L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

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Una terzina in attesa del countdown

Una terzina in attesa del countdown. Ulisse, la virtù, la conoscenza, il limite

@ Agata Motta (25-02-2020)

Manca ancora un anno, ma già si pianificano progetti e iniziative di diverso genere per arricchire la catena di eventi legati al settecentenario della morte di Dante, tra cui la bizzarra proposta dell’istituzione di un “Dantedì” o “Dante day” da dedicare al genio fustigatore di papi, sovrani, concittadini, città e nazioni.

Che i classici siano tali perché continuano a parlare al cuore e alla mente dei contemporanei non è una verità sulla quale sia necessario imbastire dibattiti o effettuare puntualizzazioni, così come non dovrebbe suscitare meraviglia che dei classici ci si possa innamorare perdutamente e vergognosamente fino al punto di rileggerli con bulimica voracità e con la certezza di trovarvi risposte soddisfacenti e fresche come pane appena sfornato.

Dante è un classico il cui consumo può produrre assuefazione e seri effetti collaterali. Tra questi, molto comuni, specie mentre si consuma un peccato di qualsiasi foggia e natura, il pensiero ossessivo della pena da scontare in aeternum, mentre, più rare ma devastanti, possono verificarsi allucinazioni che portano il lettore ad immaginare il Sommo Poeta vivo e operante accanto a sé, magari assiso nel salotto di casa propria o alla poco parca mensa quotidiana, arcigno e nasuto, sprezzante e altero, magro e coronato d’alloro come in una delle tante raffigurazioni ottocentesche del Dorè, ospite assai scomodo e ingombrante, pronto a sentenziare e ad indicare, come farebbe Minòs orribilmente attorcigliando la coda intorno al corpo, in quale girone collocarci per le nostre sciagurate inclinazioni; mai che si materializzi su una cornice purgatoriale, accanto all’angelo biancovestito intento a cancellare la P di peccato dalla nostra fronte con l’aluccia compassionevole, o immerso nel rapimento estatico dei cieli paradisiaci ad indicarci, con un sorriso dolce come una promessa, il luogo di delizie che potrebbe appartenerci! Nelle inquiete apparizioni da sovradosaggio, il Nostro passeggia severo e cupo, ruminando atroci contrappassi, giudice inflessibile dei nostri vizi, ma pur sempre gigantesco e “divino” come la sua Commedia, definita tale da Giovanni Boccaccio, uno dei primi entusiasti commentatori.

Dante non fu solo Divina Commedia, questo è ovvio, ma non si può negare che ad essa principalmente ci si accosta con perdurante passione e devozione, forse perché con naturalezza si è imposta come il “testo sacro” degli italiani, non solo per l’avvio del processo che portò all’unità linguistica e per aver effettuato una sintesi perfetta di tutto il sapere del suo tempo, ma anche per la costruzione di un’identità comune fatta di versi mandati a memoria da generazioni sempre nuove di studenti, di immagini e personaggi scolpiti a tutto tondo nella memoria collettiva, di un patrimonio condiviso di bellezza che coincide con l’espressione massima della poesia e con l’altezza di una voce che ha saputo plasmare sintassi e lessico come creta per adattarli all’immensità delle proprie esigenze espressive.

Isolare soltanto alcuni versi non è impresa facile, perché sono davvero tanti quelli che possono offrirsi oggi con l’identica freschezza e solennità di un tempo, tanti quelli che invitano a percorsi sempre aperti, fecondi di input filosofici, politici e morali e linguisticamente preziosi, ma l’operazione va fatta per non rischiare di perdere la bussola in un viaggio impervio che egli potè compiere guidato dalla Ragione e soprattutto sorretto dalla Grazia divina, elementi non facilmente reperibili per chiunque si accinga adesso a comprare un biglietto per quella stessa meta: le “stelle”, bellissima, raggiante parola che chiude le tre cantiche consegnandole alla luce e al suo allegorico significato.

Amos Nattini, Inferno, Canto XXVI

Come lucciole che volteggiano al tramonto appaiono le anime dei consiglieri di frodi che risplendono sul fondo dell’ottava bolgia nascoste da lingue di fuoco. Siamo nel XXVI canto, il grosso del percorso infernale è già compiuto, manca poco per giungere a Lucifero, l’angelo ribelle conficcato nel centro della terra. Da solerte maestro Virgilio soccorre l’avida curiosità di Dante, ma l’allievo ha già compreso che il fuoco avvolge i peccatori e desidera invece arrivare subito al cuore del suo dubbio: chi avanza in quella fiamma divisa in due nell’estremità superiore? Sono Ulisse e Diomede che affrontano insieme il castigo divino così come insieme peccarono, spiega Virgilio, ed elenca con mirabile sintesi alcuni degli inganni più noti alla tradizione letteraria. A questo punto, immaginatelo pure il Dante personaggio che freme e desidera con tutto se stesso conoscere la verità sulla fine dell’eroe greco, ma immaginate anche il Dante autore con un sorrisetto sornione da primo della classe, pronto a risolvere una questione assai dibattuta nel Medioevo, periodo in cui la conoscenza dei testi omerici, scritti in greco, non era diretta e giungeva mediata da autorevoli scrittori latini. Dante dell’eroe conosceva le caratteristiche che erano state esaltate ed immortalate nel corso dei secoli, l’astuzia e la sete di conoscenza, quelle che avevano edificato la fama di un personaggio verso il quale il Nostro provava un’ammirazione smisurata e nel quale coglieva alcuni tratti dominanti della propria personalità, senza che questo gli impedisse di stigmatizzare la componente marcia dell’astuzia, cioè il ricorso all’inganno. Naturalmente non è la prima volta che in Dante coesistono sentimenti in aperto contrasto verso i dannati, molto spesso la condanna morale non esclude la comprensione, la pietà, l’ammirazione, la commozione; gli episodi legati alle indimenticabili figure di Paolo e Francesca o di Pier della Vigna ne sono solo gli esempi più eclatanti e noti.

Ma torniamo alla questione della fine di Ulisse. Dante propone una soluzione originale e non supportata dalla tradizione, ma del tutto coerente con l’altissimo profilo del personaggio: dopo tanto viaggiare, giunto alle colonne d’Ercole, invalicabile confine oltre il quale si affronterebbe l’ignoto, Ulisse esorta i pochi compagni di viaggio rimasti con lui a proseguire per conoscere anche il mondo sanza gente. Andranno incontro alla morte attraverso il folle volo, ma da questa orazion picciola sgorga il miracolo di una terzina che ha sfidato i secoli e che continua a costituire essa stessa una sfida per i suoi lettori:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

Eccoli i nostri versi perfetti, li conosciamo tutti, almeno una volta nella vita ne abbiamo considerato distrattamente il messaggio o li abbiamo pronunciati come un mantra per cogliere e assaporare fino in fondo l’universo concettuale racchiuso in una semplice terzina.

Come parlano all’uomo contemporaneo questi versi? Che significato si attribuisce oggi alla virtù e alla conoscenza? Sono ancora i tratti distintivi dell’essere umano? E l’uomo che uso ne fa? Possono essere collocati nella sfera sempre più mutevole e relativa dei valori universalmente riconosciuti e accettati come tali?

Per il Nostro il bisogno di conoscenza è insopprimibile, ad esso vota la propria esistenza – anche quando lo porta consapevolmente nella selva oscura, anche quando lo seduce fino a condurlo alle soglie della superbia – nella sua piena soddisfazione pone l’espletarsi della beatitudine.

Ecco perché il suo Ulisse, nella piccola nave travolta da un turbine e poi inabissata, non appare sconfitto; è rassegnato ad un volere superiore e consapevole della propria audacia, ma non vinto nel nobile impulso che lo ha posto al di sopra dei bruti. Dante umanamente lo comprende e lo sente a sé affine, ma sa di non dover temere il naufragio perché conosce il limite, sa che ogni passo avanti nella conquista del sapere può essere effettuato esclusivamente tramite il soccorso della grazia e ad essa si affida.

Questo, dunque, l’altro intrigante elemento di riflessione: la questione del limite. L’impulso tutto umano di conoscenza che si trasforma in implacabile arsura, in sogno faustiano e in acrobazie volte a spostare sempre più in là il confine della scienza con l’inevitabile prezzo da pagare necessita di limiti? E chi e in nome di cosa potrebbe imporli? Uno scienziato in base al calcolo preciso dei pro e dei contro di ogni manovra che possa incidere sulla natura? Un filosofo che forgi l’etica su nuovi basi dettate da nuovi bisogni? Un legislatore che alla luce dei cambiamenti in atto codifichi nuovi comportamenti legittimi e allenti le maglie su condotte discutibili? Un religioso che accolga tra le braccia l’essere umano in quanto tale con il suo carico di imperfezione e fallibilità?

La questione naturalmente è aperta e, sebbene ci si ritrovi sempre meno baciati dalle luminose certezze dantesche, è impossibile non avvertirne il fascino. Un limite può dunque farsi certezza di equilibrio? Un limite può contenere l’inquietudine e restituirla sotto forma di energia?

Snow Storm, William Turner

Ma è sul significato di virtù che bisognerebbe interrogarsi con maggiore volontà interpretativa; è questo forse oggi l’aspetto più seducente e meno dibattuto dei versi danteschi. Cosa significasse per Dante “seguire virtute” non lascia adito ad alcun dubbio: il suo concetto di virtù è quello mediato dalla teologia cristiana che additava principalmente la via del bene con la conseguente fuga dal male, il vivere rettamente in ogni ambito e settore seguendo le virtù morali e intellettuali; Dante si spende molto sul proprio personale modo di vivere e di sentire la virtù, ma la prioritaria finalità della Commedia è quella di indicare la via a tutti gli uomini di buona volontà affinché possano salvarsi e realizzare la felicità terrena e quella celeste. Ciò che nel De Monarchia era stato teoria nella Commedia diviene pratica.

Cos’è attualmente la virtù? Quell’insieme di imperativi morali innati nell’uomo, dei quali il mondo classico si è fatto lucido interprete, che hanno attraversato il Cristianesimo e poi le grandi rivoluzioni del pensiero, della politica, della tecnologia, per giungere intatti all’epoca del relativismo, del solipsismo e delle relazioni liquide? Un codice comportamentale intimo e personale e quindi non condivisibile a livello sociale? Chi si riallaccia al passato è un moralista o uno che continua a guardare all’essenziale che non soffre le offese del tempo? Sono cambiati gli occhi che guardano o le cose da guardare? Il ripiegamento intimistico di tanti individui è frutto di una rinuncia? E’ un compromesso valido chiudersi al mondo esterno per negarsi poi ogni pudore e riservatezza sulla grande piazza virtuale? Avere le idee chiare su ciò che si vuole e tentare di ottenerlo a ogni costo può costituire un modello esemplare?

Naturalmente è un gioco che non prevede risposte giuste o sbagliate.

