“Tutti i ricordi di Claire”di Julie Bertuccelli

Le intermittenze della memoria. ‘Tutti i ricordi di Claire’, con Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, al cinema del 21 novembre

Saggistica breve. Cinema

@ Agata Motta (20-11-2019)

La grande villa/museo dell’anziana Claire Darling si risveglia un giorno inconsapevole del suo smantellamento. Claire si trucca e si veste con cura per la sua ultima apparizione pubblica e, attraverso questo granitico e confuso personaggio, il magnetismo di Catherine Deneuve fora lo schermo, lo riempie di sguardi muti che viaggiano sui binari del tempo, un tempo che si srotola alla rovescia rendendo possibile e vera la coesistenza di brandelli di passato e di visioni inquiete sul presente addomesticate dall’accensione continua di sigarette consolatorie.

Un’illusione aspra, lucida eppur farneticante abita Tutti i ricordi di Claire, terzo film di finzione di Julie Bertuccelli, in sala dal 21 novembre, una follia, l’ultima, come giustamente recita il più suggestivo titolo originale francese La dernière folie de Claire Darling.

Claire alza lo sguardo verso il cielo, lo posa sulle fronde degli alti alberi del giardino e vi scorge biciclette appese, parla con un estraneo e lo scambia per il giovane figlio morto, accarezza con occhi dai bagliori di una bellezza lancinante i tanti oggetti vivi che hanno dato spessore alla propria vita, ascolta nella notte una voce che annuncia l’arrivo del suo ultimo giorno terreno e a tutto questo crede ciecamente. Prova stupore per quelle intrusioni improbabili, comprende che non può trattarsi di realtà ma si rassegna ad esse con devozione, aderisce a quel lembo di ragione confinante con la malattia in cui si producono coabitazioni prodigiose di verità e allucinazioni e anche a questo crede appassionatamente. In quella voce notturna, che nessuno può sentire, trova finalmente un obiettivo perseguibile, una soluzione praticabile, una lama di luce che squarci il buio dell’isolamento caparbiamente voluto. In quella voce assapora il privilegio di scoprire quanto le resta da vivere dopo aver languito nell’attesa della fine per dieci lunghi anni senza riuscire ad elaborare un lutto assurdo e devastante. E allora eccoli lì i ricordi, quelli piccoli, fatti di sguardi e di parole non spese, e quelli grandi, in cui il livore, la rabbia e la disperazione hanno determinato il corso degli eventi futuri. Ricordi aggrappati ad oggetti che sembrano possedere un’anima, ad opere d’arte che scaldano il gelo delle spente emozioni.

Dopo aver accettato quell’alba come l’ultima da vivere, la donna decide di mettere tutto in svendita a prezzi simbolici per offrire alle sue cose un’altra chance, una nuova vita, un riscatto contro l’oblio o semplicemente perché non potrà più guardarli e ascoltarli.

Il gioco di rimandi tra oggetti e porzioni di vita e l’osservazione di un presente che si specchia nel passato per non franare sotto il peso delle macerie sono il pretesto narrativo, non particolarmente originale, che la regista trae dal romanzo Il cassetto dei ricordi segreti di Lynda Rutledge, romanzo che ha molto amato per via delle affinità e degli echi personali che vi ha colto e al quale ha attinto apportandovi le modifiche necessarie alle proprie esigenze e spostando la collocazione geografica dal Texas alla familiare provincia francese.

Come nei precedenti Da quando Otar è partito e L’albero, la Bertuccelli torna alle sue tematiche più care: il lutto che produce uno schianto assordante e insanabile e il rapporto madre/figlia che, in quest’ultimo lavoro si rivela comunque irrisolto, pietrificato anche nel perdono reciproco di colpe reali o presunte ma comunque irredimibili. Sarà un perdono sterile, incapace di produrre persino un abbraccio affettuoso nel quale riconoscere le proprie radici e la propria prosecuzione fisica. Claire non vuole essere toccata da chi vorrebbe continuare a vivere nonostante il lutto, nessun contatto fisico con il marito, che vede morire sotto i suoi occhi senza chiamare l’ambulanza, né con la figlia Marie che abbandonerà una dimora in cui non troverà più alcuna collocazione plausibile. Il corpo di Claire diviene anch’esso un oggetto, ma di quelli fragili e preziosi, di quelli che è ancora possibile guardare da lontano senza accostarvisi troppo, un corpo che forse, ma è un’ipotesi appena adombrata, potrà ricevere ancora carezze da chi, per imposizione dettata dal ruolo sacerdotale, non potrebbe elargirne. Ad un quadro di Monet custodito in sagrestia, più che a vane promesse di vite ultraterrene, il sacerdote (Johan Leysen ne fa un uomo inquieto e vulnerabile) affida la sua tenerezza di uomo per la donna spezzata dal dolore, una ninfea galleggiante su uno stagno, un fiore adagiato sulla melma. La donna dunque si ritrova sola nell’immensa dimora che testimonia di ricchezze godute, di agi buttati in faccia ad un marito che non tollera di essersi fatto grande con i beni della moglie. E in solitudine vivrà gli ultimi decenni della sua vita, con l’unica compagnia della demenza incalzante e degli oggetti/feticci di un passato disturbante ma necessario.

Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, madre e figlia nella realtà, si incontrano sulla scena (come già avvenuto in diverse occasioni, da Banc Publics a Les Bien-aimés a Tre cuori) senza tradire alcuna intimità, con l’imbarazzo e la freddezza che la sceneggiatura impone, con quei timidi tentativi di riacciuffare in extremis un rapporto che ha cessato di esistere da vent’anni e che non può riaccendersi quando la fine si profila netta e incombente.

Una fine che potrebbe segnare invece un nuovo inizio per Marie, che incontra Amis (un nitido Samir Guesmi), vecchio amico del fratello che le manifesta interesse e sentimenti teneri riemersi probabilmente da un passato bloccato nella sua naturale evoluzione dalla tragedia.

