“Arrocco siciliano” di Costanza DiQuattro

“Arrocco siciliano” di Costanza DiQuattro

@ Agata Motta, 28 febbraio 2025

Sulla bella immagine di copertina Marte gioca a scacchi con Venere, guerra e amore si fronteggiano, lo sguardo pensoso di lui e quello divertito di lei sembrano non lasciare dubbi sulla vittoria finale da leggere anche in senso metaforico. Ma quello è l’Olimpo. Nel mondo degli uomini il gioco e le sue sfide adrenaliniche possono diventare una cosa terribilmente seria e concretizzarsi nel bisogno di camminare sull’orlo del precipizio per vedere se e come ci si possa salvare. Nella terra di nessuno compresa tra caduta ed esaltazione si collocano la ricerca di conferme alle proprie capacità e le punizioni da infliggersi per tacitare i sensi di colpa.

Su questo margine ipnotico e seducente come il canto delle sirene si muove Antonio Fusco, ombroso protagonista del romanzo Arrocco siciliano di Costanza DiQuattro, edito da Baldini+Castoldi, che imbastisce, attraverso la propria turbata sensibilità, un dialogo muto tra un passato e un presente perennemente in lotta tra loro. In lui si aggiunge la consapevolezza di un preciso destino non eludibile e della vocazione alla perdizione. Ed è inutile sperare di trovare consolanti redenzioni. Si comprende subito, e questo è uno dei maggiori elementi di fascino della narrazione, che per lui giungeranno solo passeggeri squarci di luce nel pozzo noto del dolore.

Con la scrittura agile, icastica e fortemente coinvolgente che caratterizza la sua raffinata produzione letteraria, l’autrice racconta un’altra ammaliante storia che ha Ibla come scenario, città che diviene il territorio conosciuto su cui innestare la parentesi esistenziale di un personaggio in fuga da sé stesso e dai suoi demoni.

Non sarà dunque duraturo l’arrocco siciliano del napoletano Antonio Fusco, giunto a Ibla all’inizio del Novecento per gestire la storica farmacia Albanese orfana del suo stimatissimo proprietario, ma basterà a creare rilevanti scompensi e precari equilibri sulla scacchiera sostanzialmente immobile di una società che alimenta e custodisce segreti e malsane abitudini a patto che tutto rimanga sommerso e non dichiarato. La radicata ritrosia per l’estraneo rende ostico l’approccio con la nuova realtà di questo personaggio inquieto e soffuso di mistero, mentre l’aperta diffidenza del notaio, cugino della vedova, che indaga su un passato poco limpido, potrebbe mettere in discussione i suoi diritti sulla farmacia. Così gli sforzi atti a guadagnarsi credibilità e rispettabilità procedono a fasi alterne, tra nuove concessioni e reiterate chiusure, tra blandi incoraggiamenti e malevole illazioni. Il nuovo farmacista proverà a farsi accettare tentando di individuare la crepa dentro la quale infilarsi, imparerà a fare colazione con i firrincozza e ad archiviarne l’astruso nome, ad assaggiare l’aspra dolcezza dei piretti e la freschezza ristoratrice della granita di don Firili, a memorizzare le basole percorse nei quotidiani tragitti, ad allettare la clientela femminile con nuove creme di bellezza e sfrontati sorrisi, ma sempre mantenendo per sé il tumulto che lo agita e che a ondate gli deposita ai piedi frammenti di passato e ipotesi di tare genetiche.

Un prepotente fascino emana da quei silenzi, da quegli occhi sfuggenti, da quel riserbo sul quale tutti si fionderebbero volentieri per portare alla luce verità da ruminare al Caffè 900, meta di sfaccendati, pettegoli, provocatori, poveracci. Le donne certo ne sono le prime vittime, dalla vedova Albanese, che lo tratta come il figlio tanto desiderato e mai avuto, alla giovane criata Ninetta, ben disposta a consegnargli la propria fresca e primitiva sensualità, ma pian piano l’interesse per il forestiero coinvolgerà tutti, specie i frequentatori del Circolo dei nobili che scacciano la noia distruggendo esistenze con magnifica disinvoltura.

Costanza DiQuattro

Dall’ariosa grandezza di Napoli, ricordata a fiotti intermittenti con orgoglio e nostalgia, al limitato perimetro di Ibla sembra che gli orizzonti si restringano. E invece ecco il miracolo di fortuiti incontri, simili a inciampi su ciottoli levigati, che aprono finestre su angosce pronte a mordere ma anche su sprazzi di futuro inabitato che profumano di buono. Quello con Federico, ragazzo malato e deforme, arroccato a sua volta in una ricca dimora in attesa che il proprio destino si compia, sarà l’incontro più importante, anzi assumerà il carattere di un vero e proprio riconoscimento sulla base di una sofferenza condivisa che si nutrirà di incondizionata, reciproca accettazione.

Su tutto esplodono i colori della Sicilia, la terra Musa che intride le pagine di tutta la narrativa della DiQuattro, il languore di certi scorci, il respiro della bellezza incuneata nei palazzi barocchi e nell’azzurro terso del cielo. L’autrice, visceralmente legata a Ibla, la propria città della quale narra la distruzione e la rinascita nel più recente L’ira di Dio, costruisce atmosfere che si possono quasi respirare, bagnate dalla sonorità dell’amato dialetto, e introduce dialoghi serrati ed efficaci nella curata partitura narrativa che fanno rimbalzare vivi i personaggi, intenti a usare le parole in modo allusivo, a camuffare più che a svelare.

Come l’Aleksej de Il giocatore di Dostoevskij, Fusco si muove tra i tavoli da gioco con una disposizione d’animo in bilico tra ebbrezza e indifferenza, talvolta spinto dal senso di onnipotenza fornito dalla vertigine della vittoria ma più spesso risucchiato al suolo dal personale fallimento e dalla superiore macchinazione del caso.

Il demone del gioco ovviamente non perdona chi ha continuato a corteggiarlo, il passato torna a pretendere il suo tributo, l’impulso di autodistruzione conduce nelle fauci dell’abisso. L’amore, quello etereo e vagheggiato per la bellissima baronessa Eleonora, madre di Federico, non può cambiare la sorte se è solo il frutto acerbo della riconoscenza materna.

Ma cosa può più importare se la fuga ha trovato un senso nell’amicizia, se durante una partita a scacchi, in cui si giocano l’onore e il futuro, la torre, con un altro arrocco, ha potuto proteggere il re?

Proteggere, non salvare, perché si salva solo chi lo vuole veramente.

Costanza DiQuattro
Arrocco siciliano
Baldini+Castoldi

pp.298
€ 18.00

https://www.scriptandbooks.it/2025/02/28/la-perdizione-di-antonio-fusco-arrocco-siciliano-di-costanza-diquattro/

“L’ira di Dio” di Costanza DiQuattro

Ancora una volta il caro, vecchio Natale / I garbugli interiori di Padre Bernardo

@ Agata Motta, 8 dicembre 2024

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Capita tante volte di interpretare eventi casuali come segni, di leggervi ciò che si spera di leggere, di trovarvi conferme a risposte già avute o soluzioni ai dubbi irrisolti. Ed eccolo padre Bernardo, intento ad interpretare quei segni nel cielo e nelle sue striature, proteso alla ricerca di un senso evidente in questioni complesse, eccolo con il suo affascinante garbuglio interiore mentre indaga sulla possibilità di una relazione con il Dio che è entrato, non richiesto, nella sua difficile vita.

L’ultimo romanzo di Costanza DiQuattro L’ira di Dio, edito da Baldini+Castoldi, è ambientato in Sicilia e ha come protagonista un tormentato uomo di chiesa che si troverà a vivere uno degli eventi più catastrofici della storia: il terremoto del Val di Noto del 1693. L’autrice, che dichiara di aver voluto celebrare la sua terra, mostra una Sicilia capace di risorgere dalle sue ceneri come l’araba fenice e costruisce una storia dall’architettura perfetta, solenne come una sonata di Bach, in cui la complessità si scioglie in note struggenti, il sacro può usare parole profane, la potenza del divino sa farsi sangue e porgere lenimenti.