Conoscere prima le regole e sapere come collocarsi sulla scacchiera della vita rende le finalità della partita semplici e chiare, tentare di costruirle man mano è senz’altro più eccitante ma disorientamento e sradicamento stanno in agguato dietro l’angolo. A tanti sta bene così, Dante di certo avrebbe avuto qualcosa da ridire.

E allora? L”importante è continuare a considerare la nostra semenza e a ricordare che fatti non fummo a viver come bruti… Ecco su questo ci sarebbero altre considerazioni da fare, ma lasciamo perdere…

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“Come un delfino”di Gianluca Pirozzi

La fugace conquista della felicità. ‘Come un delfino’ di Gianluca Pirozzi, Giulio Perrone Editore

Saggistica breve. Letteratura

@ Agata Motta (07-01-2020)

Capita spesso di incrociare vite attraversate in apnea, alla perenne ricerca di uno spiraglio di ossigeno che possa restituire senso e compiutezza a dolori pervasivi e tenaci, che possa compiere il momentaneo miracolo di piccole felicità raggiunte, di attimi in cui l’insopprimibile bisogno di sentirsi amati possa considerarsi colmato. In Come un delfino, romanzo edito lo scorso novembre da L’Erudita di Giulio Perrone, lo scrittore Gianluca Pirozzi, che ha già pubblicato diverse raccolte di racconti e un romanzo, accompagna il suo protagonista Vanni in un percorso che prende le mosse dall’infanzia napoletana per poi portarlo alla piena maturità lontano dai luoghi natali, impregnati di traumi irrisolti e relazioni familiari conflittuali, nel tentativo (riuscito) di raggiungere la piena consapevolezza delle sue esigenze e il riconoscimento dei suoi bisogni.

Quella di Vanni potrebbe essere una famiglia normalmente felice: padre, madre, fratelli, nonna, ma si avverte subito che qualcosa non funziona per il verso giusto, che un’atmosfera tossica guasta cose e persone, che prima l’infanzia e poi l’adolescenza devono elaborare fantasmi inquieti nonostante l’affettuosa complicità che lega Vanni al fratello più piccolo Maso e l’amore evidente che madre e nonna riversano su di loro. Anche il padre, forse a suo modo, ama i figli, ma è segnato dal marchio dell’arte, è affetto dal gigantismo della propria personalità, dal narcisismo distruttivo che spesso accompagna l’artista che si ritrova invischiato in un quotidiano ostile e avvilente, dalla frustrazione per una carriera che avrebbe potuto essere meravigliosa e in continua ascesa senza il peso della famiglia e dei doveri ad essa connessi.

Music Zoran, Autoritratto, 1988

Per quanto negativo e talvolta meschino possa apparire nell’insieme, questo padre, che sa diradare il senso di colpa di Vanni per la morte del fratellino e che si eclissa quando le scelte di vita (prima fra tutte l’omosessualità) dell’ormai unico figlio maschio diventano chiare e non equivocabili, è una delle figure più riuscite, i suoi accessi d’ira non gli alienano l’empatia del lettore, non lo confinano nella tipizzazione che spesso nuoce a personaggi così monolitici. Tutta la prima parte del romanzo è dominata proprio dal personaggio rappresentato più di sguincio, le sue mani possenti che danno vita alle sculture sono capaci di plasmare esistenze e di seminare macerie esistenziali, sono le mani che Vanni ricorderà da adulto con un pizzico di invidia, mani che non lo hanno saputo sorreggere o accarezzare nei momenti in cui i dubbi e i turbamenti lo avevano fatto vacillare. Quelle mani operose e taumaturgiche appartengono invece a nonna Iole, donna colta e saggia che sa rifugiarsi nell’ombra durante le ire paterne e sa rinascere come l’araba fenice non appena il terremoto ha finito di scuotere le fondamenta domestiche. E appartengono alla madre, mite e apparentemente remissiva, traduttrice immersa in interminabili letture, anche lei un po’ artista ma schiacciata dalle più roboanti e rabbiose aspirazioni del marito. Eccolo qui, dunque, il destino dei figli dei giganti, tutta una vita a lottare per conquistarsi uno spazio vitale in cui godere di luce propria, tutta una vita a capire chi si è e cosa si voglia diventare. Vanni preferisce la fuga, andar via dal padre e lasciarsi alle spalle le tracce odorose della madre e della sorellina, nata poco prima che il lutto si abbattesse sulla famiglia, figurina che rimarrà in ombra anche da adulta, appendice quasi insignificante (e quindi non necessaria) del nido familiare dal quale salvare soltanto qualche ricordo. Lo spostamento insomma è vissuto come svolta, il viaggio come ricerca di identità. Una scelta che probabilmente riporta allo stesso autore che ha molto viaggiato e che di queste esperienze ha lasciato visibili impronte nel romanzo in cui ambienti, strade, atmosfere sono descritti con mirabile precisione.

Gustav Klimt, Speranza II, 1907-08

Che sia Roma o Bruxelles o Skopje (ad essa è dedicata un’ampia e discutibile parte diaristica), lo scenario della crescita e dell’emancipazione affettiva e lavorativa di Vanni si propone come luogo di possibili incontri e di ipotetici traguardi, ma non si avverte più la potenza di immagini e di sentimenti che aveva corroborato la prima parte. Vi si gettano però le basi per le scelte definitive, quelle che condizioneranno il futuro tramite l’irrompere di due personaggi decisivi, Tiago, che sarà l’amore vero e stabile nonostante il mestiere di giornalista che li costringerà a continue separazioni, e Amandine, amica di Vanni e Tiago quasi per vocazione istintiva e poi artefice della realizzazione del sogno genitoriale della coppia. Se Tiago vive della propria schietta e sulfurea personalità, Amandine non convince appieno nella sua gravidanza non soltanto proposta ma addirittura sollecitata come soddisfacimento di un proprio bisogno, quello di mettere al mondo una vita per farne poi dono a chi non può farlo. Certo resterà presente nella vita della piccola Tea, sarà la premurosa zia Amandine, ma lo spessore di questa donna altruista che ci tiene a camuffare la sua gratuita generosità risulta artificioso.

L’autore si muove tra romanzo autobiografico e romanzo di formazione (elementi rimarcati dalla narrazione autodiegetica che non si porge come semplice artificio letterario e da una catena di eventi traumatici che segnano snodi e tracciano percorsi di evoluzione) attingendo ad un registro stilistico classico tramite una lingua pulita, distesa e senza asperità in cui le scelte lessicali sono accurate, lontane da azzardi e sperimentazioni che avrebbero soltanto potuto confliggere con l’impianto dell’opera. Eppure sottopelle si avverte l’urgenza di mettere a fuoco le conseguenze dei cambiamenti nel mondo contemporaneo, specie quelli afferenti la trasformazione del nucleo familiare che deve fare i conti con la metamorfosi dell’impianto tradizionale e guardare alle nuove realtà in cui due persone dello stesso sesso realizzano il proprio bisogno di genitorialità scontrandosi con le difficoltà legate ai pregiudizi sociali e alle falle legislative. Giusta e in perfetta sintonia con i tempi dunque l’intuizione che viene innestata nel percorso narrativo, ma persino troppo ottimistica la visione generale, perché le disponibili Amandine in giro per il mondo probabilmente non sono così tante.

Edvard Munch, Morte nella camera della malata, 1893

Nell’ampio romanzo di Pirozzi le sequenze dialogiche occupano una parte cospicua, ma difettano di freschezza e di autenticità, sono lunghe, talvolta esasperanti, troppo spesso letterarie, cavillose, ripetitive. E’ vero che tutti i personaggi del romanzo appartengono a classi sociali che ne determinano l’alto profilo culturale e che quindi credibilmente utilizzano un altrettanto alto registro linguistico, ma dietro l’esposizione puntuale e dettagliata dei propri sentimenti (accettabile soltanto nelle riferite sedute psicoanalitiche), dietro certi dialoghi densi di periodi lunghi e formalmente ineccepibili, si avverte un limite profondo, quello di non affidarsi ad un semplice gesto, ad un singolo sguardo, ad un’asciutta battuta per far parlare ai personaggi la lingua pulsante e calda delle emozioni non dichiarate ma semplicemente suggerite.

L’autore in realtà quest’arte dell’emozionare il lettore la conosce e svettano per la potenza rappresentativa e la suggestione delle immagini le pagine dedicate alla morte, tragicamente incontrata in più occasioni dal protagonista bambino e poi adulto, al suo impatto devastante e alle conseguenze immediate e a lungo termine, all’impossibilità decretata per legge di natura di guardare ancora dentro occhi che hanno saputo guardare dentro i nostri, di ascoltare parole che sono state trascurate per puro istinto di dissipazione. La morte come concretizzazione fisica e psicologica del concetto di assenza, quelle assenze eterne che scavano tunnel da percorrere rannicchiati e a capo chino, perché ogni urto è un’altra menomazione, ogni inciampo una frana rovinosa, ogni spiraglio di luce una boccata d’ossigeno indispensabile per poi tornare in apnea, come un delfino.

L’autore dichiara in copertina di aver trattato “la fugace conquista della felicità”, ed in effetti è proprio così, perché non c’è felicità che non abbia conosciuto il dolore, quello che apporta un danno non risarcibile ma che non nega la possibilità del suo superamento, quello che per contrasto può spalancare le porte alla scoperta della bellezza della vita.

https://www.scriptandbooks.it/2020/02/25/la-fugace-conquista-della-felicita-come-un-delfino-di-gianluca-pirozzi-giulio-perrone-editore/

Gianluca Pirozzi

Come un delfino

L’Erudita, novembre 2019

pp.359; € 25.00

“Studio per contrabbasso”di G. Sangiorgi

Struggimento senza redenzione. ‘Studio per contrabbasso’ di Giuseppe Sangiorgi da Patrick Süskind ai Cantieri alla Zisa di Palermo, prima nazionale

Teatro. Saggistica breve.

@ Agata Motta (13-12-2019)

Palermo – Una bella sfida artistica quella proposta in prima nazionale allo Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, nell’ambito del progetto Scena Nostra, da Giuseppe Sangiorgi, regista e interprete di Studio per contrabbasso, rilettura del monologo dello scrittore tedesco Patrick Suskind, assurto alla celebrità nella metà degli anni ’80 con il romanzo bestseller Profumo.

Lui e L’Altro si fronteggiano sulla scena. L’artista e l’uomo, distanti ma non troppo, accomunati da rabbia inesplosa e frustrazioni serpeggianti. Lo strumento, grosso, ingombrante, disarmonico nelle forme da vecchia signora, è il mostruoso trait d’union tra le parti sdoppiate di una personalità dolente che fa dell’amara autoironia un mezzo di sopravvivenza, una zattera malsicura sul mare piatto di un’esistenza vissuta all’insegna dello spreco affettivo e del livore per i grandi geni del passato che l’uomo è costretto ad omaggiare con la sua musica.