La bellezza della Deneuve, per nulla offuscata dai capelli grigi ed esaltata dai gesti misurati e quasi regali da castellana in dignitosa rovina, si sposa con la bellezza delle tante meraviglie affastellate nella villa: l’orologio che sormonta l’elefante, che induceva sogni sereni nella piccola Marie, i preziosi automi d’epoca che si muovono ancora perpetuando gesti e movenze inossidabili, che sembrano narrare attraverso le labbra chiuse e sigillate vecchie storie di un passato sovrapponibile al presente. Oggetti di una vita, testimoni di altre vite nell’incessante corsa attraverso i secoli, oggetti che omaggiano l’analogo amore della Bertuccelli per le tracce del passato tramandato da generazione in generazione e che ricordano vagamente il maestro Otar Ioseliani de I favoriti della luna, in cui è una collezione di porcellane di Sèvres ad accompagnare i personaggi. Oggetti che verranno esposti nudi e vulnerabili nell’ampio giardino della villa, toccati da mani estranee e acquistati per pochi euro, mentre Martine (una spontanea e vitale Laure Calamy che si presta bene al suo ruolo di artefice del ritorno di Marie e quindi di custode della bellezza e dei ricordi) tenta il disperato salvataggio dell’immenso patrimonio di Claire da una deriva che le appare inaccettabile e grottesca, anche perché di quella casa e di quegli oggetti anch’essa si è nutrita.

Sull’altra sponda, quella della vita reale e deludente, la Mastroianni delinea con accuratezza una Marie persa nella ricerca di felicità inattingibili, la figura scarna, quasi divorata dalla magrezza, punita dai lunghi capelli di un biondo improbabile che non accendono lo sguardo sempre cupo. E’ una figlia che non può competere con il fratello nella conquista di un varco nel cuore indurito della madre, è una donna solo apparentemente padrona di sé che non riesce neanche ad arrabbiarsi di fronte alla placida e signorile follia materna. Marie è stata una bambina appagata dall’amore di un padre (un Olivier Rabourdin che in poche, dense scene mostra l’amarezza del fallimento come uomo di successo e come marito), ferito a morte dall’odio della moglie, una Alice Taglioni che fa emergere bene la fragilità e la durezza di Claire da giovane. Di lui rimane un vecchio secrétaire, luogo dei piccoli segreti e delle scoperte inaspettate.

Di inaspettato in realtà la trama non offre molto, la fabula è prevedibile nelle dinamiche fondamentali, le riflessioni sulla memoria che salva e annega sono state riformulate un’infinità di volta su carta, su schermo, su palcoscenici e ancora un’infinità di volte si avvertirà il bisogno di tornarci su, ognuno a suo modo; dunque non vanno cercati in queste direzioni i pregi del film, quanto piuttosto nelle scelte stilistiche effettuate dalla regista per porgere quei contenuti e quelle verità.

La Bertuccelli si muove con matura personalità tra morbido realismo e atmosfere oniriche in una commistione bizzarra ma perfettamente coerente. Nessuna sensazione di artificio emana dal film, su tutto si posa una specie di impalpabile leggerezza che filtra anche i momenti più drammatici, una soffusa, felliniana malinconia, ma svuotata da ogni eccesso, perché persino le improvvise apparizioni del corteo delle spose o degli sciamanti bambini vestiti in maschera si innestano nel fluire della giornata in modo assolutamente naturale. Allo stesso modo acquista significato il lieve curiosare di una bimba tra gli oggetti del giardino che fornirà inconsapevolmente la soluzione dell’enigma dell’anello rubato, una bimba spuntata dal nulla che si porge come il simbolo di un’infanzia passata eppure ancora viva, che sia quella di Claire o quella di Marie poco importa. Ai colori del giardino, trasformato in solenne fiera delle grandi occasioni, si unisce la gioiosa vitalità che attraversa il paese per l’arrivo del circo con le sue tante attrazioni, e poi i fuochi d’artificio della festa che suonano da ultimo applauso per la donna che esce di scena alla fine della sua ultima spettacolare giornata da protagonista. La scelta stilistica più intrigante è comunque il modo in cui la regista decide di saldare al presente i rapidi frammenti del vissuto dei personaggi. In realtà non si tratta di veri e propri flashback introdotti dai canonici espedienti tecnici, ma di intermittenze della memoria, di sinapsi emotive e talvolta di coesistenza, in un unico piano visivo e narrativo, del personaggio che si guarda dall’esterno mentre entra nell’inquadratura il se stesso bambino o adolescente. Ciò concede una totale soggettività al ricordo, attraverso le modifiche e gli aggiustamenti operati dalla memoria sui contenuti più impegnativi e logoranti, e offre la possibilità di tradurre in un linguaggio immediatamente fruibile l’appiattimento del tempo su quell’unico tragitto orizzontale che la mente alterata di Claire concepisce con naturalezza. Un tempo spesso e vischioso che ingloba passato e presente senza essere né l’uno né l’altro.

Eppure una sensazione di incompiutezza segna il finale, pirotecnico ed esplosivo nel vero senso di entrambi i termini, accompagnata dall’impressione che sia stata compressa la durata del film, che sia stato sacrificato qualcosa. O forse è solo il desiderio di restare ancora appesi allo sguardo della Deneuve e alla stralunata follia della sua Claire.

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“Lauro” di E. Vodolazkin

La fine del mondo che non arriva. ‘Lauro’ di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni

@ Agata Motta (04-11-2019)

Letteratura. Saggistica breve.

Un percorso di conoscenza attraversato da un afflato universale e dalla stupefacente forza della fede, questo, e molto di più, è Lauro, Elliot Edizioni, romanzo pluripremiato ambientato nella metà del XV secolo, scritto da Evgenij Vodolazkin, uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco. Lauro segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete del suo tempo. Vodolazkin ricostruisce con aggraziata finezza e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla straordinaria morte, e la organizza in tappe: libro della conoscenza, libro dell’abnegazione, libro del cammino e libro della pace.