Padre Bernardo celebra Messa senza partecipazione, la sua mente è altrove, nello spazio angusto della canonica in cui si aggira dolce e sorridente la sua bella e amata perpetua, il peccato della carne che lo ha reso inviso alle autorità e alla gente della sua parrocchia. A seguirlo ormai restano quattro fedeli, e non è da intendersi come metafora, tre donne e un uomo dalla vita aspra e dissestata capaci di indulgenza e di perdono, cui si aggiungono Gasparino, un bimbo dai denti storti che fa il chierichetto con cieca dedizione, e padre Costante, il comprensivo frate cappuccino che, come l’ago di una bussola, lo riporta alla responsabilità dei suoi atti e della sua condizione. Questa la piccola corte di un nobile costretto ad indossare un abito che sarebbe invece calzato a pennello al saggio e illuminato Eligio, fratello gemello, prostrato nel fisico ma vincolato, in quanto primogenito, al ruolo di erede di titoli altisonanti e cospicue sostanze. Entrambi osservano la vita dell’altro con la consapevolezza di occuparne lo spazio e la dimensione esistenziale, entrambi si piegano con rassegnazione ad un ordine costituito che non si può violare, ordine sul quale vigila con rigore e intransigenza la baronessa madre, donna che si reputa vicina alla santità e che invece assume atteggiamenti di diabolico ardore mistico sostenuta dal domenicano padre Fernando, inflessibile educatore dei suoi figli. Il sospetto di essere sbagliato nel mondo, il dramma di una colpa involontaria, quella di aver causato l’incidente del fratello, le tentazioni, il vino e il sesso anzitutto, alle quali cedere senza indugi, sono elementi che si traducono in un fardello pesante da reggere per spalle sempre più incurvate e gambe sempre più instabili, ma Bernardo continua a camminare inciampando negli anatemi materni e rischiando i furori della Santa Inquisizione.

Costanza DiQuattro

Il terremoto dell’11 gennaio 1693 che distrusse il Val di Noto spazzando via palazzi stemmati e casupole, nobili e popolani è l’evento che segna la svolta narrativa e che introduce il tema caro all’epoca dell’ira di Dio intesa come punizione per le colpe degli uomini. Le macerie prodotte però sono anche interiori, rovine, calcinacci, ricordi e rimorsi si accumulano nell’animo del protagonista, sconfitto proprio nei suoi punti di forza e di orgoglio: l’amore e la recente paternità. Bernardo è un personaggio scolpito a tutto tondo, l’autrice lo dirozza a poco a poco con un magistrale lavoro di scalpello per svelarne dubbi, errori, passioni, debolezze, tenacia, irriverenza, tutto ciò che lo rende profondamente umano e dunque vicino al lettore.

Costanza DiQuattro consegna un romanzo di rara bellezza, nutrito dalla tecnica acquisita come drammaturga e scritto con un linguaggio talvolta assorto e meditativo altre sanguigno e incalzante in cui il registro alto dei notabili convive con il dialetto puro del popolo, restituito senza forzate traduzioni o innaturali imbastardimenti. Il testo si porge anche come spaccato storico ben documentato in cui l’immaginazione si innesta sulle fonti in modo spontaneo, come racconto che vibra d’amore per la propria terra martoriata e redenta dalla bellezza. Lo struggente Barocco che sorgerà in quei luoghi violati dalla furia distruttrice della natura diviene testimonianza e monito del modo in cui il passaggio dell’ala della morte possa produrre nuova vita.

Resistere si può e si deve trasformando il proprio dolore in una nuova disposizione d’animo, aiutare gli altri per aiutare se stessi. Così, anche con il lutto nell’anima stanca, Bernardo non smetterà di cercherà il suo Dio vendicatore, foss’anche per insegnargli come l’umanità sia capace di urlare il proprio bisogno di rinascita dopo la distruzione. Ed ecco infine Gasparino, che ha fatto della menomazione prodotta dal terremoto l’occasione per dedicarsi allo studio, eccolo consegnare a Bernardo il progetto della facciata del vecchio palazzo di famiglia. L’agile fantasia del piccolo chierichetto ormai adulto traccia linee armoniose e composte, un sorriso sghembo dai denti storti sa farsi seminatore di bellezza e di rinnovata capacità d’amare.

Costanza DiQuattro
L’ira di Dio
Baldini+Castoldi
19,00 €
pp.262

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“Agata del vento” di Francesca Maccani

“Agata del vento” di Francesca Maccani

@ Agata Motta, 13 ottobre 2024

Un’isola incantevole e una bellissima ragazza sono le protagoniste di Agata del vento, l’ultimo romanzo di Francesca Maccani, edito da Rizzoli e ambientato all’inizio del secolo scorso. Lipari ventosa e aspra si materializza subito agli occhi del lettore con il suo mare che conforta e infuria, con la povera gente che fatica per portare a casa il necessario, con il suo piccolo mondo arcaico in cui tradizioni e credenze si intrecciano senza stupori o ricerche di spiegazioni razionali.

Nata sulla spiaggia e marchiata sulla pelle da un segno che si rivelerà un destino ineludibile, la giovanissima Agata cresce laboriosa e onesta tra pesca notturna e lavoro diurno nei campi, indipendente e fiera come le altre donne dell’isola, assai diverse da altri contesti dell’epoca segnati da passive accettazioni. E sorprende come in luoghi così isolati la funzione sociale delle donne sia stata tanto forte e definita, non confinata esclusivamente alla cura della casa e dei figli, come se il lavoro sulle barche in mare e sui campi da coltivare venisse svolto non solo come contributo alle necessità familiari ma anche come opportunità di autodeterminazione.

La famiglia, come tante all’epoca, è stata sconvolta dal massiccio fenomeno dell’emigrazione che ha portato via l’amato padre alla ricerca di fortuna in America, e la madre, inacidita dall’abbandono e da una colpa antica che la consuma, nulla concede ad Agata se non un’attenzione vessatoria e sgarbata. Gli unici punti saldi di riferimento sono il fratello Rosario, perché il maggiore, Salvatore, è troppo occupato nel suo ruolo di capo famiglia e di custode della virtù della sorella in sboccio, e la Za’ Teresa, la levatrice e majara che l’ha accolta quando è venuta al mondo.

Nella notte del suo quindicesimo compleanno qualcosa di inaudito e misterioso sconvolge l’esistenza della ragazza e inquina le sue certezze: Agata riceve il dono del vento, rarissima capacità di curare malattie e dominare gli elementi concessa solo a coloro che sono stati “pigghiati da Eolo”; dono che può essere tramandato alle generazioni successive. L’amorevole nonna di Agata, Minica, morta quando lei era ancora bambina, era solo una delle tante donne guaritrici che agivano sui malanni lievi attraverso ‘raziuni, formule da mandare a memoria e da recitare accanto all’infermo di turno, ma non aveva il dono del vento, quindi la ragazza non ha potuto ereditarlo da lei. Agata sarà sconvolta dall’evento e tenterà di mettere a servizio degli altri quel dono che sull’isola possiede anche lo spigoloso Zu’ Bastiano, restìo ad accogliere la richiesta di chiarimenti della confusa ragazza.

Cosa si fa se ci si accorge di avere un potere immenso che può modificare le vite altrui? Sembrerebbe un privilegio invece può rivelarsi una condizione scomoda e non richiesta, un cruccio insistente, un’insidia da tenere a bada, una virtù che sconfina nella stregoneria e che pertanto può insospettire i potenti e gli uomini di scienza.

Le giornate di Agata cominceranno dunque a svolgersi sul doppio binario del segreto e della disponibilità all’aiuto, ma l’amore giunge a sparigliare le carte, a mettere a tacere il sofferto dono per spalancare le porte alla passione e poi al disinganno.