L’artista è interpretato dal musicista Damiano D’Amico, primo contrabbasso della Foss (Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana), che ha curato la partitura sonora dello spettacolo e che si presta sornione e complice al gioco scenico, l’uomo da Giuseppe Sangiorgi che porge il suo flusso di coscienza ad un interlocutore occulto, in una lucida confessione che scava all’origine del malessere interiore e mette a nudo i meccanismi che lo hanno condotto ad una precoce senilità non confortata dall’amore e dal successo. Tutto ruota intorno allo strumento, vero e proprio perno esistenziale e generatore di una catastrofe morale irreversibile, del quale inizialmente si certifica il ruolo essenziale nell’ambito di un’orchestra per poi svelarne pian piano la natura esigente e l’atrocità del suono, quindi l’argomentata impalcatura teorica che ne dovrebbe accreditare il valore si rivela improponibile sul piano strettamente pratico-musicale. Suonarlo insomma è un atto di forza – le mani martoriate e callose ne sono placide vittime – che ha poco a che fare con la musica, è un ostacolo più che uno strumento, possiede un’aria idiota e uno sguardo accusatorio che compromettono perfino la spontaneità dell’atto sessuale. Così il pubblico non può esimersi dal partecipare emotivamente al disprezzo manifestato dall’uomo, ma contemporaneamente deve ammettere che il gioco musicale proposto dall’artista (sul quale sarebbe piaciuto un maggiore indugio) confuta le parole dettate dall’esasperazione.

La regia di Sangiorgi è pulita, matura e accurata, ricca di risorse inventive nel trasformare gli scarni arredi di scena in rappresentazioni narrative pregne di rimandi simbolici più o meno scoperti. Le tante bottiglie di birra vuote, rovesciate sul palco come onde che lambiscono i pensieri e alimentano le recriminazioni del protagonista, perseguitato da un bisogno compulsivo di reidratazione, si trasformano nell’unica, fida compagnia pronta a spezzare una solitudine affollata di sogni in cui si agitano le illusioni perdute, racchiuse nel guscio protettivo di un piccolo appartamento completamente insonorizzato che isola dal mondo esterno lacerato dal rumore assordante di prodigi edilizi in fieri. Le stesse bottiglie divengono anche figure indifferenti di una gerarchia orchestrale che inevitabilmente rimanda alla rappresentazione della società umana e alla dicotomica partizione tra sconfitti e vincitori di matrice schopenhaueriana filtrata attraverso Svevo e tutto il filone dell’inettitudine mitteleuropea. Il nostro affranto quarantenne però sa di non poter aspirare ad un’ascesa che lo riscatterebbe agli occhi del mondo e della fanciulla vanamente amata, sa che nell’orchestra il contrabbassista di fila (la terza per la precisione) è destinato sempre e comunque all’anonimato, più dell’insulso timpano che almeno gode del privilegio di essere piazzato più in alto e quindi di una visibilità a lui ineluttabilmente negata. E quindi giù tutte assieme le maledette bottiglie, in un effetto domino calibrato e di forte impatto visivo. Funzione analoga a quella delle bottiglie, cioè di oggetti vivi e funzionali al monologo, è affidata alla mastodontica custodia del contrabbasso, prima depositaria dell’impulso omicida (di questo si tratta considerata la vera e propria personificazione dell’odiato strumento) e poi di quello erotico.

Ogni gesto, ogni ammiccamento della maschera facciale dell’interprete è studiato nei minimi dettagli, ogni cambio di timbro vocale, ogni passaggio dall’ironia lieve al dramma intimo, ogni nota accennata con voce sottile e morbida testimoniano una duttilità più volte dimostrata in passato e una capacità di immersione che non teme le modulazioni e i cambi di registro. Sangiorgi si appropria del testo attraverso un adattamento intelligente e non riduttivo, lo manipola in modo personale, lo indossa come il frac di scena, elegante testimone di uno struggimento senza redenzione ipotizzabile. Certo, il suo scialbo ometto potrebbe anche fare una pazzia, urlare il nome della donna amata subito prima dell’inizio del prossimo concerto e così sconcertare i presenti e magari conquistare il cuore freddo della giovane e frivola soprano, ma sarebbe davvero la svolta cercata, il passaggio al gradino superiore dell’altrui considerazione? La riflessione resta aperta nel rispetto del testo di Suskind e del pensiero del regista stesso.

Forse la lacerazione è destinata a rimanere insanabile, forse l’atto dissacrante, qualora effettuato, non produrrebbe i risultati attesi, forse siamo fatti proprio così, tutti, in quanto esseri umani, perennemente dilaniati da aspirazioni troppo alte e strattonati da impulsi opposti e contraddittori. E forse è proprio in questo che andrebbe cercata la grandezza, nell’incessante tentativo di mediazione, nella percezione dell’insuccesso e nella conseguente capacità di ripartenza, nel tentativo di conquistare quella porzione di bellezza comunque concessa, se si è in grado di comprenderla e di trattenerla.

Il prossimo appuntamento con Scena Nostra è per i prossimi 20 e 21 dicembre con Volver scritto e diretto da Giuseppe Provinzano.

STUDIO PER CONTRABBASSO

regia e adattamento di Giuseppe Sangiorgi

drammaturgia musicale di Damiano D’Amico
in scena Giuseppe Sangiorgi e Damiano D’Amico

produzione Compagnia Massimo Verdastro

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Natale 2019. La lettratura russa ieri e oggi

Natale 2019 | La letteratura russa ieri e oggi

@ Agata Motta (02-12-2019)

Il Giocatore di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. E’ stato scritto in meno di un mese e sotto la pressione di un editore già pronto a fregarlo se il testo non fosse stato consegnato nei tempi concessi, un anno per la verità, che il Nostro invece utilizzò per la revisione di Delitto e castigo. La situazione economica di Dostoevskij è disastrosa, il gioco d’azzardo è diventato una vera e propria malattia e proprio dalla coscienza lucida e distaccata di un vizio al quale si abbandonerà per tutta la vita, nasce questo godibilissimo romanzo breve, che diverte anche quando affronta la rovina spirituale e materiale dei suoi personaggi. Bisogna però superare la delusione prodotta dalle prime pagine, perché l’opera parte un po’ in sordina per crescere pian piano fino ai deflagranti capitoli centrali nei quali il personaggio indimenticabile della nonna siede al tavolo da gioco dissipando gli averi che i parenti ingordi e inetti, in speranzosa attesa di un telegramma che annunziasse la sua dipartita, avevano già sognato nelle proprie tasche.

Il luogo è una immaginaria cittadina termale tedesca, Roulettenburg (ma se andate a Baden Baden non dubitano che si tratti della loro splendida città), dove bere le acque della salute o compiere lunghe passeggiate terapeutiche sono occupazioni del tutto secondarie, mentre la passione si accende invece nel Casinò, in cui una torma di disperati si mescola a dame annoiate, nobili decaduti, parassiti in cerca di nuove vittime, usurai mascherati da gran signori, fanciulle disposte a sperperare le vincite dell’ultimo sciocco pollastro appena abbindolato. Denaro e amore sono i motori dell’azione, il primo vissuto come unica panacea in grado di risollevare le sorti dei giocatori o di imprimere una svolta concreta ad esistenze piatte e grigie, il secondo occupa i pensieri di uomini senza qualità disposti ad essere usati e umiliati da rappresentanti del gentil sesso ciniche e volubili.

Edvard Munch. Tavolo della roulette a Monte Carlo, 1892

Lo sguardo acuto dell’autore regala anche una passerella assai poco edificante di rappresentanti delle varie nazioni che si incontrano nell’amena cittadina: dai francesi ai tedeschi, dai polacchi ai russi, tutti mostrati nei punti deboli, nelle caratteristiche negative, nei lati oscuri, tutti radiografati in modo impietoso, nessuno escluso, nemmeno il protagonista/narratore che descrive le febbrili dinamiche di ubriacante follia e di disperato sconforto che si creano intorno alla roulette con la precisione e la consapevolezza dettate dalla conoscenza diretta del demone del gioco.

Una panoramica desolante esposta con l’amaro umorismo di chi vede con chiarezza il proprio volto nello specchio deformante che ha appena realizzato.

...per quanto poi riguarda le perdite e le vincite, gli uomini, allora, non solo alla roulette, ma ovunque, cercano di vincere o portar via qualcosa l’uno all’altro. Che poi il guadagno o il lucro siano in generale una cosa sporca, questa è un’altra questione. Non sarò comunque io a risolverla qui.

Anna Karenina di Lev Tolstoj. Tempi lunghi e distesi, ovviamente, per leggere questo grande classico che solo apparentemente concentra la sua attenzione sul personaggio eponimo.

La nota vicenda dell’infelice amore di Anna per il vanesio Vrònskij è in realtà solo uno dei nuclei tematici dell’opera che vive e si fortifica attraverso le vicende parallele di altre due coppie, quella costituita dalla giovane Kitty e dal posato Lévin e quella formata da Dolly e Oblònskij, cognati di Levin.

Proprio quest’ultimo personaggio è il perno sul quale ruota la visione d’insieme dell’autore, il suo alter ego, il portavoce di un’interiorità dinamica e profondamente lacerata che opacizza le personalità degli altri uomini, dediti ai piaceri, alla carriera, ad un’arte sterile di puro autocompiacimento, ad elucubrazioni ideologiche sulle quali l’autore fa pesare il proprio giudizio. Dalla dimensione corale del romanzo, che supera le vicende personali dei protagonisti per amalgamarle in una complessa composizione d’insieme, emergono le voci e i volti della grande massa contadina, degli ufficiali dell’esercito, dei nobili oziosi e parassiti e di quelli incuriositi e stimolati dalle novità nella delicata fase di passaggio vissuta dalla Russia all’indomani dell’abolizione della servitù della gleba, la fase di trasformazione che avrebbe dovuto modernizzare un sistema restìo ai cambiamenti e legato ai privilegi di classe.

Stati d’animo, sensazioni, riflessioni dei personaggi sono sviscerati con precisione da un narratore onnisciente che consente al lettore di affacciarsi nell’interiorità di ciascun personaggio, di scrutare ogni piega dell’animo, di conoscerlo, insomma, come se fosse una persona vera e viva con la quale intrattenersi in piacevoli conversazioni davanti ad un buon caffè.

Certo, tra tutte le donne presenti nella vicenda, Anna svetta per la sua superiore capacità di inabissarsi nella passione, per il dolore scaturito dalle sue due maternità, la prima frustrata e recisa dall’ex marito, la seconda involontaria e poco gratificante, sicuramente mai compensatoria rispetto alla precedente. La rinuncia ad una vita agiata e rispettabile in cambio di una passione violenta rende vero e pulsante il personaggio “colpevole” molto più dei personaggi positivi, le sorelle Dolly e Kitty. Pur nella consapevolezza della precarietà del suo amore e dell’imminente catastrofe alla quale è destinato – solo a tratti addolcita da un ottimismo disperato che coincide con un animale istinto di sopravvivenza – la donna si getta a capofitto in un’esperienza che le regala il gusto per la vita, la percezione di un corpo capace di desiderare, l’ascolto di un battito che segue i ritmi frenetici dell’eccitazione e avverte i morsi feroci della gelosia.