La narrazione, piana e scorrevole, è impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche elargite con tono colloquiale o attraverso complesse elaborazioni, a seconda che appartengano a gente umile e illuminata o a menti più raffinate e socialmente elevate. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile ed una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e di singolare aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con cui, durante una lunga parentesi della sua vita, condividerà abitudini e bizzarrie, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Uno degli aspetti più intriganti del romanzo è costituito proprio dalla messa a fuoco del fenomeno dei “folli in Cristo”, figure di mistici che hanno caratterizzato quell’epoca e quella terra lasciando un’impronta profonda nella cultura locale. E’ lo stesso autore, filologo e specialista di letteratura russa medievale, a spiegarne le caratteristiche peculiari in un’intervista: il folle in Cristo è un individuo che sceglie di rompere con la società, che si esalta fuggendo la gloria dell’uomo, che trascura e mortifica il corpo, che si sposta da un luogo all’altro senza mai appartenere a nessuno di essi. La stravaganza dei comportamenti e l’eccentricità sono “aspetti di una santità che non vuole essere riconosciuta e quindi indossa la maschera della follia”. Un fenomeno, dunque, che, nella sua diversità rispetto all’eremitaggio tipico del monachesimo orientale, suscita curiosità e stupore nel mondo occidentale abituato alle caratteristiche del cenobitismo.

Winter Morning by Igor Grabar

Invaghirsi di Arsenio sin dall’inizio del romanzo è spontaneo, quasi obbligatorio. Dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un folle in Cristo, prendendo il nome di Ustino (come se continuasse a vivere per la donna amata, come se le prestasse il proprio corpo per prolungarne la breve esistenza), poi tornerà ad essere Arsenio, quindi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria del caro amico defunto), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna.

Tanti nomi che corrispondono a tante vite. Certo non è il cambio del nome a determinare la moltiplicazione, ma quella intensa trasformazione interiore che spesso accompagna le persone dotate di particolare sensibilità, quel passaggio radicale da uno stato ad un altro che la materia sottoposta a variazioni subìsce, in base al quale non muta la sostanza ma il modo in cui essa si manifesta. Basterebbe semplicemente stare ad ascoltarsi per comprendere la potenziale molteplicità dell’Io e la sua sorprendente capacità di rinascita, per aprirsi “nuovi e disponibili” alla vita, tante volte quante il caso o la determinazione riescano ad offrire. Anche in vecchiaia, anzi soprattutto in essa, quando la visione d’insieme è completa, quando il tempo cessa di fluire in modo orizzontale per piegarsi e inginocchiarsi ad una circolarità che evoca mondi lontanissimi soltanto immaginati.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo. Scelte convergenti, dunque, all’insegna di quella che si configura come la duplice storia d’amore che occupa l’animo inquieto di Arsenio, quella per Ustina, con la quale manterrà un dialogo ininterrotto in attesa di risposte che ovviamente non potranno giungere, e quella per Dio, nel quale si vorrebbe annullare e nel quale trovare il senso del suo tortuoso percorso umano di espiazione.

Venezia nel XV secolo

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti: il freddo rabbioso della Russia flagellata dalla peste, il fascino magnetico dei palazzi della Repubblica veneziana, il Mediterraneo con le sue burrascose tempeste e con i miti classici e le vicende epiche ancora aleggianti (il Labirinto del Minotauro, Troia, Paride ed Elena), i torridi sentieri polverosi del Medio Oriente attraversati durante il pellegrinaggio. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro – illustrato minuziosamente nei grandi eventi e nelle piccole folgorazioni del quotidiano – e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita in un’epoca in cui la morte era costantemente in agguato sotto forma di malattia, guerra, carestia, gratuiti assassini.

L’italiano Ambrogio morirà durante un attacco dei mamelucchi, ormai in procinto di giungere in Terra Santa per compiere in compagnia di Arsenio la missione affidata loro dal podestà di Pskov, quella di accendere una lampada votiva nel Santo Sepolcro per la defunta figlia Anna.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

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“Le nostre anime di notte” di Kent Haruf

Prima che faccia buio. ‘Le nostre anime di notte’ di Kent Haruf, NN Editore

Saggistica breve. Letteratura.

@ Agata Motta (19-10-2019)

Esile come un giunco e sussurrato come una preghiera, Le nostre anime di notte, NN Editore, costituisce il consapevole testamento spirituale di Kent Haruf, scrittore americano giunto alla piena notorietà in età matura con la Trilogia della pianura, un trittico di romanzi (Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione in ordine di scrittura) ambientato nell’immaginaria cittadina di Holt, in Colorado, grazie ai quali ha ricevuto importanti riconoscimenti. Consapevole perché scritto quando la malattia aveva già imposto le sue leggi e i suoi ritmi senza lasciare troppi varchi aperti alla speranza, quindi non stupisce come in questa breve storia non ci sia spazio per indugi o digressioni, tutto è estremamente concentrato e denso, e anche le frequenti pause descrittive che avevano caratterizzato la Trilogia si riducono all’essenziale per far posto ai dialoghi, alla voce diretta dei personaggi che giunge senza filtri al lettore, liberata persino dalla gabbia grafica delle virgolette, perché non c’è più tempo per ciò che sta al di fuori dei contorni netti e ben delineati di vite ormai agli sgoccioli ma ancora in grado di sognare e di progettare.

Addie Moore e Louis Waters sono due vedovi riservati e discreti, settantenni come lo stesso Haruf mentre scrive la loro storia. Addie e Louis hanno accudito i loro rispettivi coniugi fino alla fine, hanno oltrepassato la soglia irta di insidie del lutto e hanno cresciuto i loro figli, ormai fisicamente lontani. Al cinema avranno i volti splendidamente invecchiati di Jane Fonda e Robert Redford nella trasposizione del 2017 di Ritesh Batra.

L’autore porge subito l’occasione narrativa, sorprendente e spiazzante, nell’incipit che immette in medias res senza alcun preambolo.

E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.

Intanto non è possibile non soffermarsi su quella coppia iniziale di congiunzione e avverbio che danno la sensazione di una storia che continua, di un desiderio di riannodare fili sospesi e di riaprire il discorso mai chiuso sull’emblematica Holt, ventre sensibile e moralista della piccola provincia americana. Allo stesso modo non può sfuggire la caratterizzazione del tempo, quel buio della sera che avrà tanta parte nel resto della narrazione.