Un indiscutibile elemento di fascino nella narrativa della Maccani è costituito dalla scelta di argomenti e tematiche inusuali che affondano le radici in una realtà indagata e ricostruita con l’ausilio di fonti pazientemente consultate. Preziosi in tal senso i testi dell’antropologa Macrina Marilena Maffei (autrice di riferimento anche per Evelina Santangelo che ne fa esplicito riferimento nel suo Il sentimento del mare), una vera e propria bussola per chi voglia orientarsi in quei luoghi; testi che l’immaginazione dell’autrice feconda attraverso la costruzione di personaggi di esatta consistenza e meccaniche seduttive nella manipolazione dell’intreccio.

Di forte interesse storico e ben inserita nel contesto la descrizione delle condizioni di vita dei “coatti”, malfattori o semplicemente personaggi scomodi, relegati in condizioni disumane sull’isola, ma lo sguardo dell’autrice ne segue in particolare soltanto uno, importante per certi snodi della vicenda familiare. Anche la cronaca trova spazio tra le pagine con un femminicidio, realmente avvenuto nel 1904 e testimoniato dalle fonti dell’epoca, che, più delle disillusioni amorose e delle rivelazioni sulle proprie origini, spingerà Agata a scelte definitive e potenzialmente risarcitorie.

L’autrice si ispira ad una storia vera piegandola alle proprie necessità narrative, non giudica e non commenta, lascia che i suoi attanti si svelino da soli soprattutto attraverso i gesti e le azioni, mentre i dialoghi, asciutti ed essenziali, aderiscono a personaggi del popolo che non potrebbero indugiare, per assenza di strumenti culturali, su discorsi articolati e complessi.

In Agata del vento ritroviamo alcune costanti ideologiche e stilistiche dell’autrice già presenti nel precedente Le donne dell’Acquasanta, come l’attenzione per la condizione femminile e la cura particolare riservata alle sequenze descrittive atte a creare atmosfere credibili e palpabili con efficaci metafore di grande delicatezza, mentre viene ridotto al minimo indispensabile per la restituzione del colore locale l’uso del dialetto, “semplificato e misto all’italiano”, come precisa la stessa Maccani nelle note finali, per renderlo comprensibile anche ai non siciliani.

Sincera e pertanto ben focalizzata l’attenzione riservata a quegli aspetti magici e ancestrali per i quali la gente era portata a provare un misto di invidia e di ammirazione e a nutrire il rispetto dovuto all’irrazionale che irrompe nel quotidiano, a ciò che la mente non può comprendere ma intuire. Solo chi appartiene alle vecchie generazioni cresciute nei piccoli paesi ricorda rituali e formule che alcuni anziani praticavano con spontanea innocenza e che davano conforto al cuore più che al corpo, superstizioni che oggi farebbero storcere il naso ma che rappresentano invece un patrimonio collettivo destinato a disperdersi. Ben vengano quindi i testi che ne riaccendono la memoria e il complesso valore sociale e antropologico.

Agata del vento

di Francesca Maccani

Rizzoli editore

17.00 €

pp.302

https://www.scriptandbooks.it/2024/10/12/agata-del-vento-di-francesca-maccani/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2024/10/agata-del-vento-di-francesca-maccani/

“Il sentimento del mare” di Evelina Santangelo

Il sentimento del mare di Evelina Santangelo

@Agata Motta, 26 agosto 2024

Essere sopravvissuti, o almeno percepirsi come tali, determina mutazioni incontrollabili, spesso repentine e radicali. Si comprende come ciò che si è vissuto sia destinato a incancrenirsi senza possibilità di guarigione, ma si può anche scoprire il fascino dell’incerto futuro, scrutato con apprensione come se fosse pronto a volatilizzarsi con un semplice gesto della mano. Si può accettare lo scorcio di una diversa angolazione attraverso cui guardare al passato e lasciarsi sorprendere dalla constatazione di quanto il patrimonio condiviso con gli altri sia stato prezioso e determinante per la propria crescita e di come i solchi profondi e non più colmabili possano essere aggirati con semplici deviazioni.
Evelina Santangelo nel suo ultimo libro – definirlo romanzo forse sarebbe fuorviante – Il sentimento del mare, edito da Einaudi, segue il filo conduttore della propria sopravvivenza, legata a devastanti condizioni fisiche ed emotive, e si lascia sedurre dalle tante storie raccolte da amici o da occasionali interlocutori che hanno per oggetto il mare con i suoi richiami irresistibili, con i suoi pericoli sempre in agguato, con la sua spossante dolcezza, con i suoi abissi assassini e la sua mitologia e vi intreccia i propri ricordi e una sete di sapere finalmente riaccesa dopo una lunga e penosa apatia. L’autrice vuole spingersi verso l’ignoto e contemporaneamente riacciuffare i nodi irrisolti del passato, come il mistero sulla fine di un giovane cugino sommozzatore del quale ad ogni costo vuole scoprire “il modo in cui si è visto morire”.
Come una curiosa giornalista porge domande, sonda terreni inesplorati, porta a galla pezzi di storie che meritano di essere conosciute. Ne scaturiscono pagine che contengono una gran mole di informazioni sulle mattanze dei tonni, sulle donne pescatrici e contadine dell’isola di Lipari (argomento che torna nelle più recenti pubblicazioni – Francesca Maccani le racconta in Agata del vento – come a fare ammenda di un lungo oblìo), sul cimitero degli sconosciuti di Zarzis, sui diciotto pescatori mazaresi sequestrati dalla Guardia costiera libica, su bizzarri personaggi che hanno affrontato con granitica determinazioni imprese per altri incomprensibili, come il giro del mondo in barca a vela senza scali o la ricostruzione dello scheletro di un giovane capodoglio straziato dall’uomo e dalla natura.
Dati, osservazioni, curiosità e commenti accompagnati da un piccolo concerto di riferimenti letterari e cinematografici – La Perla di Steinbeck, Moby Dick di Melville, Manoscritto ritrovato in una bottiglia di Poe, Le onde del destino di Lars von Trier, The perfect Storm di Wolfgang Petersen, J’accuse di Abel Grance, Gran Bleu di Luc Besson, La lunga rotta di Bernard Moitessier – una colonna sonora prodotta da associazioni mentali estremamente soggettive, perché le opere d’arte parlano ad ognuno con voce diversa e risuonano in momenti e luoghi imprevedibili.
E proprio quando sembra che la narrazione stia per inaridirsi nella sovrabbondanza di dettagli tecnici e di divagazioni, giunge il calore dell’umanità di incontri con amici o con sconosciuti, scatta la molla dell’empatia e con essa il desiderio di affidare il proprio dolore a chi è disposto ad accoglierlo, sorge la commozione provata sulla costa normanna del D-day e, pian piano, si fa strada una ricognizione interiore che viene consegnata al lettore a piccoli sorsi e in chiaroscuro, perché al bisogno di urlare il proprio strazio si accompagna una sorta di pudore protettivo sui sentimenti più forti, specie quelli riguardanti il ragazzo dagli occhi azzurri che è stato l’amore di una vita e che forse continuerà ad esserlo anche nel gelo della fine.

Credits Rino Bianchi

E poi esplode l’infanzia solare, l’unico periodo della vita sgargiante di avventure, di ferite e di cadute, di sale e di sudore, trascorso con l’adorato zio pescatore, che tutto le ha insegnato come un mentore affettuoso, o con la nonna paterna, vissuta in un paese di mare senza mai riconoscere all’immensa distesa azzurra un valore diverso da quello paesaggistico. E da quell’infanzia di “immortalità e gioia pura” l’autrice lascia riaffiorare il senso di sfrenata libertà provato in campagna e al mare, realtà diversissime eppure affini nelle sensazioni suscitate. A dimostrarne il legame, un oggetto simbolo – un semplice coltello – indispensabile su entrambi gli scenari, punto di raccordo tra le due anime e le due infanzie, quella di terra e quella di mare.
In un localino seminascosto di Marina Corta, a Lipari, davanti ad un bicchiere di vino rosso, arrivano finalmente le parole, il groviglio esistenziale comincia a srotolarsi e a prendere forma. E dunque eccolo straripare il sentimento del mare, vero protagonista della narrazione, perché attraverso il mare e la sua bellezza l’autrice riscopre se stessa, dialoga con la sopravvissuta che nel mare continua a riconoscersi. Ecco tutta l’intensità delle emozioni da esso prodotte restituite in una gamma multiforme di passioni e di contraddizioni, sciolte infine nell’abbraccio di un bagno invernale che dona brividi e benessere, che accoglie come un grembo capiente, che consegna all’anima inquieta il segreto dell’abbandono.
“Adesso desideravo liquefarmi nell’acqua, essere quella purezza lì senza peccato… L’importante è non fermarsi, muoversi, nuotare”.

