente suscitato in altri uomini e talvolta ricambiato, l’ostinazione alla vita nonostante tutto, l’abitudine alla sofferenza e alle insospettabili risorse che da essa possono scaturire.

Elementi dedotti dalla biografia e dalla pittura si offrono come fertili sollecitazioni per le scelte registiche che agiscono in sinergia con quelle più propriamente tecniche.

Frida Kahlo, La colonna spezzata

Nell’impianto scenografico Maria Teresa D’Alessio accoglie, reinventa e restituisce con grande scrupolo e precisione questi elementi, per cui il grande specchio, che nel lunghissimo periodo dell’immobilità aveva consentito alla donna di ritrarsi o di decorare i busti indossati come una seconda pelle, diviene occasione per una recitazione non convenzionale, con l’attrice seduta di spalle ma perfettamente visibile al pubblico sullo specchio; il celebre dipinto La colonna spezzata detta il tema pittorico che la body painter Veronica Bottigliero riproduce sul corpo nudo dell’attrice – bende bianche che lasciano scoperto il seno – con il valore aggiunto di sapore metaforico delle cicatrici deturpanti che si trasformano in quegli intrichi di foglie e natura lussureggiante tanto cari all’artista. E ancora Le due Frida e Autoritratto come Tehuana guidano le mani esperte di Roberta Di Capua e Rosario Martone nel confezionamento del corpetto ricamato e del manto/copricapo che l’attrice indosserà dopo aver scrollato l’immobilità dal corpo nudo per lasciarsi sedurre da altre movenze e altri stati d’animo.

Anche le luci di Nino Annaloro giocano un ruolo importante nella messa in scena perché occultano e svelano, seguendo il ritmo della narrazione, o aprono squarci onirici, come nella scena bellissima in cui Frida, sulla scia di un fascio di luce che sembra una strada da percorrere con il pensiero, rievoca un’abitudine contratta sin da bambina, quella di disegnare una porta sul vetro appannato e da lì intrecciare dialoghi con un’amica immaginaria eppur presente nelle lunghe giornate di immobilità e solitudine. “A che servono le gambe quando si hanno ali per volare?” I sogni, quelli tossici e maledetti che anticipano la morte o quelli salvifici e forieri di refrigerio, restano l’unico senso da attribuire alla vita, l’unica via di fuga quando tutto ciò che si ha intorno diventa insostenibile.

La pioggia battente che ha battezzato la nascita Frida e la sua crescita, la pioggia sottile che si è fusa tante volte alle sue lacrime, la pioggia violenta che ha flagellato la sua anima in pena, la pioggia tante volte evocata nella narrazione si placa infine in un gocciolare assorto e continuo, lento come la Pelona – la Morte – che finalmente si fa strada a viso scoperto per porre fine al suo capolavoro: averla risparmiata tante volte affinché la vita tanto amata potesse assassinarla lentamente.

Frida Kahlo, Viva la vida

Sulla polpa rossa e succosa delle angurie raffigurate in una natura morta l’artista scriverà poco prima di morire “Viva la vida”, un manifesto artistico, una dichiarazione d’amore, un epitaffio, uno sberleffo al destino idiota.

Appare superfluo sottolineare che uno spettacolo visto su streaming viene mortificato in quella che è la vera essenza del teatro – la percezione con tutto il corpo delle vibrazioni provenienti dal palcoscenico – purché sia chiara “l’eccezionalità” della proposta che in alcun modo deve far sorgere tentazioni future in questa direzione. Il cambio epocale prodotto dalle pay tv nell’universo cinematografico, che ha portato molti illustri studiosi a preconizzare la morte imminente del film fruito in sala, dovrebbe portare ad innalzare barriere protettive verso qualsiasi fenomeno di “disumanizzazione” dell’evento artistico o di desertificazione dei luoghi d’incontro, pena una forma di onanismo culturale dall’orrido aspetto.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/13/lanima-prigioniera-di-frida-viva-la-vida-con-pamela-villoresi-al-teatro-biondo-di-palermo/

anche su Articolo21

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