Alla telefonata, dunque, seguono immediatamente l’incontro tra i due e la schietta richiesta di lei.

Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.

Jane Fonda e Robert Redford in ‘Our Souls At Night’

Ecco. In queste brevi frasi c’è già tutto il libro, che a sua volta è già tutto nel titolo: l’incontro di due anime sole che si faranno compagnia tenendosi per mano al fine di attraversare insieme il buio della notte, quella macchia d’inchiostro che si espande ingoiando apprensioni e paure, quelle ore immobili in cui le attese si fanno interminabili. Lentamente abbiamo il tempo di conoscere un uomo e una donna danneggiati dalla vita come tanti, ma non per questo finiti. Entrambi si rivelano l’una all’altro senza clamore, si raccontano un passato sul quale non possono più intervenire, i loro matrimoni sbagliati ma attraversati fino in fondo, ognuno con i propri dolori e con i propri rimpianti raccontati sottovoce, giusto per condividerli con chi saprà ascoltare senza giudicare e senza promettere amore eterno. Parole appese al nero della notte e gesti che diventano man mano rituali possono compiere il miracolo tutto terreno e laico di un nuovo sentimento che, nonostante gli immancabili pettegolezzi e le ovvie malignità, non si cura dei taglienti e beffardi sguardi altrui, perché tanto a quell’età ci si può permettere il lusso di non lasciarsi graffiare dalla maldicenza, tanto non c’è più nulla perdere, nulla da rivendicare. Possono perfino tentare il sesso con ironia, senza ansia di prestazione, perché comunque non è da quello che scaturisce la loro intesa.

Sembrerebbe semplice come bere un bicchier d’acqua, ma la percezione nei rispettivi figli di una condotta imbarazzante, scandalosa e grottesca non tarda ad attecchire con conseguenze ineludibili. Proprio quei figli che raccolgono i cocci della loro sostanziale incapacità di amare e che annaspano alla ricerca di coordinate stabili cui aggrapparsi.

Come sempre nei romanzi di Haruf, ad un certo punto irrompe un personaggio destabilizzante in situazioni che appaiono assestate o talvolta stagnanti per rimettere tutto in discussione, per ristabilire limiti e tracciare nuovi confini. Qui è il nipote di Addie, Jamie, un bambino di appena sei anni consegnato alla nonna dal padre in crisi matrimoniale, a rimettere in moto la tranquilla routine notturna dei due vedovi. Jamie è un bambino ferito che trova nel tenero affetto della nonna e nell’amicizia di Louis, conquistata con piccole complicità fatte di guantoni da softball, cappellini e una simpatica cagnetta da accudire, l’equilibrio di cui ha bisogno. E pian piano acquistano spessore personaggi che apparivano inizialmente marginali come la vecchia Ruth (quasi un’eco della vecchia signora Stearns di Canto della pianura per la sua scomparsa nel momento di massima espansione come personaggio) che accetta i convegni notturni tra i due vicini con naturalezza e che dalla coppia riceverà affettuose e dignitose esequie.

Si va avanti, insomma, e il piccolo Jamie sembra aggiungere linfa vitale al rapporto sempre più solido tra i due vicini di letto, finché il figlio di Addie non impone la fine di quello che ritiene un ambiguo e vergognoso legame nel quale intravede lo squallido tentativo di Louis di spillare soldi alla madre.

‘American Diner’ Painting by Angela Wakefield, 2014

Come andrà a finire non è importante, ciò che resta sono le piccole confidenze notturne, i dubbi e le paure sulla morte, il percorso a ritroso sulla vita trascorsa per rispolverare senza rancore le occasioni perdute (Louis avrebbe voluto fare il poeta, Addie l’insegnante) o per tornare su fatti cruciali (l’agonia della moglie di Louis, la morte della piccola Connie, primogenita di Addie) con una lucidità che in passato non sarebbe stata nemmeno proponibile.

Sotto certi aspetti sembra che Kent Haruf abbia scritto per tutta la vita lo stesso romanzo con diverse modulazioni. L’incanto dell’infanzia e il fascino della morte, la famiglia tradizionale che si sgretola e quella che si ricostituisce al di fuori delle convenzioni, la maldicenza e l’ipocrita perbenismo che infangano i sentimenti più puri sono alcuni dei leitmotiv più insistenti e certi personaggi cambiano nome e aspetto ma non funzione all’interno del “sistema romanzo”. Ne viene fuori un mondo solo apparentemente cristallizzato in cui far confluire l’attenzione ossessiva che l’autore riserva alla fase iniziale e a quella finale della vita. Racchiusa tra esse, una parentesi più o meno lunga di fatti, gioie, rimorsi, litigi, amicizie, amori, tradimenti, astio, passioni e la spina pungente di figli lontani, ribelli o morti. Una parentesi più o meno significativa e densa tra i grandiosi eventi del nascere e del morire.

Quella di Haruf è la scrittura fatta di cose e senza fronzoli tipica di tanta narrativa americana (stilisticamente sfugge un po’ a questa definizione Canto della pianura, che presenta un periodare più ampio e articolato per coerenza – come giustamente nota il traduttore Fabio Cremonesi – con le tematiche affrontate), sensazioni e riflessioni appartengono al lettore, perché l’autore non le formula, si affida semplicemente ai gesti, alle azioni, alle parole. Parole in genere scarne ed essenziali che in quest’ultimo romanzo invece si impongono, perché proprio nel dialogo tra i due protagonisti la scrittura trova il suo punto di forza.

Angela Wakefield, Through the Shattered Lens

Tutto questo non fa di Le nostre anime di notte un romanzo perfetto. In esso si avverte l’urgenza dell’autore di portarlo a termine, alcuni personaggi sono appena sbozzati e restano inconsistenti, come Holly, la figlia di Louis, la struttura è asimmetrica con capitoli ampi e distesi e altri accartocciati su se stessi come se l’autore avesse dovuto tornarvi su. E non è neanche lo scritto migliore. Tra tutti i suoi romanzi quello toccato dalla grazia è Benedizione, che infatti, per una scelta oculata dell’editore (sempre NN) è stato il primo ad essere pubblicato pur essendo l’ultimo della trilogia. In esso l’attesa della morte del vecchio Dad, accudito dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, non si trasforma in avida ricerca di soddisfare i desideri irrealizzati o in straziante attesa imposta ai familiari, ma nella volontà precisa di mettere a fuoco tutto ciò che è stato veramente importante, gli sbagli soprattutto, quelli che hanno impresso una direzione diversa al proprio agire. Come avviene nella realtà, chi sa di essere ormai vicino alla fine non modifica quasi per niente la propria vita, si mantengono per quanto possibile le abitudini di prima, il prima improvvisamente dolce e caro che presto si dovrà abbandonare.