Evelina Santangelo
Il sentimento del mare
Einaudi editore
pp.152
17,50 €

https://www.scriptandbooks.it/2024/08/24/il-sentimento-del-mare-di-evelina-santangelo/

“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi

“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi per Barta Edizioni

@ Agata Motta, 27 luglio 2024

Codici per accedere al presente e a ciò che siamo stati, per individuare nel proprio personalissimo archivio emotivo quei momenti, esplosi come bengala in cieli oscuri, atti a condizionare lo svolgimento della vita: sono queste Le parole d’ordine di Andrea Dei Castaldi, intrigante e riservato autore che pubblica il suo quarto romanzo sempre per Barta edizioni.

Come il precedente Anime brevi, che nasceva durante una lunga parentesi sudamericana, anche quest’ultimo romanzo si colloca dentro un’esperienza personale destinata a lasciare impronte profonde: la malattia e la morte del padre vissute dapprima come guerra e sofferenza e infine come atto di fede nei confronti della vita e dei suoi immancabili orizzonti di luce. Non siamo di fronte a romanzi autobiografici ma a lavori che sgorgano da circostanze forti che scuotono e costringono allo spossante abbandono ad una scrittura risarcitoria.

Oreste, Stefano, Domenico e John si ritrovano dopo trentasette anni. Sono stati convocati e riuniti dalla giovane Olga, nipote del primo. L’occasione è quella della consegna di una medaglia al valore per l’eroico coraggio dimostrato durante la campagna d’Africa allo zio Oreste, ormai molto fiaccato dalle malattie. Medaglia che giunge, per affanni burocratici, dopo tanto di quel tempo e di quegli accadimenti, compresa la militanza di Oreste nelle truppe partigiane, da non avere più senso per chi dovrebbe riceverla. E infatti il destinatario vi rinuncerà ma il ritrovarsi dei quattro uomini sarà, in modi diversi per ciascuno di loro, un’opportunità che potrebbe trasformarsi in atto catartico. Ad accomunarli, infatti, è la tragica esperienza bellica e il casuale intreccio delle loro esistenze in condizioni estreme. A ben guardare, anche questi personaggi sono “anime brevi” nella maniera intesa da Dei Castaldi, cioè esseri umani sopravvissuti dopo la perdita della parte più preziosa di sé, che sia essa un mancato amore giovanile, un pezzo del proprio corpo martoriato, la fede che vacilla di fronte all’insensatezza della guerra o il senso dell’onore militare e del dovere nei confronti della patria poco importa. Vivere comporta anche questo, lasciare lungo il tragitto parti di sé e proseguire il cammino, ma senza fuggire da se stessi, senza mai rinnegare un passato che tanto riemergerebbe comunque, violento e doloroso, anche a distanza di molto tempo.

Tra tutti Oreste è il personaggio più enigmatico, chiuso nel proprio buio dal momento in cui, ancora bambino, per salvare il fratello minore dall’annegamento, si ritrova a tu per tu con la morte. Continuerà a camminarle accanto senza temerla, pur incontrandola e respirandone il fiato più e più volte nel corso della vita. Non si farà donare il cavallo più veloce che c’è come il soldato di Roberto Vecchioni, Oreste sa di non poter sfuggire alla propria Samarcanda, sa che quando la nera signora vorrà prenderlo con sé non potrà fare altro che abbandonarsi ad essa. Come nelle tragedie greche il Fato non è eludibile. Di Oreste sapremo sempre poco e quel buio, vivificato da un’incrollabile attaccamento alla vita, resterà fitto e conturbante, ma lui è il perno intorno al quale l’autore ricostruisce i ricordi di tutti gli altri – un medico inglese, un giovane cappellano, un capitano – che in simmetrica alternanza, con una precisa scelta nell’impianto narrativo, consegnano al lettore le loro vicende legate ad un contesto bellico, e qui sentiamo gli echi di altre canzoni, come La guerra di Piero di De Andrè, o di altra letteratura, come Remarque e Ungaretti, per il quale si fatica a trovare una qualsiasi logica o uno straccio di giustificazione.

Il presente, non più vicinissimo, della storia è il 1978, anno preso in prestito per immettervi le vicende altrettanto enigmatiche e insolute del brevissimo pontificato di Albino Luciani.

L’autore inserisce in tal modo un nucleo narrativo di grande impatto speculativo apparentemente divergente rispetto al filo conduttore, ma in piena sintonia con la crisi spirituale dell’ex cappellano Stefano Casadei e, più in generale, di una parte del mondo cattolico che in quel momento storico non si identificava più con i vertici ecclesiastici. Stefano incontra Fausto, un compagno di seminario poi perso di vista divenuto insegnante di storia e filosofia, dedito alla stesura di un saggio, intitolato Le origini del male, in cui identifica l’Anticristo nella Chiesa di Roma, colpevole di avere agito nel corso della storia contro l’affermazione dell’autentico messaggio cristiano di cui Gesù era stato portatore. Fausto confessa all’amico di essere rimasto in contatto con Albino Luciani, definito “il loro comune amico” e di aver ricevuto persino una telefonata dopo l’elezione al pontificato in cui si dichiarava “agnello in mezzo ai lupi”. In Fausto, insomma, si era accesa la speranza di un cambiamento epocale in seno alla Chiesa, qualcosa di rivoluzionario che avrebbe potuto riportare il baraccone al messaggio originale di Cristo, teoria riconducibile a certe eresie medievali sradicate violentemente dal potere ufficiale. Ma la Storia, come sappiamo, ha seguito un percorso diverso e l’alone di dubbio che ha avvolto l’improvvisa e inaspettata morte del pontefice non si è mai dissipato del tutto. I capitoli del romanzo dedicati a Luciani accendono nuovamente i riflettori su una figura marginale perché incompiuta in questi delicati anni in cui il pontificato di Francesco suscita sconcerto in certe frange tradizionaliste della Chiesa.

Ritrovare il proprio ordine interiore non sarà facile per i quattro personaggi, ma ognuno muoverà i propri incerti passi incontro al nuovo, fortificato dal recupero di eventi rimossi o accantonati. Per alcuni i passi si muoveranno a ritroso per riannodare fili separati dalla sorte, per altri sarà la fine di un sogno di rinnovamento spirituale o il ritorno al gorgo oscuro delle origini.

Al di là della trama e dei suoi tanti accattivanti snodi, è un piacere ritrovare il linguaggio ricercato di Dei Castaldi, le parole centellinate e scelte con cura, avvertire la meditazione su una scrittura che non scivola via veloce e distratta ma che si spende generosamente alla ricerca del periodo giusto ed esatto.

Una lettura intensa che può giovare a quanti annaspano tra un passato irrisolto ma non modificabile e un futuro denso di incognite allettanti, una presa d’atto della lotta incessante tra il Bene e il Male in una partita da sempre in corso e mai conclusa.

Agata Motta

Andrea Dei Castaldi

Le parole d’ordine

Barta edizioni

pp.177

https://www.scriptandbooks.it/2024/08/24/le-parole-dordine-di-andrea-dei-castaldi-per-barta-edizioni/

“Cuore nero” di Silvia Avallone

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La nuova lucentezza dei dannati. “Cuore nero” di Silvia Avallone per Rizzoli Edizioni

@ Agata Motta, 14 maggio 2024

Un uomo elegante e una giovane donna dai capelli rossi e scarmigliati percorrono un sentiero in salita. Si sente la fatica, il fiato grosso, i muscoli dolenti ma si avvertono anzitutto la determinazione, l’imbarazzo, il bisogno di arrivare, l’altalena di avvicinamenti e prese di distanza, perché la confidenza che dovrebbe esistere tra padre e figlia è stata alterata da quindici anni di reclusione durante i quali lei ha scontato una pena per una colpa grave e irredimibile.