Gørild Mauseth in ‘Karenina & I’

Anna morirà volontariamente, pensando in tal modo di punire se stessa e il suo ingrato amante, ma in realtà la donna è travolta dalla propria vitalità insopprimibile che non tollera confini e limitazioni e l’incolore Vronskij, per il quale non si riesce ad avvertire un briciolo di compassione, dovrà fare i conti con un suicidio che imprimerà una svolta di cupa espiazione alla sua tragica avventura.

Dopo, sulla sventurata coppia cala il silenzio. La vita continuerà a scorrere dopo aver distrattamente raccattato le macerie e dopo averle gettate in un angolo nascosto. Di tanta passione non resterà nulla, di tanta felicità neanche una sbiadita traccia. Come ciò sia possibile è un mistero, uno tra i tanti misteri che la vita porge quando spegne astri troppo luminosi o che non hanno avuto il tempo di risplendere.

L’uscita di scena vera e propria appartiene a Lèvin. La ricerca del senso e del fine ultimo dell’esperienza terrena, che assilla quest’uomo d’azione e di pensiero, si ricompone in una spiritualità intensa che non prevede premi e assoluzioni, quella che segnerà l’opera di Tolstoj nell’ultima fase della sua vita.

Questo nuovo sentimento non mi ha mutato, non mi ha reso più felice, non mi ha improvvisamente illuminato, come io fantasticavo…Se questa sia o no la fede io non lo so, non so cosa sia, ma questo sentimento è penetrato in me attraverso le sofferenze e si è stabilito saldamente nella mia anima.

Lauro di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni. Ambientato nella metà del XV secolo, questo romanzo pluripremiato, scritto da uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco, segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete dello spirito del suo tempo.

Vodolazkin ricostruisce con grazia sorprendente e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla morte, con una narrazione piana e scorrevole impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile e una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con i quali per una parentesi della sua vita condividerà abitudini e stravaganze, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Arsenio, dunque, dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un “folle in Cristo”, prendendo il nome di Ustino, poi tornerà ad essere Arsenio e poi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria di un amico scomparso), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna. Tanti nomi che corrispondono a tante vite.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo.

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

Anche la storia non ha scopo, come non ce l’ha tutta l’umanità. Solo un uomo può avere uno scopo. E anch’esso non sempre.

La tormenta di Vladimir Sorokin, Bompiani editore. Apparentemente leggero e decisamente surreale questo romanzo breve del camaleontico Sorokin è uno scherzo letterario di raffinata crudeltà intessuto sul racconto lungo di Lev Tolstoj Il padrone e il lavorante, in cui le dinamiche tra classi sociali differenti si sviluppano con diverse modalità ed esiti.

In realtà c’è poco da sorridere, perché Sorokin porta alle estreme conseguenze la sua analisi politica di una Russia al collasso e, dopo aver indagato nei precedenti romanzi sulle storture del totalitarismo, si sofferma su uno scalcinato futuro, non identificabile attraverso una datazione precisa, che volge lo sguardo al passato in una commistione esilarante e grottesca (definita dal critico Mark Lipoveckij “retrofuturo”) esaltata da uno stile che filtra e raggela ogni possibile emozione.

Platon Il’c Garin è un coscienzioso medico di provincia che deve raggiungere in breve tempo il villaggio di Dolgoe per vaccinare gli abitanti decimati dalla peste nera boliviana (la droga, senza troppi sforzi di fantasia) che prima di uccidere rende gli uomini simili a zombie. Alla stazione di posta non trova cavalli disponibili ed è costretto a rivolgersi a Raspino, un tenerissimo personaggio che vive trasportando il pane da un villaggio all’altro con un singolare mezzo di trasporto, la propulsoslitta, azionata dalla forza motrice di cinquanta minuscoli cavallini. A complicare lo spostamento una tormenta di neve che non accenna a placarsi.

Paesaggi ancestrali e ambientazioni d’epoca convivono dunque con bizzarrie futuribili e scoperti rimandi letterari (Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Cechov) per inscenare l’incubo contemporaneo che incombe sulla Russia come una bufera intenta a travolgere con il suo bianco manto ogni traccia di umanità e resistenza. Il rischio del congelamento è sempre in agguato, reale o metaforico non importa, ciò che conta è che quel gelo penetra nelle azioni dei personaggi e nei pensieri del lettore e ne paralizza il sorriso, perché presto risulterà evidente che la meta sempre più vicina paradossalmente si allontana fino a configurarsi semplicemente come uno stimolo ad andare sopravvissuto alla neve, al ghiaccio e al vento, un impulso categorico al compimento di un dovere per entrambi i viaggiatori.

La categoria umana – e quella animale – in questo futuro impastoiato nel passato si è frattanto frammentata, per cui accanto ad uomini di dimensioni normali vivono giganti e lillipuziani, gli uni ridotti a meri esecutori di lavori di fatica gli altri perfidi, potenti e prevaricatori. I concetti di grande e piccolo quindi si invertono sul piano della considerazione sociale e trovano un corrispettivo, ancora capovolto, su quello dei valori da perseguire, per cui la grande missione del medico si riduce a puro movimento fisico, lotta contro le intemperie, ottusa ostinazione.

Il lungo ed estenuante cammino dei due personaggi è costellato da incontri gradevoli e accoglienze perturbanti – come quelli con la prosperosa mugnaia, che si concede al dottore senza riserve, e con gli sconcertanti vitaminder, che dispensano allucinazioni ad alto costo dentro accampamenti edificati con feltro viviparo – e da inciampi e scontri con oggetti/simbolo, come la piramide di cristallo e il pupazzo di neve dal grande fallo, in una via crucis di piaceri, sofferenze e speranze che culmineranno infatti con un supremo sacrificio foriero di salvezza.

Sbriciolate nella narrazione scorrevole e guizzante, come le bricioline di Pollicino, riflessioni morali e metafisiche che allertano sul contenuto estremamente serio del romanzo, sulla voglia di scuotere coscienze intorpidite. L’incubo allucinatorio del dottore, posto a friggere in olio bollente sulla pubblica piazza di fronte ad una folla plaudente, e il delirio mistico che ne deriva disturbano nonostante lo stile umoristico che sorregge le tante pagine ad essi dedicate e segna quasi una cesura tra gli eventi. Dopo l’euforica e transitoria sensazione di pieno benessere ottenuta dal dottore alla fine del trip, la tormenta, con la complicità di ostacoli sempre più giganteschi, avvolgerà nelle sue spire gli uomini e i loro ridicoli e goffi tentativi di sopravvivenza. E non ci sarà pietà né per il popolano umile e di buon cuore né per il detentore della scienza esatta, con loro tramontano i sogni di progresso ottocenteschi e quelli di un domani ipertecnologico e salvifico dai piedi di sabbia.

E se all’improvviso questa luna splendente crollasse a terra e la vita terminasse, io, in quell’istante, sarei degno di chiamarmi Uomo, perché non avrei deviato dal mio cammino. E questa è un’ottima cosa!

Le donne di Lazar’ di Marina Stepnova, Voland editore. La vita di un genio della matematica e della fisica, raccontata da un’autrice sorprendente e dallo stile versatile e accattivante, attraverso quella di tre figure femminili che ne hanno determinato lo svolgimento e alle quali ha imposto il marchio di una presenza ingombrante e di un nome gigantesco e schiacciante.

Lazar’ Iosifovič Lind è un orfano ebreo agnostico e razionale. Proviene da uno sperduto villaggio, ma lo incontriamo a Mosca, diciottenne, lacero, magro e infestato dai pidocchi, sulla soglia dell’Università a chiedere, anzi quasi a pretendere, un incontro con l’accademico Sergej Aleksandrovič Čaldonov, uomo aperto ed illuminato che si accorgerà immediatamente delle sue doti eccezionali diventandone quindi mentore e amico sincero. La Stepnova, in realtà, non si sofferma sul personaggio eponimo, ma ne costruisce le fondamentali tappe della vita e della carriera attraverso il racconto minuzioso e psicologicamente denso e perfetto delle tre donne che sono le vere protagoniste del robusto romanzo che ha, tra gli altri, il pregio di farsi leggere d’un fiato, di stimolare nel lettore un’arsura che si placa solo bevendone le pagine fluide, chiare e compatte ad ampi sorsi.

Marusja, Galina Petrovna e Lidočka, sono queste le donne di Lazar: la prima è la moglie del suo mentore, molto più anziana di lui ed inutilmente amata di sentimento puro e inestinguibile, la personificazione di ogni possibile virtù femminile che ricambierà il suo amore con affetto materno; la seconda, giovanissima e bellissima ragazza, sposata in età ormai decisamente avanzata, rappresenta invece la sensualità e la perfezione estetica, la bambola capricciosa e fredda da adorare; la terza, mai conosciuta, è la piccola nipote che a cinque anni assisterà impotente al copovolgimento del suo piccolo mondo perfetto e che mendicherà attenzioni e affetto trovando invece gelo e disciplina nel raggiungimento di eccellenze artistiche non desiderate. Il destino di queste donne verrà segnato da eventi improvvisi, da lacerazioni imprevedibili, dai riflessi della grande storia che attraversa la Russia e poi l’Unione Sovietica, dalla rivoluzione bolscevica all’agonia del secolo scorso, eventi e fatti i cui risvolti piombano rapaci o consolatori con conseguenze ineludibili. Costretta da un vile ricatto ad un matrimonio che pone una pietra tombale sul suo sogno d’amore, Galina Petrovna, la perfida e anaffettiva moglie del genio, che non riuscirà nemmeno da vedova a gioire della sua spropositata ricchezza e della conquistata libertà sessuale, è il personaggio più sofferto e riuscito, quello per il quale si può provare compassione a dispetto dell’esibito benessere e dell’irritante bellezza. L’autrice ne porge il rovello interiore, fa avvertire la sua repulsione fisica per quel corpo di vecchio famelico di carne giovane, conduce a provare le sue paure e a respirare il suo terrore, a riflettere sulla mostruosità di un apparato politico disposto, senza ombra di remore, ad immolare esseri umani agli appetiti del Genio, purché questi continui a produrre meraviglie utili al sistema. Tanto tutto si può comprare, con il denaro o con la violenza.