Alla Trilogia della pianura Haruf regala una citazione, ironica e struggente insieme, in un brevissimo capitoletto in cui i due protagonisti, sfogliando il giornale, sono attratti da una notizia.

Hai visto che danno uno spettacolo tratto dall’ultimo di quei libri sulla contea di Holt? Quello con il vecchio che sta morendo e il predicatore.

Come hanno fatto i primi due, suppongo possano fare anche questo, disse Louis.

Gli altri li hai visti?

Li ho visti. Ma non riesco proprio ad immaginare due vecchi allevatori che accolgono in casa loro una ragazza incinta.

Può succedere, disse lei. La gente può fare cose imprevedibili.

Non so, disse Louis. Si è inventato tutto [……….]

Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe?

Non mi va di finire in un libro, rispose Louis.

Vanità o negazione di quanto stava frattanto facendo? Riportare l’essenza e il calore dei dialoghi notturni con la moglie? Scrivere il bello di quella relazione serena che lo stava accompagnando al capitolo conclusivo della propria vita?

Le nostre anime di notte è allora il più intimo, il più sentito, il più autentico tra i suoi scritti. Quando si realizza che la morte non è più un concetto astratto ma un evento concreto e vicino si diventa forse più sinceri.

https://www.scriptandbooks.it/2019/12/30/prima-che-faccia-buio-le-nostre-anime-di-notte-di-kent-haruf-nn-editore/

“Gli angeli nascosti di Luchino Visconti”

Il rispetto del lavoro. ‘Gli angeli nascosti di Luchino Visconti’ di Silvia Giulietti

@Agata Motta (09-10-2019)

Cinema. Saggistica breve.

Set ‘Vaghe stelle dellìOrsa’

Esce in sala in questi giorni, ma è stato realizzato nel 2007, il breve film documentario intitolato Gli angeli nascosti di Luchino Visconti che apre un varco insolito sulla figura di uno dei registi più raccontati, studiati, analizzati del panorama italiano e lo fa attraverso le voci dei suoi collaboratori invisibili, quelli che con il paziente e nobile lavoro squisitamente “tecnico” hanno contribuito alla sua grandezza. Alcuni erano entrati nell’universo cinematografico attraverso un canale privilegiato – Daniele Nannuzzi, direttore delle fotografia figlio del celebre Armando (cui l’opera è dedicata), Federico Del Zoppo, direttore della fotografia nipote del fondatore dell’A.I.C. e Lucio Trentini, organizzatore di produzione figlio del Direttore generale della Lux film – altri invece vi erano arrivati per caso, per giovanile intraprendenza e per tenacia come Nino Cristiani, operatore alla macchina da presa, Peppe Berardini, direttore della fotografia, e Mario Tursi, fotografo di scena cui si deve la concessione delle immagini d’archivio utilizzate per la realizzazione del documentario.

Gli angeli nascosti diventano però coprotagonisti in questo racconto per immagini, parole e musica strutturato come un libro, in capitoli che vanno dal primo incontro con il Maestro alla sua eredità morale. Incastrati tra l’inizio e la fine gli altri capitoli sul modo particolare di girare – fu il primo a girare con tre macchine da presa contemporaneamente, una in campo lungo e due con zoom sugli attori – sulle leggende metropolitane circolanti nell’ambiente, sul complicato rapporto con gli attori, sulla comunione d’intenti che riusciva a creare con la troupe attraverso una spiegazione puntuale e semplice su ciò che intendeva fare, sui piaceri della tavola, che voleva sempre ricca e affollata, sui regali sorprendenti e costosi che dovevano allietare il Natale dei collaboratori, sulla malattia alla quale si oppose con spirito pugnace, sull’ultimo incontro.

La regia e il montaggio di Silvia Giulietti sono semplici e puliti e proprio per questo assai efficaci. La Giulietti si concentra sull’essenziale, i ricordi personalissimi e diversi dei vari personaggi, ricordi scaturiti come risposte ad un’intervista immaginaria. Ogni angelo si racconta nel proprio rapporto privilegiato con Visconti attraverso il filtro della propria personalità e sensibilità e porge quindi “inquadrature sull’uomo” da angolazioni di volta in volta diverse: scanzonate, nostalgiche, tenere, commosse, ma sempre accompagnate dall’orgoglio per il lavoro svolto “per” e soprattutto “con” Visconti, sempre grati per quell’ampia e meravigliosa parentesi di vita durante la quale sono stati interlocutori privilegiati di un Maestro indiscusso e indimenticato. Si compone così un affresco originale, costruito con piccole tessere che creano un insieme sfaccettato dalle moltiplici e affascinanti sfumature, accompagnato dalle garbate e a tratti malinconiche musiche di Rocco De Rosa.