Silvia Avallone in Cuore nero, edito da Rizzoli, mostra subito Emilia, la protagonista di questa bellissima e trascinante storia, nei suoi guasti e nelle sue asprezze. La vediamo muoversi come un animale braccato, spinta dalla necessità di approdare ad un altro nascondiglio, Sassaia, luogo della sua infanzia ormai quasi disabitato, nel quale continuare ad esistere dopo l’uscita dal carcere. Di esistere nonostante il male fatto, che non si è ridotto di intensità durante il periodo detentivo e che le cammina accanto come un’ombra e tracima nel sangue che sgorga dai tagli che si pratica sulle braccia quando il dolore è insopportabile. Suo padre, architetto affermato, innocente e già straziato dalla perdita della moglie, l’ha guidata a distanza come Virgilio attraverso l’Inferno, ma il viaggio negli inferi di Emilia non è stato voluto dalla grazia divina e lei non sembra destinata a riveder le stelle. Le sue sono fiamme interiori che lambiscono l’anima più che il corpo, dalla colpa non si viene fuori se non a patto di nominarla e di accettarla senza negazioni o rimozioni, ma questo processo è bloccato, inceppato nella convinzione che solo tacendo il male esso possa respirare quieto in angolo di cuore, quasi inoffensivo eppure pronto a divampare alla minima sollecitazione.

A raccontare di Emilia è Bruno, altro sepolto vivo di Sassaia, rimasto orfano da bambino per un tragico incidente in funivia dal quale lui e la sorella si salvano per uno assurdo scherzo del destino. La sua vita è irrimediabilmente segnata da una doppia assenza che non è riuscito mai ad elaborare e solo il lavoro con i pochissimi alunni del borgo più vicino riesce ad impartire un ordine alle sue giornate e sbiaditi colori alla solitudine eletta a fedele compagna.

La voce narrante di Bruno accompagna il lettore creando una specie di complicità, perché la sua ricerca della verità sul passato di Emilia (che lui racconta da spettatore partecipe o, come l’autrice precisa in più punti, dopo averla da lei appresa) coincide con la sete di sapere di chi legge, mentre si fanno strada il bisogno di esplorazione dei suoi sentimenti, risvegliatisi dopo un lungo, voluttuoso torpore, e una timida consapevolezza di sé e di quanto del proprio passato possa ancora essere recuperato, come il rapporto sbilenco e usurato con la sorella. Lui non ha colpe, ha subìto un danno, ha sofferto senza aver provocato sofferenza; è naturale affezionarsi alla sua mitezza, al suo candore, alla sua capacità di abbandonarsi ad un sentimento nuovo e travolgente senza desiderare in cambio nient’altro che la verità; è facile apprezzare il suo sacrificio, cioè la rinuncia a sapere, se fare luce sul buio di quella creatura selvatica e spigolosa che la pietrosa Sassaia gli ha donato può comportarne l’allontanamento.

Scaturiscono pian piano, tra continui slittamenti temporali, i tanti elementi presenti nel romanzo, scritto con un linguaggio crudo, talvolta sporcato da un lessico rabbioso e volgare, che sa anche costruire periodi dolci come carezze, inserire dialoghi spontanei e densi e indugiare su pensieri che restano in mente con la potenza degli aforismi.

Ed ecco la dislessia, che da una parte condanna Emilia a comprendere il mondo prevalentemente per immagini e dall’altra le offre la possibilità di ricostruirsi come essere umano proprio per mezzo dell’amore per quelle immagini, amore che passa attraverso l’arte del restauro (bellissima la figura del vecchio pittore Basilio, che le farà da mentore in questo percorso pur conoscendo la verità), metafora intensa per chi deve riportare alla luce ciò che resta di un tempo puro che fu e che non può essere più nemmeno ricordato o concepito. Ridare lucentezza e vita ai dannati del giudizio universale, averli “aiutati a riemergere dal nerofumo in tutta la loro sgargiante disperazione” si configura quindi come un beffardo contrappasso per chi ha conosciuto il male e la condanna.

Ecco l’amicizia tra sbandate (intensa e conturbante la figura di Marta, la capobranco indiscussa che dispensa crudeltà e dedizione), giovanissime donne considerate la feccia della terra eppure piene di pulsioni, di desideri, di sogni che non sanno nemmeno di possedere o che considerano un lusso immeritato perché la colpa ha divorato tutto, anche la possibilità di creare nella mente quelle illusioni così care e così necessarie al cuore.

Ecco i genitori di Bruno, assenti nella storia ma presenti nelle ferite infette lasciate in eredità al figlio bambino, ed ecco il padre di Emilia, sempre presente anche quando incalza la bufera, quando è chiaro che non serve coprirsi, perché si è sempre esposti e nudi di fronte alla cattiveria della gente e di fronte al dolore irreparabile di una figlia che ha distrutto se stessa e un’altra giovane vita.

Ecco la descrizione della condizione carceraria e i timidi tentativi della burbera ma illuminata direttrice pronta a comprendere che solo un percorso scolastico e l’accostamento alla cultura possono trasformare l’immobile disperazione in fiduciosa attesa e possono divenire possibilità concreta di riscatto e di reinserimento sociale. E poi l’assistente sociale e la psichiatra, figure chiave, veri e propri grimaldelli che, se usati con cuore e professionalità, possono scardinare le chiusure autodistruttive.

Infine l’amore incondizionato, quello interrotto, quello accarezzato, quello vissuto. L’amore che tutto ripara anche quando non ricompone i cocci delle vite infrante, ma si limita a raccattarli affinché messi accanto possano riconoscersi e avvicinarsi.

Forte dell’esperienza vissuta all’Istituto penale minorile maschile di Bologna, dove ha condotto laboratori di lettura e di scrittura, Silvia Avallone consegna un romanzo bellissimo dallo stile perfetto, pregno di dolore e di speranza, senza dispensare giudizi morali e senza scivolare in facili sentimentalismi. Dopo averlo letto siamo portati quasi spontaneamente a pensare che davvero dal male possa nascere il bene e magari ad illuderci che ciò non accada solo nei romanzi.

Silvia Avallone
Cuore nero
Rizzoli editore
pp.370
20,00

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“Col fumo negli occhi” di Daniela Ginex

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Le certezze ‘di sangue’. “Col fumo negli occhi” di Daniela Ginex

@ Agata Motta, 1 maggio 2024

Un appartamento zeppo di oggetti, ninnoli di dubbio gusto o cimeli di un blasonato passato, e la sua anziana proprietaria e custode sono i protagonisti di Col fumo negli occhi di Daniela Ginex, edito da Kalòs, una vicenda tutta siciliana, per ambientazione e per mentalità, entrambe ben note all’autrice catanese.

La storia di Matilde, bambina prodigio ancorata ad un passato tutto lustrini e applausi che si è definitivamente concluso, si snoda in un romanzo familiare, che include voci e presenze esterne, denso di illusioni, di amarezza e di sottile ironia, quest’ultima nota felicissima che connota il linguaggio dell’autrice, specie nelle scelte lessicali, e che serpeggia dissacrante nel tempio edificato ad una realtà che non è più tale e che si nutre di necessarie apparenze.

La verghiana tematica della roba e la contrapposizione tra classi sociali appaiono come il fil rouge della narrazione, ma sono i sentimenti, rapaci e dirompenti, a dominare degnamente le pagine che sono intrise a volte da una distanza asettica e oggettiva e altre da una commossa partecipazione.