Lindt, dunque, resta avvolto in un mistero che in parte deriva dalla sua natura sui generis, dentro la quale nessuno, neanche l’autrice, può penetrare, e in parte da una scelta precisa, da una manovra tecnica che privilegia il non detto e lo svelamento parziale ottenuto tramite lo sguardo di chi lo vede agire, di chi incrocia il suo fulgido cammino professionale e il suo angusto e infelice percorso umano e affettivo. Osannato dagli alti vertici, prestato alla ricerca pura e all’utilizzo del nucleare a scopi bellici, ricco e privilegiato per il suo status di uomo chiave del governo, Lindt subirà le sue più clamorose sconfitte nell’ostinata ricerca di amori prevedibilmente infelici (una donna felicemente sposata e troppo anziana e una ragazza già innamorata di un altro e troppo giovane), in quelle che si configurano come scelte autopunitive per colpe oscure in cui affiora l’origine semita, prima fra tutte quella sovrabbondanza intellettiva che lo inchioda a responsabilità precise senza vie di fuga.

La regia del romanzo è perfetta come un ingranaggio sofisticato, la fabula, continuamente scardinata dall’uso insistito di analessi e prolessi, non si incrina mai per mancanza di chiarezza e il lettore non solo non ne è disorientato ma letteralmente risucchiato, perché le azioni che possono inizialmente apparire gratuite e prive di logica si rivelano pienamente coerenti alle motivazioni porte dal vissuto e dai piccoli grandi traumi che le hanno determinate. Una cavalcata attraverso il secolo breve in uno dei territori più complessi sotto il profilo sociale e politico, una finestra aperta sui vizi delle gerarchie al potere e sulle aspettative deluse di un popolo – la grande anima dell’Unione Sovietica e della Russia – che si è abbandonato all’ideologia imperante come un figlio ai voleri di una madre esigente. Il divario economico tra intellighenzia al potere e masse spremute e solo parzialmente gratificate divampa tra le pagine ma senza rancore, come una coscienziosa presa d’atto.

Quasi a siglare ulteriormente una tendenza letteraria della scrittura russa contemporanea, anche qui non ci sono vincitori (solo alla giovanissima Lidočka è concesso qualcosa che assomiglia alla serenità e all’amore) e nemmeno il genio resterà immune al triste naufragio e alla morte.

Lindt comprese.

– Dunque è così – disse con voce roca. – E io che pensavo di essere caduto.

Strinse spaventato le dita di Galina Petrovna, come un bambino, come in cerca di aiuto, come se si potesse fare almeno qualcosa, ma si riprese subito e le lasciò la mano. Non importa – mormorò. – Non importa, feygele, non aver paura. A pensarci bene, non è che un esperimento, e per di più molto curioso.

“La creatura del desiderio” di A. Camilleri e G. Dipasquale

Lucidità e delirio di Alma e Oskar. ‘La creatura del desiderio’ di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale al Biondo di Palermo

Saggistica breve. Teatro

@ Agata Motta (30-11-2019)

Palermo – Che il tema affrontato sarà quello del “simulacro”, con tutte le sue implicazioni e i suoi eruditi riferimenti è subito dichiarato nel breve prologo che apre lo spettacolo La creatura del desiderio di Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale, che ne cura anche la regia, in scena alla sala Strehler del Biondo fino al primo dicembre.

Il sorriso sornione del Maestro Camilleri – che ripesca le origini del simulacro nella palinodia scritta da Stesicoro per la bella Elena, per poi transitare su Euripide, Pigmalione, Nikolaj Gogol, Tommaso Landolfi, Gabriele D’Annunzio – sembra apparire per pochi minuti in quel “prenderla da molto lontano”, ma, che si tratterà di una storia tragica e dai risvolti grotteschi, anche questo è subito chiaro. Il sorriso scomparirà prestissimo e quasi ci si dimenticherà che questo lavoro appartenga proprio a lui. Sebbene alla passione che esplode e che brucia, alle vampe amorose che avviluppano senza requie, all’attrazione magnetica esercitata da un corpo femmineo il Nostro abbia dedicato molte pagine, in questo scovare una storia reale ma non troppo nota, in questa documentazione scrupolosa e quasi pignola, in questo indugio voluttuoso sui risvolti patologici del gioco amoroso sembra spirare qualcosa di nuovo e di doloroso, una riflessione filosofica e amara che scavalca un intero secolo per porgere, tra le righe, sollecitazioni attuali e chiavi interpretative per certe ossessioni contemporanee.

Un abito rosso assai poco vedovile e la bellezza straripante di Alma Mahler, dietro la quale persero il senno artisti di sommo valore, come l’Orlando di Ariosto per la bella Angelica, accendono il grigio opaco di una scenografia volutamente neutra ed essenziale, atta ad accogliere la proiezioni di immagini su quinte costituite da morbidi teli. Siamo a Vienna nel 1912. E’ il primo incontro tra la vedova di Mahler e Oskar Kokoschka, l’artista selvaggio e maledetto, impregnato di espressionismo, che tenta di farsi strada con uno stile che irrita la critica e seduce gli esperti.

Lui è giovane e inquieto, lei è più grande e decisamente navigata. La passione immediata è delineata felicemente attraverso il doppio punto di vista dei due protagonisti, prima lui e poi lei, in identiche battute porte con toni ed espressioni diverse. Le lancette di un enorme orologio proiettato sullo sfondo si inseguono velocissime a sottolineare il vortice che afferra sin dall’inizio due esseri accomunati dall’amore per l’arte e dalla sfrenata voglia di ingurgitare tutto il piacere che la vita possa offrire.

Valeria Contadino e David Coco si impossessano subito del ruolo, anzi sono proprio loro, Alma ed Oskar, belli e appassionati, mani che si cercano, corpi che si attraggono come calamite. L’Eros si impossessa di entrambi, ma nell’uomo, che ha trovato la Musa con la quale celebrare un vero e proprio matrimonio artistico (La sposa del vento ne segna l’apice), il sentimento rivendica l’esclusività, l’amore si tinge di sofferenza perché avvelenato da un’insana gelosia che si rivolge persino al marito defunto, al celebre musicista del quale non tollera la memoria nemmeno nelle tristi sembianze di una maschera mortuaria. E non saranno i viaggi o la prossima maternità a placare la sete di possesso totale di Oskar, mentre la natura libera di Alma, non sostenendo più la prigionia fisica ed emotiva in cui si sente relegata, deciderà di sottrarsi ad essa e di rinunciare a quel figlio che avrebbe potuto significare l’avvio di una famiglia “normale”.

Lo smalto iniziale dello spettacolo però non è duraturo, l’adattamento del testo non asseconda le esigenze proprie del linguaggio scenico, per il quale sarebbe stato forse opportuno snellire il periodare fortemente ipotattico che talvolta smorza la fluidità delle battute. Se il testo nel complesso regge, è perché reggono entrambi i protagonisti, che affrontano con grande professionalità e precisione certi passaggi impervi. Nei quadri intermedi, che condurranno al culmine della vicenda amorosa e poi allo snodo dell’abbandono, agiscono anche i personaggi dei servitori di casa Kokoschka, interpretati da Leonardo Marino e Antonella Scornavacca. Essi dovrebbero costituire una sorta di contraltare leggero e malizioso (la lettura delle lettere degli amanti è proposto da lei come intrigante gioco seduttivo) e farsi portavoce dei commenti e dei giudizi del mondo esterno sulla coppia che fa scandalo e suscita invidie, ma una scelta registica discutibile li guida verso interpretazioni un po’ caricaturali che urtano con un contesto che vira vistosamente verso una tragica spannung, accompagnata dalle belle e suggestive musiche di Matteo Musumeci.

Ecco dunque la caduta nell’abisso della guerra, rappresentata in rapidi fotogrammi di truppe al fronte e di scenari bellici, e il risveglio malato di Oskar nella Dresda che accoglierà la messa in scena della follia amorosa, lungamente covata e quindi minuziosamente preparata. Il pittore non potrà più avere la donna amata per sé, ma potrà partorirla in un simulacro perfetto, in una creatura dalle fattezze simili a quelle di Alma, una bambola costruita dalle abili mani dell’artigiana Herminie Moss che seguirà le istruzioni dell’uomo fatte di esaurienti bozzetti ed accuratissime descrizioni. Strano ma vero. La realtà che supera la fantasia.

Valeria Contadino si cala con una duttilità che turba e seduce (nonostante costumi che non aiutano) nelle forme finalmente realizzate del simulacro – un po’ bambola triste, un po’ meccanico congegno per solitari piaceri – mentre David Coco frena la tentazione di abbandonarsi agli eccessi e crea un mix di lucidità e delirio che congiungeranno finalmente l’Eros iniziale all’abbraccio liberatorio di Thanatos, un occhio strizzato a Freud, vicino di casa e di epoca che l’autore non poteva certo far rimanere chiuso in soffitta.

Uno spettacolo certamente ambizioso che convince solo parzialmente, ma del quale si può – o forse si deve – parlare per quell’immediato riferimento a certo frastornante uso del virtuale (diffuso in verità nell’universo maschile ma anche in quello femminile) per approcci sessuali che divengono surrogati di facile consumo dell’incapacità affettiva di intere generazioni e per quell’allarmante equivoco (questo sì soltanto maschile) che porta ad identificare l’amore con il possesso e che conduce all’uccisione del giocattolo sfuggito di mano.

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La creatura del desiderio

di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale
Regia Giuseppe Dipasquale

Interpreti
Valeria Contadino
David Coco
Leonardo Marino
Antonella Scornavacca

Scene e costumi Erminia Palmieri
Musiche Matteo Musumeci
Movimenti scenici Donatella Capraro

produzione Teatro della città di Catania

“Tutti i ricordi di Claire”di Julie Bertuccelli

Le intermittenze della memoria. ‘Tutti i ricordi di Claire’, con Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, al cinema del 21 novembre

Saggistica breve. Cinema

@ Agata Motta (20-11-2019)

La grande villa/museo dell’anziana Claire Darling si risveglia un giorno inconsapevole del suo smantellamento. Claire si trucca e si veste con cura per la sua ultima apparizione pubblica e, attraverso questo granitico e confuso personaggio, il magnetismo di Catherine Deneuve fora lo schermo, lo riempie di sguardi muti che viaggiano sui binari del tempo, un tempo che si srotola alla rovescia rendendo possibile e vera la coesistenza di brandelli di passato e di visioni inquiete sul presente addomesticate dall’accensione continua di sigarette consolatorie.

Un’illusione aspra, lucida eppur farneticante abita Tutti i ricordi di Claire, terzo film di finzione di Julie Bertuccelli, in sala dal 21 novembre, una follia, l’ultima, come giustamente recita il più suggestivo titolo originale francese La dernière folie de Claire Darling.