Il periodo di riferimento, quello che ha visto gli angeli attorno al Maestro non come attoniti discepoli ma come stretti e apprezzati sodali, si snoda grosso modo negli anni Sessanta e Settanta. Sono lontani i tempi del fermento ideologico che scuoteva con entusiasmi giovanili la redazione della rivista Cinema, il luogo maestro della formazione di Visconti e dei tanti intellettuali – Umberto Barbaro, Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis, Mario Alicata – che avrebbero contribuito a quella rivoluzione culturale all’insegna del realismo che segnerà in maniera indelebile il panorama postbellico. E sono lontane le polemiche legate al primo capolavoro, Ossessione, punto di approdo della sua ricerca personale e snodo ineludibile che porterà alla grande stagione del Neorealismo. Lontani nel tempo ma non nella poetica e nelle scelte estetiche del Visconti maturo che al suo cinema antropomorfico che vuol raccontare “gli uomini vivi nelle cose e non le cose per se stesse” e all’intenzione di mettere l’attore al centro del lavoro di regia non girerà mai le spalle, così come germoglieranno in modi sempre più sontuosi quell’attenzione agli aspetti figurativi e alle questioni tecniche cui era stato abituato tramite la collaborazione giornalistica gomito a gomito con intellettuali appartenenti a diversi settori artistici in quella fucina di idee condivise e di aspre diatribe che fu Cinema nella fase della direzione lontana e discreta di Vittorio Mussolini, quella rivista che verrà in seguito definita “cellula comunista nel cuore del potere” o più polemicamente come nucleo dei “redenti”. Senza dimenticare il prezioso impegno teatrale che di certo nutriva il cinema, in un rapporto osmotico, negli aspetti prettamente estetici e recitativi.

Il documentario, dunque, ci conduce con immagini belle e rare – montate in rapida successione con stacchi netti o in morbide dissolvenze o in progressivi affondi nel cuore delle foto – sui set di Bellissima, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Vaghe stelle dell’Orsa, Ludwig fino a L’innocente, l’ultimo film girato quando la malattia l’aveva già penosamente colpito. Vi incontriamo i volti di attori indimenticabili, ma soprattutto incontriamo lui, Luchino Visconti, l’uomo e il regista con le sue caratteristiche di umanità e magnanimità, con la sua intransigenza nei confronti di chi osava profanare il luogo sacro del set con voci scomposte o con abbigliamenti indecorosi, con la sua durezza, divenuta persino aneddotica, nei confronti del capriccioso divismo degli attori, con il suo gusto raffinatissimo per gli oggetti di uso personale e per gli elementi necessari all’allestimento del profilmico, per il quale esigeva che la produzione non badasse a spese, con la sua forza d’animo nei momenti durissimi della convalescenza, con il suo sguardo avido di perfezione che si posava su tutto e che tutto vedeva. L’uomo che Alberto Moravia aveva definito con un pizzico di malignità “cortese”, attribuendo all’aggettivo il doppio valore di uomo gentile e di uomo bisognoso di una corte, si rivela elegante e signorile, un uomo che ebbe nei confronti della sua “piccola corte” di collaboratori (e non di adulatori) un atteggiamento sicuramente esigente ma anche paritario, paterno e rispettoso. Ed è proprio sul senso di rispetto del lavoro di tutti che poggia una delle eredità morali più gradite e più solide lasciate ai suoi collaboratori da un artista che, attraverso il marchio incancellabile impresso in chi ama il cinema, ha potuto ambire all’unica immortalità concessa agli uomini.

Purtroppo oggi alcuni di questi angeli non sono più con noi (Peppe Berardini, Lucio Trentini e Mario Tursi) ed è particolarmente toccante guardarli parlare, sorridere, ricordare con la consapevolezza della loro assenza. Fa piacere comunque averli conosciuti, anche se soltanto per 54 minuti.

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GLI ANGELI NASCOSTI DI LUCHINO VISCONTI

In sala dal: 10 ottobre 2019

Documentario | Italia, 2007 | 54 min

Regia: Silvia Giulietti
Cast: Federico Del Zoppo, Daniele Nannuzzi, Giuseppe Berardini, Michele Cristiani, Lucio Trentin, Mario Tursi
Produzione: iFrame

 

“Effetto domino” di A. Rossetto

Le meduse metaforiche di Alessandro Rossetto. ‘Effetto domino’ alla 76. Mostra del Cinema di Venezia, sezione ‘Sconfini’

Cinema. Saggistica breve. Festival di Venezia

di Agata Motta 04-09-2019

Bastano poche battute e immagini asciutte a suggerire ciò che sarà l’essenza della storia da raccontare, a scolpire i personaggi che metteranno in moto la catastrofe annunciata di Effetto domino, audace film diretto con rara efficacia da Alessandro Rossetto, prodotto da Jolefilm e Rai Cinema e presentato nella sezione “Sconfini” al Festival di Venezia. Eccole lì le due pedine intente a riprendersi un ruolo da solide torri, o magari di più, sulla scacchiera dell’imprenditoria locale, eccole nella loro quotidiana normalità: la solitudine e la fatica di portare in giro se stesso hanno fatto diventare remissivo il geometra Gianni Colombo (Mirko Artuso) che si accende solo quando può sognare un nuovo sogno, quello di far nascere le cose creandole dal niente; l’impresario edile Franco Rampazzo (Diego Ribon) ritrova se stesso, il suo nulla personale fatto di ricordi e pensieri, girando in macchina, perdendosi tra strade deserte prima di rientrare nell’universo borghese tirato su con le sue grandi mani da ex muratore.

Come in Piccola Patria, primo lungometraggio di Rossetto, l’ambientazione è ancora quella del nord est italiano, realtà territoriale attraversata per decenni da un’inebriante crescita che invece adesso si è convertita in crisi economica lasciando dietro sé una scia di fallimenti, disperazione e morte. Ma se nel primo film il bisogno di far soldi era funzionale al desiderio di fuga, qui prevale la voglia di restare per costruire un sogno che dovrebbe produrre profitti faraonici, un sogno intriso di cinismo – vendere il Paradiso a vecchi facoltosi provenienti da ogni parte del mondo – ma ancora solidamente ancorato ad una terra che non si vuole abbandonare e che si vuole fecondare di iniziative di respiro internazionale. Anche l’albergo torna come luogo privilegiato d’osservazione, ma non più come luogo del lavoro duro senza prospettive di riscatto, quanto di miraggio di benessere e di cura dalla malattia terminale che si chiama vecchiaia. La cronaca supporta la sete di verità di un documentarista come Rossetto e la materia offerta dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro, da cui la sceneggiatura è liberamente tratta, è troppo ghiotta per non approfittarne e renderla funzionale al proprio lavoro di indagine già avviato. Il film analizza dunque la particolare congiuntura economica attraversata da una parte un tempo opulenta dello Stivale e mette in luce le sue nefaste ripercussioni sulle famiglie di chi si è gettato a capofitto nell’affare per ingordigia certamente ma anche con la speranza accesa della ripartenza e della riscossa dopo il lungo stallo.