I personaggi sono tratteggiati con accuratezza, tanto da risultare assolutamente credibili, specie quelli che transitano nei piani più alti della scala sociale. La galleria femminile, tranne le nuove generazioni percorse da spirito di rivalsa e da voglia di riscatto, è accomunata dal tema della sconfitta e della rassegnazione. Chi ama non è adeguatamente ricambiata, chi odia non sa concretizzare in azioni le asprezze che transitano sotto il palato. Meglio tacere, soffocare gli scandali, lasciare che tutto scorra come deve. Le donne da sempre hanno affinato l’arte del dolore, sanno confinarlo in angoli impervi del cuore, possono tirarlo fuori nella solitudine e coccolarlo come un figlio storpio che il caso ha loro affidato. Matilde si illude di scegliere la propria solitudine – nessun pretendente è adatto a lei – e la propria esile gratificazione legata alla musica e all’amore fraterno, ma la sua apparente durezza è solo il frutto di un retaggio culturale e di una categoria di valori che determina ogni passo e ogni parola e che la rende infine vulnerabile e fragile. È circondata di adulatori e di falsi amici che si riveleranno avidi sciacalli pronti ad accorrere per mettere le grinfie su ipotetiche porzioni di eredità, mentre non vede la dedizione e la fedeltà di chi umilmente le sta accanto senza nulla pretendere. E allora sarà legittimo interrogarsi sull’amicizia e sugli affetti, sugli inganni e sulle mistificazioni, su quanto siano instabili i legami e illusori i sentimenti se non si è in grado di guardare oltre il muro delle apparenze e oltre i confini di anacronistiche gerarchie sociali, se non si è capaci di conoscere realmente chi ci vive accanto, di decifrare segni, di leggere comportamenti.

Daniela Ginex

Tra gli uomini è l’affascinante Michele, fratello maggiore di Matilde da lei amato in modo cieco e viscerale, a godere di un’attenzione particolare. Assimilabile ai grandi inetti della letteratura del primo Novecento, Michele, ammantato dei falsi panni dell’eroe di guerra ma in realtà soldato canaglia che acquista un’amante bambina durante la campagna eritrea per poi svenderla per debiti di gioco, sarà condannato dalla vergognosa malattia contratta nei bordelli ad un’infinita e demente immobilità e diverrà oggetto di cura e quasi di culto nella grande casa abitata dalla virtù. Fino al suo decesso, quello che metterà in moto il meccanismo del dare e avere legato ad un asse ereditario che si rivelerà assai diverso rispetto al previsto.

La verità – quella verità in fondo già evidente ma negata e rimossa – è pronta a farsi strada anche a distanza di decenni e il gelido distacco tra servi e padroni finirà per subìre smottamenti che produrranno nuovi assetti difficili da metabolizzare. Parlare di verità nella terra di Pirandello non è cosa semplice, ma esistono certezze “di sangue” che non possono essere negate anche se produrranno accomodamenti relativi.

Per Matilde vivere con il fumo negli occhi ha rappresentato salvezza e sopravvivenza. Di fronte all’”arido vero” meglio accendere un altro sigarino nell’immenso appartamento ormai disertato da tutti, meglio guardarsi bambina felice nel grande quadro appeso alla parete come il trofeo di tutti i sogni possibili.

Daniela Ginex
Col fumo negli occhi
Kalòs edizioni
pp.302
20,00 €

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“Baumgartner” di Paul Auster

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Le onde lunghe del dolore. Baumgartner di Paul Auster per Einaudi Editore

@ Agata Motta, 7 aprile 2024

Il dolore, anche quello più lacerante e profondo, non uccide, mantiene chi lo ha provato in una zona di confine tra la tentazione dell’autodistruzione e la pulsione alla vita. Una vita monca, imperfetta – ma la vita lo è sempre anche nelle migliori condizioni – inaridita, piena di buche come una strada male asfaltata, costellata di piccole vertigini e continui vacillamenti, ma pur sempre una vita che continua malgrado tutto. Di questo dolore e delle sue infinite mutazioni si occupa l’ultimo romanzo di Paul Auster, Baumgartner, Einaudi editore, che torna alla perdita della persona amata, già presente in precedenti romanzi come Uomo nel buio o Il libro delle illusioni, ma vi aggiunge una consapevolezza nuova, una maggiore saggezza nutrita da un bilancio filosofico ed esistenziale condensato in poco più di 150 pagine attraversate da innumerevoli forze centrifughe che vengono con pazienza disciplinate e ricondotte al nucleo centrale.
L’autore racconta una fase particolare della vita del professore Seymour Baumgartner, filosofo e saggista giunto al decimo anno della propria desolata vedovanza, con il consueto stile rassicurante che si snoda in un’elegante e sinuosa ipotassi che talvolta precipita in frasi brevi e lapidarie. Il protagonista viene inizialmente presentato attraverso piccoli contrattempi quotidiani ‒ un pentolino bruciato e la conseguente scottatura della mano, una rovinosa caduta dalle scale, un dialogo strampalato con il logorroico letturista dell’azienda elettrica ‒ tra i quali si destreggia a fatica. Anziano, distratto e brontolone Baumgartner cerca il proprio benessere anzitutto nella casa-mondo in cui si muove, uno spazio che deve garantirgli la quiete, quasi a compensazione di ciò che gli è stato sottratto, ma l’ironia che avvolge le pagine iniziali, e che continua a affiorare nel corso della narrazione, lascerà pian piano spazio ad una profonda riflessione sul lutto e sulle sue ripercussioni emotive e soprattutto sul senso della vita che, in realtà, continua a sfuggire al protagonista tanto quanto all’autore.
Auster si affida a un narratore esterno per guardare con maggiore obiettività dentro le giornate poco sensazionali e il triste grigiore di chi si avvia a passi incerti verso una vecchiaia da reinventare o forse per prendere pacatamente le distanze dalle tempeste interiori dell’anziano professore, che si sono ormai trasformate in onde lunghe che aggrediscono la battigia come una carezza pregna di solitudine e malinconia. Ma è una scelta dalla quale scantona più volte con incursioni nel territorio del metaromanzo e con la cessione della voce alla moglie assente che parla attraverso i suoi scritti. Ancora una volta Auster sceglie un protagonista scrittore, dunque un alter ego, ed è proprio l’attività dello scrivere ad essere scandagliata e a divenire oggetto di indagine e di narrazione, come in certi romanzi di Pascal Mercier o di Graham Greene.
Il saggio sulla “sindrome dell’arto mancante” nel quale Baumgartner si immerge rende perfettamente l’idea di quanto la parte mancante del corpo, o nel suo caso la parte mancante dell’anima, possa ancora essere fonte di un dolore indescrivibile e indegno. L’uomo, che razionalmente ha ripreso quasi subito a insegnare, a scrivere, a produrre, a interessarsi all’universo femminile dopo quarant’anni di assoluta dedizione alla moglie, sa di essere tuttora pericolosamente vicino alla zona rossa della follia dentro la quale, nei mesi successivi al lutto, stava per precipitare. E si meraviglia, come sanno fare gli anziani che hanno molto visto e ascoltato, di essere in grado di emozionarsi ancora, pur comprendendo che si tratta delle fredde e precarie emozioni di chi avverte di essere intimamente morto. La porzione di vita che aveva avuto il privilegio di vivere con la persona amata si è esaurita all’improvviso per un tragico incidente in mare, il mare che lei affrontava come l’abbraccio voluttuoso di un amante, lo spazio sconfinato che coincideva con il suo naturale bisogno di libertà. Ciò che è rimasto del tempo è divenuto per l’uomo il prima e il dopo, quando lei non era ancora comparsa nel suo orizzonte e quando lei in quell’incolpevole pomeriggio è tramontata. Le tracce della presenza di Anna, quelle incancellabili, perché costituite da avvii della memoria legati a oggetti, odori, musiche, situazioni, continuano a palpitare e si trasformano in persecuzioni, in larvati sensi di colpa o in dolcissime nostalgie. E in rapidi fotogrammi appaiono gesti, sguardi, parole di quella donna sconosciuta al lettore che si svela nei modi in cui l’assente bussa alla vigile attenzione di chi resta, più nelle piccole cose che in quelle importanti, l’ordinarietà che cementa il quotidiano di una coppia in sintonia.