Claire alza lo sguardo verso il cielo, lo posa sulle fronde degli alti alberi del giardino e vi scorge biciclette appese, parla con un estraneo e lo scambia per il giovane figlio morto, accarezza con occhi dai bagliori di una bellezza lancinante i tanti oggetti vivi che hanno dato spessore alla propria vita, ascolta nella notte una voce che annuncia l’arrivo del suo ultimo giorno terreno e a tutto questo crede ciecamente. Prova stupore per quelle intrusioni improbabili, comprende che non può trattarsi di realtà ma si rassegna ad esse con devozione, aderisce a quel lembo di ragione confinante con la malattia in cui si producono coabitazioni prodigiose di verità e allucinazioni e anche a questo crede appassionatamente. In quella voce notturna, che nessuno può sentire, trova finalmente un obiettivo perseguibile, una soluzione praticabile, una lama di luce che squarci il buio dell’isolamento caparbiamente voluto. In quella voce assapora il privilegio di scoprire quanto le resta da vivere dopo aver languito nell’attesa della fine per dieci lunghi anni senza riuscire ad elaborare un lutto assurdo e devastante. E allora eccoli lì i ricordi, quelli piccoli, fatti di sguardi e di parole non spese, e quelli grandi, in cui il livore, la rabbia e la disperazione hanno determinato il corso degli eventi futuri. Ricordi aggrappati ad oggetti che sembrano possedere un’anima, ad opere d’arte che scaldano il gelo delle spente emozioni.

Dopo aver accettato quell’alba come l’ultima da vivere, la donna decide di mettere tutto in svendita a prezzi simbolici per offrire alle sue cose un’altra chance, una nuova vita, un riscatto contro l’oblio o semplicemente perché non potrà più guardarli e ascoltarli.

Il gioco di rimandi tra oggetti e porzioni di vita e l’osservazione di un presente che si specchia nel passato per non franare sotto il peso delle macerie sono il pretesto narrativo, non particolarmente originale, che la regista trae dal romanzo Il cassetto dei ricordi segreti di Lynda Rutledge, romanzo che ha molto amato per via delle affinità e degli echi personali che vi ha colto e al quale ha attinto apportandovi le modifiche necessarie alle proprie esigenze e spostando la collocazione geografica dal Texas alla familiare provincia francese.

Come nei precedenti Da quando Otar è partito e L’albero, la Bertuccelli torna alle sue tematiche più care: il lutto che produce uno schianto assordante e insanabile e il rapporto madre/figlia che, in quest’ultimo lavoro si rivela comunque irrisolto, pietrificato anche nel perdono reciproco di colpe reali o presunte ma comunque irredimibili. Sarà un perdono sterile, incapace di produrre persino un abbraccio affettuoso nel quale riconoscere le proprie radici e la propria prosecuzione fisica. Claire non vuole essere toccata da chi vorrebbe continuare a vivere nonostante il lutto, nessun contatto fisico con il marito, che vede morire sotto i suoi occhi senza chiamare l’ambulanza, né con la figlia Marie che abbandonerà una dimora in cui non troverà più alcuna collocazione plausibile. Il corpo di Claire diviene anch’esso un oggetto, ma di quelli fragili e preziosi, di quelli che è ancora possibile guardare da lontano senza accostarvisi troppo, un corpo che forse, ma è un’ipotesi appena adombrata, potrà ricevere ancora carezze da chi, per imposizione dettata dal ruolo sacerdotale, non potrebbe elargirne. Ad un quadro di Monet custodito in sagrestia, più che a vane promesse di vite ultraterrene, il sacerdote (Johan Leysen ne fa un uomo inquieto e vulnerabile) affida la sua tenerezza di uomo per la donna spezzata dal dolore, una ninfea galleggiante su uno stagno, un fiore adagiato sulla melma. La donna dunque si ritrova sola nell’immensa dimora che testimonia di ricchezze godute, di agi buttati in faccia ad un marito che non tollera di essersi fatto grande con i beni della moglie. E in solitudine vivrà gli ultimi decenni della sua vita, con l’unica compagnia della demenza incalzante e degli oggetti/feticci di un passato disturbante ma necessario.

Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, madre e figlia nella realtà, si incontrano sulla scena (come già avvenuto in diverse occasioni, da Banc Publics a Les Bien-aimés a Tre cuori) senza tradire alcuna intimità, con l’imbarazzo e la freddezza che la sceneggiatura impone, con quei timidi tentativi di riacciuffare in extremis un rapporto che ha cessato di esistere da vent’anni e che non può riaccendersi quando la fine si profila netta e incombente.

Una fine che potrebbe segnare invece un nuovo inizio per Marie, che incontra Amis (un nitido Samir Guesmi), vecchio amico del fratello che le manifesta interesse e sentimenti teneri riemersi probabilmente da un passato bloccato nella sua naturale evoluzione dalla tragedia.

La bellezza della Deneuve, per nulla offuscata dai capelli grigi ed esaltata dai gesti misurati e quasi regali da castellana in dignitosa rovina, si sposa con la bellezza delle tante meraviglie affastellate nella villa: l’orologio che sormonta l’elefante, che induceva sogni sereni nella piccola Marie, i preziosi automi d’epoca che si muovono ancora perpetuando gesti e movenze inossidabili, che sembrano narrare attraverso le labbra chiuse e sigillate vecchie storie di un passato sovrapponibile al presente. Oggetti di una vita, testimoni di altre vite nell’incessante corsa attraverso i secoli, oggetti che omaggiano l’analogo amore della Bertuccelli per le tracce del passato tramandato da generazione in generazione e che ricordano vagamente il maestro Otar Ioseliani de I favoriti della luna, in cui è una collezione di porcellane di Sèvres ad accompagnare i personaggi. Oggetti che verranno esposti nudi e vulnerabili nell’ampio giardino della villa, toccati da mani estranee e acquistati per pochi euro, mentre Martine (una spontanea e vitale Laure Calamy che si presta bene al suo ruolo di artefice del ritorno di Marie e quindi di custode della bellezza e dei ricordi) tenta il disperato salvataggio dell’immenso patrimonio di Claire da una deriva che le appare inaccettabile e grottesca, anche perché di quella casa e di quegli oggetti anch’essa si è nutrita.

Sull’altra sponda, quella della vita reale e deludente, la Mastroianni delinea con accuratezza una Marie persa nella ricerca di felicità inattingibili, la figura scarna, quasi divorata dalla magrezza, punita dai lunghi capelli di un biondo improbabile che non accendono lo sguardo sempre cupo. E’ una figlia che non può competere con il fratello nella conquista di un varco nel cuore indurito della madre, è una donna solo apparentemente padrona di sé che non riesce neanche ad arrabbiarsi di fronte alla placida e signorile follia materna. Marie è stata una bambina appagata dall’amore di un padre (un Olivier Rabourdin che in poche, dense scene mostra l’amarezza del fallimento come uomo di successo e come marito), ferito a morte dall’odio della moglie, una Alice Taglioni che fa emergere bene la fragilità e la durezza di Claire da giovane. Di lui rimane un vecchio secrétaire, luogo dei piccoli segreti e delle scoperte inaspettate.

Di inaspettato in realtà la trama non offre molto, la fabula è prevedibile nelle dinamiche fondamentali, le riflessioni sulla memoria che salva e annega sono state riformulate un’infinità di volta su carta, su schermo, su palcoscenici e ancora un’infinità di volte si avvertirà il bisogno di tornarci su, ognuno a suo modo; dunque non vanno cercati in queste direzioni i pregi del film, quanto piuttosto nelle scelte stilistiche effettuate dalla regista per porgere quei contenuti e quelle verità.

La Bertuccelli si muove con matura personalità tra morbido realismo e atmosfere oniriche in una commistione bizzarra ma perfettamente coerente. Nessuna sensazione di artificio emana dal film, su tutto si posa una specie di impalpabile leggerezza che filtra anche i momenti più drammatici, una soffusa, felliniana malinconia, ma svuotata da ogni eccesso, perché persino le improvvise apparizioni del corteo delle spose o degli sciamanti bambini vestiti in maschera si innestano nel fluire della giornata in modo assolutamente naturale. Allo stesso modo acquista significato il lieve curiosare di una bimba tra gli oggetti del giardino che fornirà inconsapevolmente la soluzione dell’enigma dell’anello rubato, una bimba spuntata dal nulla che si porge come il simbolo di un’infanzia passata eppure ancora viva, che sia quella di Claire o quella di Marie poco importa. Ai colori del giardino, trasformato in solenne fiera delle grandi occasioni, si unisce la gioiosa vitalità che attraversa il paese per l’arrivo del circo con le sue tante attrazioni, e poi i fuochi d’artificio della festa che suonano da ultimo applauso per la donna che esce di scena alla fine della sua ultima spettacolare giornata da protagonista. La scelta stilistica più intrigante è comunque il modo in cui la regista decide di saldare al presente i rapidi frammenti del vissuto dei personaggi. In realtà non si tratta di veri e propri flashback introdotti dai canonici espedienti tecnici, ma di intermittenze della memoria, di sinapsi emotive e talvolta di coesistenza, in un unico piano visivo e narrativo, del personaggio che si guarda dall’esterno mentre entra nell’inquadratura il se stesso bambino o adolescente. Ciò concede una totale soggettività al ricordo, attraverso le modifiche e gli aggiustamenti operati dalla memoria sui contenuti più impegnativi e logoranti, e offre la possibilità di tradurre in un linguaggio immediatamente fruibile l’appiattimento del tempo su quell’unico tragitto orizzontale che la mente alterata di Claire concepisce con naturalezza. Un tempo spesso e vischioso che ingloba passato e presente senza essere né l’uno né l’altro.

Eppure una sensazione di incompiutezza segna il finale, pirotecnico ed esplosivo nel vero senso di entrambi i termini, accompagnata dall’impressione che sia stata compressa la durata del film, che sia stato sacrificato qualcosa. O forse è solo il desiderio di restare ancora appesi allo sguardo della Deneuve e alla stralunata follia della sua Claire.

https://www.scriptandbooks.it/2020/01/10/le-intermittenze-della-memoria-tutti-i-ricordi-di-claire-con-catherine-deneuve-e-chiara-mastroianni-al-cinema-dal-21-novembre/

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“Lauro” di E. Vodolazkin

La fine del mondo che non arriva. ‘Lauro’ di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni

@ Agata Motta (04-11-2019)

Letteratura. Saggistica breve.

Un percorso di conoscenza attraversato da un afflato universale e dalla stupefacente forza della fede, questo, e molto di più, è Lauro, Elliot Edizioni, romanzo pluripremiato ambientato nella metà del XV secolo, scritto da Evgenij Vodolazkin, uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco. Lauro segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete del suo tempo. Vodolazkin ricostruisce con aggraziata finezza e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla straordinaria morte, e la organizza in tappe: libro della conoscenza, libro dell’abnegazione, libro del cammino e libro della pace.