Ma è bene ritornare alle nostre ambiziose pedine – il geometra sognatore e l’imprenditore lavoratore – per inoltrarci nell’intricato gioco di interessi che si configurerà pian piano come la concretizzazione di uno spietato “mors tua vita mea”. Colombo e Rampazzo vogliono guadagnare molto e subito ma lavorando ad un progetto con una sua filosofia: rendere gli ultimi anni di vita i migliori che ci si possa aspettare di trascorrere in vecchiaia trasformando vecchi alberghi in disuso messi all’asta in residenze invidiabili e accessoriare come hotel a cinque stelle. L’idea in fondo, suggerita dai dati oggettivamente riscontrabili del progressivo invecchiamento dell’Occidente che raggiungerà proporzioni a dir poco preoccupanti fra pochi decenni, riesce ad essere elementare e geniale allo stesso tempo e punta quindi sul “business della vecchiaia”. Per dare spessore e fondatezza a questo sogno i due amici e collaboratori parlano con alcuni anziani posteggiati nelle case di cura in attesa del loro fisiologico epilogo, ne saggiano gli umori e le aspettative restandone forse un po’ spiazzati, perché la massima aspirazione di un vecchio sembrerebbe la salute più che il lusso, ma, come giustamente comprende la moglie di Rampazzo, l’entusiasmo poggia soprattutto su un’altra filosofia decisamente più pragmatica, quella di ricominciare a costruire. In particolare Rampazzo, venuto dal nulla e dal duro lavoro, come la maggior parte dei costruttori e dei fornitori che pian piano saranno coinvolti nel progetto, si aspetta anche di continuare a lavorare non più per mantenere la serenità economica che ha ottenuto per sé e per la propria famiglia ma per puntare sempre più in alto, per vivere da protagonista il lusso.

Qualcosa però va storto, l’ingranaggio messo in moto con investimenti da capogiro si inceppa quasi subito. Non è bastato sapersi muovere con disinvoltura nei meccanismi già collaudati della piccola corruzione negli uffici comunali né essersi affidati ai mutevoli interessi della banca finanziatrice rappresentata da una donna (Lucia Mascino) che accetta la gestione del potere e la sconfitta come facce indissolubili di una realtà economica in continua trasformazione. Forse tutto deve andare storto e ci sarà spazio per l’inserimento di un banchiere mediatore (Marco Paolini) che guarda all’estremo oriente, da cui promana la seduzione di un altro sogno folle e meraviglioso, e spazio per il giovane e scaltro imprenditore Fabris (Stefano Scandaletti) che invece la fortuna in cui è immerso (letteralmente perché la sua abitazione è una casa/acquario) l’ha ereditata da un padre che ancora conservava un’etica lavorativa.

Per quanto scontato possa apparire il concetto, il Dio Denaro si è sostituito al Dio del regno dei cieli e non è certo casuale la reiterata presenza dei crocifissi: nelle prime inquadrature Colombo li stacca sistematicamente dalle pareti di vuote stanze disabitate; poi ritroviamo una grande croce lignea nella sua beata pienezza nel catino absidale della moderna chiesa vissuta dai due amici come rifugio assolutorio; infine un piccolo mucchietto di crocifissi viene scagliato dalle mani rabbiose di Rampazzo a siglare il tradimento dell’amico divenuto un Giuda che si limita a piangere ed accettare sputi di disprezzo invece di impiccarsi con i suoi sporchi denari. La Chiesa, ente privilegiato per certificare attraverso un suo umile servitore (Vitaliano Trevisan) la paura della morte e la conseguente necessità di esorcizzarla non è in grado di competere con chi la vita eterna sembra possa concederla su questa Terra.

Una volta innescato, l’effetto domino trascina tutti verso l’inesorabile caduta in un crescendo di rivendicazioni e di agonie. Ed è proprio questo che interessa al regista, come possano ridursi gli uomini in questi frangenti e come possano sopravvivere, se sopravviveranno, alla catastrofe. Chi ha una famiglia cederà prima alla vergogna o resisterà meglio e, in quest’ultima direzione, un ruolo delicato e particolare trovano la moglie (Nicoletta Maragno) e le figlie (Maria Roveran e Roberta Da Soller) di Rampazzo, rancorose e avvilite, comunque vicine e disposte a tutto. Dalla lotta all’ultimo sangue allo sciacallaggio, dal suicidio all’umiliazione, Rossetto mostra i tanti volti della disperazione e della sopraffazione e lo fa in maniera nervosa, per frammenti, senza scavare, con allusioni, piccoli gesti da interpretare, espressioni del volto, dialoghi stringati, crea effetti suggestivi con movimenti complessi, vari e fortemente motivati dal dettato testuale come nelle intriganti e bellissime scene in cui sembra quasi che siano i luoghi a guardare le persone con una sensibilità maggiore dell’ottusa spinta al denaro di chi profana il silenzio e i resti di ambienti fatiscenti un tempo pulsanti di vita. Il dinamismo della macchina da presa si lega, a volte per contrasto altre in pieno accordo, alla “manipolazione del movimento” come nelle sequenze intensissime delle demolizioni in ralenti accompagnate dalla straniante e magnifica sottolineatura musicale di Vivaldi. Proprio la scelta musicale, che concede spazi anche a sonorità contemporanee (Lily Allen e ancora Maria Roveran) perfettamente calzanti, e il montaggio di Romolo Quadri, tecnicamente accuratissimo e a tratti giustamente irritante come irritante è il processo di caduta irreversibile delle tante tessere di questa partita troppo difficile per piccoli squali di provincia, concedono al lavoro un vero e proprio valore aggiunto.