Che sia sogno o visione diurna non importa, Baumgartner riuscirà a parlare con lei e capirà che deve lasciarla andare, che i morti non devono essere trattenuti nel luogo dal quale si sono distaccati, che non appartengono più ai vivi, che il riverbero del loro amore non deve trasformarsi in un cono d’ombra protettivo sotto il quale crogiolarsi in attesa che il dolore cessi di far male.
Ecco, il romanzo porge momenti altissimi proprio in tutto questo scavare nel dolore presente e passato, in tutte quelle piccole riflessioni, buttate lì come un inciampo sulla pagina, che davvero restituiscono in perfetta simbiosi malessere e lucidità, ragione e sentimento, e rappresentano l’espressione perfetta e tersa di quanto poco la morte possa tradursi in assenza. I ricordi, dai più banali e apparentemente insignificanti a quelli fulgidi di momentanee felicità, sostengono l’ordito così come le piccole vibrazioni del presente. Il giovane Baumgartner era già ben conscio del valore del momento in corso, della bellezza di un sorriso baciato dal sole, di quanto un giorno lo avrebbe rivissuto con lo strazio delle cose perdute.
Elementi autobiografici compaiono nelle dettagliate ricostruzioni delle rispettive famiglie d’origine. Si comprende che portare alla luce quei reperti accarezzati dall’affetto corrisponde all’intima necessità dell’autore di un ancoraggio alle proprie radici, ma nel contesto si collocano come piccole forzature e inutili distrazioni. Anche il tentativo, non riuscito, di Baumgartner di contrarre un nuovo matrimonio con una donna dalle caratteristiche opposte a quelle che erano appartenute ad Anna risulta puramente funzionale al dispiegarsi dello stupore per la rinnovata capacità di amare dell’uomo, nonostante la vita umana non sia altro che un carosello di auto impazzite “sulle autostrade della solitudine e della morte possibile”, come recita un altro saggio sul quale il professore ha lavorato.
La prospettiva di dare luce e visibilità alla produzione poetica della moglie, rimasta sempre volutamente una questione privata non destinata al pubblico, potrebbe determinare un nuovo approccio con la memoria della perdita e con la vita, la sopravvivenza forse potrebbe trasformarsi in altro anche in tarda età, ma il condizionale è d’obbligo perché il finale resta aperto e lascia nel lettore un leggero fastidio o una larvata delusione.
Da sempre sedotto dalla logica della casualità e dal trambusto delle tragedie scagliate sulla Terra come fulmini divini, Auster tronca all’improvviso quello che probabilmente sarà il suo ultimo romanzo, non senza aver disseminato indizi di non univoca interpretazione. Possiamo leggervi vitalità e speranza o forse un tortuoso tragitto verso l’autodistruzione o forse, molto semplicemente, la malattia non ha permesso all’autore di continuare il lavoro.
Scrivere di un’assenza per confermare la propria presenza: questo l’esito più alto di questo breve, denso, potente romanzo.

Paul Auster
Baumgartner
Einaudi editore
pp.153

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“Grande meraviglia” di Viola Ardone

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La “Grande Meraviglia” di Viola Ardone per Einaudi Editore

@ Agata Motta, 27 febbraio 2024

Ѐ già al suo terzo romanzo di successo e può respirare la magica atmosfera di un consenso diffuso e quasi affettuoso. Viola Ardone, giovane e talentuosa autrice, possiede la capacità di individuare tematiche di spessore attraverso le quali raggiungere la sensibilità e l’interesse di una vasta platea di lettori, costruendo con precisione microcosmi nei quali entrare in punta di piedi e dai quali uscire in qualche modo arricchiti.

In Grande meraviglia, edito da Einaudi, pur scavando nel dolore della salute mentale, nella nebbia di relazioni familiari inceppate, nelle frustrazioni e nei successi di controverse battaglie sociali e legislative, porge momenti di leggerezza e di incanto, grazie all’ironia lieve dei due protagonisti – la piccola Elba e il dottor Meraviglia – che sono anche le voci narranti delle quattro parti del romanzo. Due prospettive diverse e due vissuti complessi che confluiscono in un comune percorso di crescita professionale e di resurrezione interiore.

La bambina nasce in manicomio e cresce con le tenere cure della sua “Mutti” (“madre” in tedesco, la lingua segreta e oscura della comunicazione più intima), capace di plasmare, dentro l’inferno, una realtà alternativa in cui dare spazio al gioco e alla fantasia, in cui far risuonare il canto quando gli altri insopportabili rumori squarciano il sottile velo della loro complicità. Elba uscirà da quel luogo per qualche anno, giusto il tempo di ottenere i primi rudimenti scolastici dalle “suore culone”, assai poco evangeliche e accoglienti, ma al suo ritorno non troverà più la madre. Le diranno che è morta, ma il suo cuore sa che si tratta di una menzogna e che la madre è stata semplicemente confinata nel luogo del non ritorno, dei malati ingestibili, delle creature dal cervello bruciato dagli elettroshock. Sceglierà dunque di restarle accanto, pur senza vederla, per proteggerne almeno il passato e tutta la “grande meraviglia” che aveva saputo creare per lei. Uscita dall’adolescenza e infranto il sogno di ricongiungersi alla madre, la cui morte reale arriva il giorno fatidico del crollo del muro di Berlino (la riunificazione dell’amata terra d’origine, la Germania, non produrrà purtroppo quella delle tante schegge impazzite della sua psiche), Elba potrebbe vivere la sua seconda possibilità, ma possiede il carattere del fiume sontuoso di cui porta il nome, il semplice fluire degli eventi non le si addice e le ferite del passato continuano a pressare e a dettare le proprie leggi.

Ad affiancare Elba, in un arco temporale che va dai primi tentativi di applicazione della legge Basaglia ai giorni nostri, troviamo il dottor Fausto Meraviglia (dal nome oltremodo simbolico) idealista e affamato di vita, che sceglie di salvare Elba e di farne la figlia “d’elezione”, dopo aver mantenuto una relazione distratta e superficiale con la famiglia – una bellissima moglie e due figli – in costante ricerca di attenzione.

L’autrice gli cede spazio e voce quando è ormai vecchio e provato. Lo scintillìo della giovinezza era già arrivato al lettore attraverso le parole di Elba e torna in ampi flashback illuminati dal diverso punto di vista dell’uomo. Ritrovarsi comodamente seduto in poltrona ad ascoltare le chiacchiere di donne borghesi in difficoltà dopo aver lottato per mettere fine alle condizioni disumane in cui versavano i malati internati nei manicomi, dopo aver tentato di donare loro la dignità, dopo averne curato le piaghe in suppurazione con la psicanalisi invece che con la contenzione e l’elettroshock, produce un senso del fallimento, lascia il sapore amaro di una rinuncia alla libertà e all’amore, elementi che in lui camminavano di pari passo. Eppure di amore lui ne aveva dispensato tanto, disinteressato, gratuito, caparbio, amore per le vittime di una società che puniva gli uomini inadeguati e sofferenti e soprattutto le donne, che da altri uomini forti e rispettabili potevano essere facilmente internate per comportamenti ritenuti immorali o comunque non inquadrabili nella ferrea logica del “socialmente accettabile”. Il dottorino dai baffi rossicci era riuscito a guardare negli occhi di quanti non erano stati capaci di indossare la maschera pirandelliana delle convenzioni, era riuscito a leggere il dolore di ciascuna di quelle larve umane a costo di scontrarsi con il sistema – incarnato dal dottor Colavolpe, dispensatore di caramelle colorate in grado di sedare ogni stravaganza e di terapie violente dalle quali spera di ottenere un effetto deterrente – e di pagarne le conseguenze. La vecchiaia lo travolge naufrago e solo, con le uniche compagnie del gatto e di un amico giornalista testimone delle sue lotte idealiste, amareggiato soprattutto per l’abbandono dell’unica creatura sulla faccia della terra che abbia amato e aiutato senza risparmio, con la determinazione di chi spera che dalla salvezza del singolo possa derivare quella del mondo intero.