La narrazione, piana e scorrevole, è impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche elargite con tono colloquiale o attraverso complesse elaborazioni, a seconda che appartengano a gente umile e illuminata o a menti più raffinate e socialmente elevate. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile ed una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e di singolare aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con cui, durante una lunga parentesi della sua vita, condividerà abitudini e bizzarrie, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Uno degli aspetti più intriganti del romanzo è costituito proprio dalla messa a fuoco del fenomeno dei “folli in Cristo”, figure di mistici che hanno caratterizzato quell’epoca e quella terra lasciando un’impronta profonda nella cultura locale. E’ lo stesso autore, filologo e specialista di letteratura russa medievale, a spiegarne le caratteristiche peculiari in un’intervista: il folle in Cristo è un individuo che sceglie di rompere con la società, che si esalta fuggendo la gloria dell’uomo, che trascura e mortifica il corpo, che si sposta da un luogo all’altro senza mai appartenere a nessuno di essi. La stravaganza dei comportamenti e l’eccentricità sono “aspetti di una santità che non vuole essere riconosciuta e quindi indossa la maschera della follia”. Un fenomeno, dunque, che, nella sua diversità rispetto all’eremitaggio tipico del monachesimo orientale, suscita curiosità e stupore nel mondo occidentale abituato alle caratteristiche del cenobitismo.

Winter Morning by Igor Grabar

Invaghirsi di Arsenio sin dall’inizio del romanzo è spontaneo, quasi obbligatorio. Dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un folle in Cristo, prendendo il nome di Ustino (come se continuasse a vivere per la donna amata, come se le prestasse il proprio corpo per prolungarne la breve esistenza), poi tornerà ad essere Arsenio, quindi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria del caro amico defunto), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna.

Tanti nomi che corrispondono a tante vite. Certo non è il cambio del nome a determinare la moltiplicazione, ma quella intensa trasformazione interiore che spesso accompagna le persone dotate di particolare sensibilità, quel passaggio radicale da uno stato ad un altro che la materia sottoposta a variazioni subìsce, in base al quale non muta la sostanza ma il modo in cui essa si manifesta. Basterebbe semplicemente stare ad ascoltarsi per comprendere la potenziale molteplicità dell’Io e la sua sorprendente capacità di rinascita, per aprirsi “nuovi e disponibili” alla vita, tante volte quante il caso o la determinazione riescano ad offrire. Anche in vecchiaia, anzi soprattutto in essa, quando la visione d’insieme è completa, quando il tempo cessa di fluire in modo orizzontale per piegarsi e inginocchiarsi ad una circolarità che evoca mondi lontanissimi soltanto immaginati.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo. Scelte convergenti, dunque, all’insegna di quella che si configura come la duplice storia d’amore che occupa l’animo inquieto di Arsenio, quella per Ustina, con la quale manterrà un dialogo ininterrotto in attesa di risposte che ovviamente non potranno giungere, e quella per Dio, nel quale si vorrebbe annullare e nel quale trovare il senso del suo tortuoso percorso umano di espiazione.

Venezia nel XV secolo

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti: il freddo rabbioso della Russia flagellata dalla peste, il fascino magnetico dei palazzi della Repubblica veneziana, il Mediterraneo con le sue burrascose tempeste e con i miti classici e le vicende epiche ancora aleggianti (il Labirinto del Minotauro, Troia, Paride ed Elena), i torridi sentieri polverosi del Medio Oriente attraversati durante il pellegrinaggio. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro – illustrato minuziosamente nei grandi eventi e nelle piccole folgorazioni del quotidiano – e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita in un’epoca in cui la morte era costantemente in agguato sotto forma di malattia, guerra, carestia, gratuiti assassini.

L’italiano Ambrogio morirà durante un attacco dei mamelucchi, ormai in procinto di giungere in Terra Santa per compiere in compagnia di Arsenio la missione affidata loro dal podestà di Pskov, quella di accendere una lampada votiva nel Santo Sepolcro per la defunta figlia Anna.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

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“Le nostre anime di notte” di Kent Haruf

Prima che faccia buio. ‘Le nostre anime di notte’ di Kent Haruf, NN Editore

Saggistica breve. Letteratura.

@ Agata Motta (19-10-2019)

Esile come un giunco e sussurrato come una preghiera, Le nostre anime di notte, NN Editore, costituisce il consapevole testamento spirituale di Kent Haruf, scrittore americano giunto alla piena notorietà in età matura con la Trilogia della pianura, un trittico di romanzi (Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione in ordine di scrittura) ambientato nell’immaginaria cittadina di Holt, in Colorado, grazie ai quali ha ricevuto importanti riconoscimenti. Consapevole perché scritto quando la malattia aveva già imposto le sue leggi e i suoi ritmi senza lasciare troppi varchi aperti alla speranza, quindi non stupisce come in questa breve storia non ci sia spazio per indugi o digressioni, tutto è estremamente concentrato e denso, e anche le frequenti pause descrittive che avevano caratterizzato la Trilogia si riducono all’essenziale per far posto ai dialoghi, alla voce diretta dei personaggi che giunge senza filtri al lettore, liberata persino dalla gabbia grafica delle virgolette, perché non c’è più tempo per ciò che sta al di fuori dei contorni netti e ben delineati di vite ormai agli sgoccioli ma ancora in grado di sognare e di progettare.

Addie Moore e Louis Waters sono due vedovi riservati e discreti, settantenni come lo stesso Haruf mentre scrive la loro storia. Addie e Louis hanno accudito i loro rispettivi coniugi fino alla fine, hanno oltrepassato la soglia irta di insidie del lutto e hanno cresciuto i loro figli, ormai fisicamente lontani. Al cinema avranno i volti splendidamente invecchiati di Jane Fonda e Robert Redford nella trasposizione del 2017 di Ritesh Batra.

L’autore porge subito l’occasione narrativa, sorprendente e spiazzante, nell’incipit che immette in medias res senza alcun preambolo.

E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.

Intanto non è possibile non soffermarsi su quella coppia iniziale di congiunzione e avverbio che danno la sensazione di una storia che continua, di un desiderio di riannodare fili sospesi e di riaprire il discorso mai chiuso sull’emblematica Holt, ventre sensibile e moralista della piccola provincia americana. Allo stesso modo non può sfuggire la caratterizzazione del tempo, quel buio della sera che avrà tanta parte nel resto della narrazione.

Alla telefonata, dunque, seguono immediatamente l’incontro tra i due e la schietta richiesta di lei.

Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.

Jane Fonda e Robert Redford in ‘Our Souls At Night’

Ecco. In queste brevi frasi c’è già tutto il libro, che a sua volta è già tutto nel titolo: l’incontro di due anime sole che si faranno compagnia tenendosi per mano al fine di attraversare insieme il buio della notte, quella macchia d’inchiostro che si espande ingoiando apprensioni e paure, quelle ore immobili in cui le attese si fanno interminabili. Lentamente abbiamo il tempo di conoscere un uomo e una donna danneggiati dalla vita come tanti, ma non per questo finiti. Entrambi si rivelano l’una all’altro senza clamore, si raccontano un passato sul quale non possono più intervenire, i loro matrimoni sbagliati ma attraversati fino in fondo, ognuno con i propri dolori e con i propri rimpianti raccontati sottovoce, giusto per condividerli con chi saprà ascoltare senza giudicare e senza promettere amore eterno. Parole appese al nero della notte e gesti che diventano man mano rituali possono compiere il miracolo tutto terreno e laico di un nuovo sentimento che, nonostante gli immancabili pettegolezzi e le ovvie malignità, non si cura dei taglienti e beffardi sguardi altrui, perché tanto a quell’età ci si può permettere il lusso di non lasciarsi graffiare dalla maldicenza, tanto non c’è più nulla perdere, nulla da rivendicare. Possono perfino tentare il sesso con ironia, senza ansia di prestazione, perché comunque non è da quello che scaturisce la loro intesa.

Sembrerebbe semplice come bere un bicchier d’acqua, ma la percezione nei rispettivi figli di una condotta imbarazzante, scandalosa e grottesca non tarda ad attecchire con conseguenze ineludibili. Proprio quei figli che raccolgono i cocci della loro sostanziale incapacità di amare e che annaspano alla ricerca di coordinate stabili cui aggrapparsi.

Come sempre nei romanzi di Haruf, ad un certo punto irrompe un personaggio destabilizzante in situazioni che appaiono assestate o talvolta stagnanti per rimettere tutto in discussione, per ristabilire limiti e tracciare nuovi confini. Qui è il nipote di Addie, Jamie, un bambino di appena sei anni consegnato alla nonna dal padre in crisi matrimoniale, a rimettere in moto la tranquilla routine notturna dei due vedovi. Jamie è un bambino ferito che trova nel tenero affetto della nonna e nell’amicizia di Louis, conquistata con piccole complicità fatte di guantoni da softball, cappellini e una simpatica cagnetta da accudire, l’equilibrio di cui ha bisogno. E pian piano acquistano spessore personaggi che apparivano inizialmente marginali come la vecchia Ruth (quasi un’eco della vecchia signora Stearns di Canto della pianura per la sua scomparsa nel momento di massima espansione come personaggio) che accetta i convegni notturni tra i due vicini con naturalezza e che dalla coppia riceverà affettuose e dignitose esequie.

Si va avanti, insomma, e il piccolo Jamie sembra aggiungere linfa vitale al rapporto sempre più solido tra i due vicini di letto, finché il figlio di Addie non impone la fine di quello che ritiene un ambiguo e vergognoso legame nel quale intravede lo squallido tentativo di Louis di spillare soldi alla madre.

‘American Diner’ Painting by Angela Wakefield, 2014

Come andrà a finire non è importante, ciò che resta sono le piccole confidenze notturne, i dubbi e le paure sulla morte, il percorso a ritroso sulla vita trascorsa per rispolverare senza rancore le occasioni perdute (Louis avrebbe voluto fare il poeta, Addie l’insegnante) o per tornare su fatti cruciali (l’agonia della moglie di Louis, la morte della piccola Connie, primogenita di Addie) con una lucidità che in passato non sarebbe stata nemmeno proponibile.

Sotto certi aspetti sembra che Kent Haruf abbia scritto per tutta la vita lo stesso romanzo con diverse modulazioni. L’incanto dell’infanzia e il fascino della morte, la famiglia tradizionale che si sgretola e quella che si ricostituisce al di fuori delle convenzioni, la maldicenza e l’ipocrita perbenismo che infangano i sentimenti più puri sono alcuni dei leitmotiv più insistenti e certi personaggi cambiano nome e aspetto ma non funzione all’interno del “sistema romanzo”. Ne viene fuori un mondo solo apparentemente cristallizzato in cui far confluire l’attenzione ossessiva che l’autore riserva alla fase iniziale e a quella finale della vita. Racchiusa tra esse, una parentesi più o meno lunga di fatti, gioie, rimorsi, litigi, amicizie, amori, tradimenti, astio, passioni e la spina pungente di figli lontani, ribelli o morti. Una parentesi più o meno significativa e densa tra i grandiosi eventi del nascere e del morire.