La speranza però filtrerà ancora nel cuore ingrigito e cupo del bizzarro dottore dei pazzi, che in fondo un po’ di pazzia ha trattenuto con sé, tramite la riappropriazione della paternità, quella che aveva sacrificato al lavoro e alla dedizione ai pazienti. Seppur in catastrofico ritardo, il dottor Meraviglia accetterà che i figli non si scelgono e non si giudicano, vivono le proprie esperienze e non quelle che i genitori desidererebbero per loro, comprenderà di aver soltanto attraversato e non vissuto la famiglia amata in controluce.

L’autrice posa uno sguardo rivelatore anche sui figli che subiscono la personalità strabordante ed eccentrica dei genitori, sulla difficoltà di intraprendere il proprio cammino senza subire troppi danni e senza assecondare l’istinto, sempre in agguato, di voler deludere il genitore inarrivabile, forse per riceverne finalmente la cura e l’accudimento.

Felici e dense di umana partecipazione risultano nel complesso le parti dedicate al manicomio con il suo corteo di anime perse e corpi disfatti, di infermiere e personale medico, tragici custodi/carcerieri di un’umanità di scarto, mentre risulta a tratti meno ispirato il racconto della tentazione suicida del vecchio Meraviglia, rimasto solo con i suoi nodi irrisolti e i suoi fantasmi.

La lingua scelta per dar voce ad Elba, zeppa di rime, ripetizioni, metafore è indubbiamente la nota più originale di questo romanzo che sa scendere negli abissi della follia con lo sguardo straniato e puro della protagonista che osserva e descrive l’unico mondo conosciuto e accessibile, il “mezzomondo”, dentro il quale anche la vita “normale” che scorre all’esterno arriva a spizzichi e bocconi con le sue lusinghe e le sue più numerose brutture. Ma una volta fuori, una volta liberi, quel mondo che ha riconquistato l’altra metà, non sarà una passeggiata su campi di papaveri. Per qualcuno sarà conferma di inadeguatezza, per altri inserimento nei rugginosi meccanismi lavorativi, per Elba una luce che non illumina ma lambisce attraverso un bacio destinato a non produrre amore e attraverso una conferma di vocazione all’ascolto dell’altrui dolore.

L’empatia come salvezza personale e come messaggio di speranza.

Viola Ardone
Grande Meraviglia
Einaudi editore
pp.299
18,00 €

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“Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta

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Il sovrano che tutto livella. Il giorno del Giudizio di Salvatore Satta, Adelphi editore

@Agata Motta, 6 febbraio 2024

Quando può dirsi conclusa la vita di un essere umano? Con la morte sembrerebbe ovvio rispondere, liberazione o approdo, se giunta in età matura, insulto o capriccio, se stroncata prima di dispiegarsi completamente. E il pensiero della morte istintivamente non può essere disgiunto da un bilancio, da una riflessione sul senso e sull’utilità dei propri passi mossi sulla Terra.

Ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, pubblicato postumo e consegnato al successo dalle edizioni Adelphi, i giorni andati, con il loro corredo di dolore, aspettative e sogni infranti, vengono riacciuffati e ripensati partendo proprio dalla fine, perché forse solo iniziando dalla conclusione è possibile sostanziare il passato. Il Tempo è l’unico vero sovrano che tutto livella, vita e morte si mescolano con un andamento che sembra dominato dal caso. L’illusione foscoliana di una sopravvivenza affidata al ricordo di chi, ancora vivente, la alimenta, è sostituita dall’opposto bisogno di essere “liberati dalla vita” attraverso l’atto della narrazione, quella vita che per legge di natura prende il sopravvento, scavalca il transeunte e si perpetua, paga del proprio trionfo.

Al cimitero della città d’origine, Nuoro, torna un anonimo narratore (nel quale è legittimo intravedere lo stesso autore) che sente di essere ormai vicino alla fine. Ha fatto un lungo viaggio per rivedere i luoghi dell’infanzia e percepirne forme e odori, per riconoscerli forse e ritrovare quel troncone della propria vita che lì ha avuto origine e che lì è rimasto conficcato mentre la restante parte si è spezzata per svolgersi altrove. Ha condiviso quel lembo di terra con i tanti personaggi che come spettri inquieti attendono di essere riesumati dalle parole per essere consegnati, almeno sulle pagine di un libro, al supremo giudizio degli uomini e di un Dio che appare indifferente spettatore di una commedia umana dalle tinte fosche.

Impossibile non collocare il romanzo nel solco magnifico e visionario dell‘Antologia di Spoon River, per quell’atmosfera sospesa tra sogno e realtà nella quale i defunti (i dormienti sulla collina di Edgar Lee Masters) possono materializzarsi nella mente dell’autore ed essere consegnati ai posteri, con le loro storie, tutte le storie, da quelle intrise di fallimento e miserie a quelle apparentemente lustre e appaganti. Il romanzo è comunque pregno di altri evidenti rimandi letterari: le descrizioni crude e realiste del territorio sardo già appartenute alla Deledda, la poetica verghiana dei vinti, l’aristocratico fatalismo di Tomasi di Lampedusa. E letterario risulta anche il linguaggio, colto e sostenuto sul piano sintattico e su quello lessicale.

La storia della famiglia Sanna Carboni, ritratta tra la fine dell’Ottocento e gli anni successivi alla Grande Guerra in un itinerario segnato inizialmente dal benessere sino alla progressiva dissoluzione, si porge come filo conduttore alla capacità evocativa del narratore chiamato a raccontare del notaio, retto e lavoratore indefesso, della moglie, donna Vincenzina, e dei loro numerosi figli.

Inizialmente Satta quasi si inebria nella descrizione della città a lui cara e i primi capitoli, che ne tracciano origine, strade e quartieri con estrema minuzia, ne risultano appesantiti e rendono ostico l’approccio al testo, ma durante il suo percorso di messa a fuoco delle vicende dei Sanna Carboni il narratore viene distratto, chiamato, quasi strattonato dai tanti altri personaggi che in qualche modo sembrano rivendicare attenzione e memoria. Il racconto diventa allora sontuoso perché sviscera vizi e virtù di una società chiusa nel bozzolo dell’identità isolana ma sensibile alle lusinghe del continente, pigra al dibattito politico ma consegnata alle manovre di mediocri personaggi e di apparati ecclesiastici assai abili nelle strategie persuasive, inconsapevolmente avviata alla sciagura bellica della quale giungono solo bagliori lontani o rapaci richieste di giovani vite. Come in una allucinata processione sfilano maestri, ereditieri, prostitute, prelati, sacerdoti, dementi, contadini, pezzenti, beoni, serve, zitelle, una commedia umana con piena vocazione tragica alla quale si assiste da vicino restandone però intimamente distanti. Al lettore Satta, che si interroga sulla funzione della sua scrittura rivelatrice, non chiede infatti giudizi né compassione, sebbene quest’ultima sorga prepotente in certe pagine in cui gli umili subiscono offese crudeli e gratuite.

Ai figli del notaio, che lui vorrebbe crescere come naturali propaggini di se stesso, sembra destinato un futuro di studi e successi, ma naturalmente non sarà proprio così. A quei ragazzi, tutti maschi, se si escludono le due femmine morte in tenerissima età, la vita riserverà cadute e risalite determinate da indoli particolari o da eventi avversi, alcuni ineludibili perché generati dalla grande storia. La madre, un tempo bellissima ma ormai sformata dalle gravidanze e rallentata dall’artrite, può solo limitarsi a osservarli come una chioccia amorosa, a palpitare per i loro silenzi, a farsi divorare dall’ansia per la lontananza.

Il Tempo, si diceva, il tempo infine avvolge e travolge, e quando si assottiglia impone i ricordi come ultima fiammella prima che lo stoppino finisca di bruciare.

Salvatore Satta

Il giorno del giudizio

Adelphi editore

pp.292

€ 13,00

https://www.scriptandbooks.it/2024/02/06/il-sovrano-che-tutto-livella/

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