Quella di Haruf è la scrittura fatta di cose e senza fronzoli tipica di tanta narrativa americana (stilisticamente sfugge un po’ a questa definizione Canto della pianura, che presenta un periodare più ampio e articolato per coerenza – come giustamente nota il traduttore Fabio Cremonesi – con le tematiche affrontate), sensazioni e riflessioni appartengono al lettore, perché l’autore non le formula, si affida semplicemente ai gesti, alle azioni, alle parole. Parole in genere scarne ed essenziali che in quest’ultimo romanzo invece si impongono, perché proprio nel dialogo tra i due protagonisti la scrittura trova il suo punto di forza.

Angela Wakefield, Through the Shattered Lens

Tutto questo non fa di Le nostre anime di notte un romanzo perfetto. In esso si avverte l’urgenza dell’autore di portarlo a termine, alcuni personaggi sono appena sbozzati e restano inconsistenti, come Holly, la figlia di Louis, la struttura è asimmetrica con capitoli ampi e distesi e altri accartocciati su se stessi come se l’autore avesse dovuto tornarvi su. E non è neanche lo scritto migliore. Tra tutti i suoi romanzi quello toccato dalla grazia è Benedizione, che infatti, per una scelta oculata dell’editore (sempre NN) è stato il primo ad essere pubblicato pur essendo l’ultimo della trilogia. In esso l’attesa della morte del vecchio Dad, accudito dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, non si trasforma in avida ricerca di soddisfare i desideri irrealizzati o in straziante attesa imposta ai familiari, ma nella volontà precisa di mettere a fuoco tutto ciò che è stato veramente importante, gli sbagli soprattutto, quelli che hanno impresso una direzione diversa al proprio agire. Come avviene nella realtà, chi sa di essere ormai vicino alla fine non modifica quasi per niente la propria vita, si mantengono per quanto possibile le abitudini di prima, il prima improvvisamente dolce e caro che presto si dovrà abbandonare.

Alla Trilogia della pianura Haruf regala una citazione, ironica e struggente insieme, in un brevissimo capitoletto in cui i due protagonisti, sfogliando il giornale, sono attratti da una notizia.

Hai visto che danno uno spettacolo tratto dall’ultimo di quei libri sulla contea di Holt? Quello con il vecchio che sta morendo e il predicatore.

Come hanno fatto i primi due, suppongo possano fare anche questo, disse Louis.

Gli altri li hai visti?

Li ho visti. Ma non riesco proprio ad immaginare due vecchi allevatori che accolgono in casa loro una ragazza incinta.

Può succedere, disse lei. La gente può fare cose imprevedibili.

Non so, disse Louis. Si è inventato tutto [……….]

Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe?

Non mi va di finire in un libro, rispose Louis.

Vanità o negazione di quanto stava frattanto facendo? Riportare l’essenza e il calore dei dialoghi notturni con la moglie? Scrivere il bello di quella relazione serena che lo stava accompagnando al capitolo conclusivo della propria vita?

Le nostre anime di notte è allora il più intimo, il più sentito, il più autentico tra i suoi scritti. Quando si realizza che la morte non è più un concetto astratto ma un evento concreto e vicino si diventa forse più sinceri.

https://www.scriptandbooks.it/2019/12/30/prima-che-faccia-buio-le-nostre-anime-di-notte-di-kent-haruf-nn-editore/

“Gli angeli nascosti di Luchino Visconti”

Il rispetto del lavoro. ‘Gli angeli nascosti di Luchino Visconti’ di Silvia Giulietti

@Agata Motta (09-10-2019)

Cinema. Saggistica breve.

Set ‘Vaghe stelle dellìOrsa’

Esce in sala in questi giorni, ma è stato realizzato nel 2007, il breve film documentario intitolato Gli angeli nascosti di Luchino Visconti che apre un varco insolito sulla figura di uno dei registi più raccontati, studiati, analizzati del panorama italiano e lo fa attraverso le voci dei suoi collaboratori invisibili, quelli che con il paziente e nobile lavoro squisitamente “tecnico” hanno contribuito alla sua grandezza. Alcuni erano entrati nell’universo cinematografico attraverso un canale privilegiato – Daniele Nannuzzi, direttore delle fotografia figlio del celebre Armando (cui l’opera è dedicata), Federico Del Zoppo, direttore della fotografia nipote del fondatore dell’A.I.C. e Lucio Trentini, organizzatore di produzione figlio del Direttore generale della Lux film – altri invece vi erano arrivati per caso, per giovanile intraprendenza e per tenacia come Nino Cristiani, operatore alla macchina da presa, Peppe Berardini, direttore della fotografia, e Mario Tursi, fotografo di scena cui si deve la concessione delle immagini d’archivio utilizzate per la realizzazione del documentario.

Gli angeli nascosti diventano però coprotagonisti in questo racconto per immagini, parole e musica strutturato come un libro, in capitoli che vanno dal primo incontro con il Maestro alla sua eredità morale. Incastrati tra l’inizio e la fine gli altri capitoli sul modo particolare di girare – fu il primo a girare con tre macchine da presa contemporaneamente, una in campo lungo e due con zoom sugli attori – sulle leggende metropolitane circolanti nell’ambiente, sul complicato rapporto con gli attori, sulla comunione d’intenti che riusciva a creare con la troupe attraverso una spiegazione puntuale e semplice su ciò che intendeva fare, sui piaceri della tavola, che voleva sempre ricca e affollata, sui regali sorprendenti e costosi che dovevano allietare il Natale dei collaboratori, sulla malattia alla quale si oppose con spirito pugnace, sull’ultimo incontro.

La regia e il montaggio di Silvia Giulietti sono semplici e puliti e proprio per questo assai efficaci. La Giulietti si concentra sull’essenziale, i ricordi personalissimi e diversi dei vari personaggi, ricordi scaturiti come risposte ad un’intervista immaginaria. Ogni angelo si racconta nel proprio rapporto privilegiato con Visconti attraverso il filtro della propria personalità e sensibilità e porge quindi “inquadrature sull’uomo” da angolazioni di volta in volta diverse: scanzonate, nostalgiche, tenere, commosse, ma sempre accompagnate dall’orgoglio per il lavoro svolto “per” e soprattutto “con” Visconti, sempre grati per quell’ampia e meravigliosa parentesi di vita durante la quale sono stati interlocutori privilegiati di un Maestro indiscusso e indimenticato. Si compone così un affresco originale, costruito con piccole tessere che creano un insieme sfaccettato dalle moltiplici e affascinanti sfumature, accompagnato dalle garbate e a tratti malinconiche musiche di Rocco De Rosa.

Il periodo di riferimento, quello che ha visto gli angeli attorno al Maestro non come attoniti discepoli ma come stretti e apprezzati sodali, si snoda grosso modo negli anni Sessanta e Settanta. Sono lontani i tempi del fermento ideologico che scuoteva con entusiasmi giovanili la redazione della rivista Cinema, il luogo maestro della formazione di Visconti e dei tanti intellettuali – Umberto Barbaro, Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis, Mario Alicata – che avrebbero contribuito a quella rivoluzione culturale all’insegna del realismo che segnerà in maniera indelebile il panorama postbellico. E sono lontane le polemiche legate al primo capolavoro, Ossessione, punto di approdo della sua ricerca personale e snodo ineludibile che porterà alla grande stagione del Neorealismo. Lontani nel tempo ma non nella poetica e nelle scelte estetiche del Visconti maturo che al suo cinema antropomorfico che vuol raccontare “gli uomini vivi nelle cose e non le cose per se stesse” e all’intenzione di mettere l’attore al centro del lavoro di regia non girerà mai le spalle, così come germoglieranno in modi sempre più sontuosi quell’attenzione agli aspetti figurativi e alle questioni tecniche cui era stato abituato tramite la collaborazione giornalistica gomito a gomito con intellettuali appartenenti a diversi settori artistici in quella fucina di idee condivise e di aspre diatribe che fu Cinema nella fase della direzione lontana e discreta di Vittorio Mussolini, quella rivista che verrà in seguito definita “cellula comunista nel cuore del potere” o più polemicamente come nucleo dei “redenti”. Senza dimenticare il prezioso impegno teatrale che di certo nutriva il cinema, in un rapporto osmotico, negli aspetti prettamente estetici e recitativi.

Il documentario, dunque, ci conduce con immagini belle e rare – montate in rapida successione con stacchi netti o in morbide dissolvenze o in progressivi affondi nel cuore delle foto – sui set di Bellissima, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Vaghe stelle dell’Orsa, Ludwig fino a L’innocente, l’ultimo film girato quando la malattia l’aveva già penosamente colpito. Vi incontriamo i volti di attori indimenticabili, ma soprattutto incontriamo lui, Luchino Visconti, l’uomo e il regista con le sue caratteristiche di umanità e magnanimità, con la sua intransigenza nei confronti di chi osava profanare il luogo sacro del set con voci scomposte o con abbigliamenti indecorosi, con la sua durezza, divenuta persino aneddotica, nei confronti del capriccioso divismo degli attori, con il suo gusto raffinatissimo per gli oggetti di uso personale e per gli elementi necessari all’allestimento del profilmico, per il quale esigeva che la produzione non badasse a spese, con la sua forza d’animo nei momenti durissimi della convalescenza, con il suo sguardo avido di perfezione che si posava su tutto e che tutto vedeva. L’uomo che Alberto Moravia aveva definito con un pizzico di malignità “cortese”, attribuendo all’aggettivo il doppio valore di uomo gentile e di uomo bisognoso di una corte, si rivela elegante e signorile, un uomo che ebbe nei confronti della sua “piccola corte” di collaboratori (e non di adulatori) un atteggiamento sicuramente esigente ma anche paritario, paterno e rispettoso. Ed è proprio sul senso di rispetto del lavoro di tutti che poggia una delle eredità morali più gradite e più solide lasciate ai suoi collaboratori da un artista che, attraverso il marchio incancellabile impresso in chi ama il cinema, ha potuto ambire all’unica immortalità concessa agli uomini.

Purtroppo oggi alcuni di questi angeli non sono più con noi (Peppe Berardini, Lucio Trentini e Mario Tursi) ed è particolarmente toccante guardarli parlare, sorridere, ricordare con la consapevolezza della loro assenza. Fa piacere comunque averli conosciuti, anche se soltanto per 54 minuti.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/10/10/il-rispetto-del-lavoro-gli-angeli-nascosti-di-luchino-visconti-di-silvia-giulietti-al-cinema-dal-20-ottobre/

anche su Articolo21

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GLI ANGELI NASCOSTI DI LUCHINO VISCONTI

In sala dal: 10 ottobre 2019

Documentario | Italia, 2007 | 54 min

Regia: Silvia Giulietti
Cast: Federico Del Zoppo, Daniele Nannuzzi, Giuseppe Berardini, Michele Cristiani, Lucio Trentin, Mario Tursi
Produzione: iFrame

 

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