Tutti gli attori di Piccola patria si ritrovano insieme come una squadra già allenata e quindi affiatata, recitano per lo più in dialetto veneto e lavorano assecondando l’esigenza di un “mantenimento in superficie” nutrito dall’azione, perché gli scavi psicologici non sono richiesti dalla struttura narrativa e non potrebbero scaturire da una sceneggiatura che opera per sottrazione nell’ordito verbale. Le immagini devono significare più delle parole in questa vicenda di azzardi, sbagli, illusioni e responsabilità individuali e collettive, ma con un’abile manovra in fase di scrittura, quelle parole centellinate ai personaggi sono restituite dalla voce fuori campo di un narratore eterodiegetico (Paolo Pierobon) che commenta con lucidità e porge con siderale indifferenza passaggi di filosofia esistenziale che illuminano le zone oscure dei protagonisti e le logiche occulte degli spietati affaristi orientali che sostituiranno il sogno in fondo ruspante della vecchiaia felice nell’utopia sofisticata della vecchiaia eterna in grado di sfidare la morte.

La medusa, trasparente, flessuosa, elegante, in grado di autorigenerarsi sarà il simbolo oggettuale e metaforico della nuova operazione, il marchio di una nuova inquietante frontiera che appartiene all’uomo sin dalla notte dei tempi: il desiderio di immortalità.

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Amarcord Cuba: Gregorio Fuentes e l’americano buono

Saggistica breve. Letteratura

Amarcord Cuba: Gregorio Fuentes e l’americano buono

di Agata Motta, agosto 1997 – agosto 2019

Gregorio Fuentes

“Su di lui non è come crede la gente”. Il “lui” in questione è Ernest Hemingway e a pronunciare più volte queste parole è un vecchio dagli occhi azzurri e opachi che sembra aver conosciuto tutto della vita: le insidie e le gioie, le sconfitte e le vittorie.

Gregorio Fuentes, il mitico comandante del Pilar, la barca sulla quale Hemingway si allontanava per giorni per condurre le sue battute di pesca, ha un secolo di immagini e di ricordi in quegli occhi stanchi, ha compiuto cento anni lo scorso giugno e ci tiene a precisare, alzando l’indice della mano destra, che cammina già nei centouno con l’orgoglio che contraddistingue chi indossa con disinvoltura una sana longevità. Don Gregorio vive ormai a Cojimar, il piccolo borgo di pescatori dove Hemingway teneva ormeggiato il suo Pilar. Gregorio Fuentes ha viaggiato con “l’americano buono” dall’inizio della seconda guerra mondiale al 1960, un anno prima del suicidio dello scrittore. Don Gregorio precisa di non avergli insegnato niente sulle attività marittime; Hemingway era già un ottimo pescatore, ma a riemergere con insistenza tra le parole del vecchio sono, più che i piccoli episodi di vita in comune, i ricordi grati di un’amicizia sincera, fatta di complicità e comprensione.

Per chiunque voglia curiosare nella lunghissima parentesi cubana (più di vent’anni) del Nobel americano è d’obbligo una visita a Finca la Vigìa, la bellissima villa adagiata sulla collina di San Francisco di Paula a 15 chilometri da L’Avana che venne acquistata dallo scrittore nel 1940 e che fu abitata fino all’anno della definitiva partenza per gli Stati Uniti. Nella villa il tempo sembra essersi fermato, tutto è conservato esattamente come nel giorno in cui è stata lasciata: le numerosissime librerie che arredano le pareti bianche, gli enormi trofei di caccia, le delicate porcellane, la macchina da scrivere posta in alto per consentire allo scrittore di utilizzarla all’impiedi, senza piegare il ginocchio ferito durante la guerra. Accanto alla grande piscina quadrata fa bella mostra di sé l’elegante Pilar e la custode, mostrandolo con compiacimento, ci tiene a spettegolare sulle singolari abitudini di quell’americano dalla corporatura massiccia, come quella di bere moltissimo – almeno sedici mojitos (cocktail a base di rum, limone e foglie di menta) e di sollazzarsi con molte donne senza troppo pudore, tanto da ospitare nella dépendance della villa, sotto gli occhi della seconda moglie, una giovanissima amante italiana.

E proprio a queste voci fa riferimento Don Gregorio quando ripete ostinato che “non è come crede la gente”, definisce storielle queste dicerie e precisa che il señor Hemingway beveva solo due whisky al giorno, che era un uomo molto serio legato alla moglie e che scriveva per ore mentre lui guidava la nave. E’ vero, ospitava molta gente sul Pilar, ma soltanto amici.

Quale sia la verità non è dato saperlo, potrebbero anche essere aspetti contraddittori di una stessa personalità, ma sarebbe molto bello credere a quest’uomo che vive nel costante ricordo dell’amico che ha reso celebre anche lui, sebbene di riflesso.

Tutto Cojimar sembra crogiolarsi nel ricordo imbalsamato dell’americano buono in quei decenni in cui il bloqueo, l’embargo, ha raggelato i rapporti tra cubani e yankees, rendendolo difficile e ambiguo, in questa fase storica in cui la rivoluzione di Fidel Castro ha progressivamente esacerbato uno scontro reso indispensabile, almeno secondo quanto sostenuto dai fedelissimi del regime (ormai pochi per la verità) tra cui si colloca lo stesso Fuentes, che apprezza l’opera di Fidel anche nel recente provvedimento della doppia economia monetaria, quella dei pesos e dei dollari.

A Cojimar, dunque, un bianco busto di Hemingway, coperto da un’ariosa architettura circolare, campeggia in una piazzetta vicino alla grande torre ed entrando nel ristorante La Terrazza tutto parla di lui, dalle gigantografie appese alle pareti ai dépliant turistici. Sicuramente Fuentes ha contribuito con le sue testimonianze alla costruzione del mito. Era generoso – dice il vecchio comandante che ha ereditato la barca per poi cederla al governo cubano – sempre pronto a dare qualcosa ai bisognosi, sempre pronto a trattare con tutti senza erigere barriere sociali o culturali, anzi era un americano che riteneva i negri esseri umani – e nella voce c’è quasi stupore pur essendo, da buon cubano d’adozione (è nato nelle Canarie), completamente estraneo al problema razziale. Tace e tira un’altra lunga boccata dal suo suo sigaro popular e dice di fumarne persino dieci al giorno, naturalmente quando può, cioè quando qualcuno glieli regala, poi serio rievoca i porti da lui toccati e precisa di essere stato più volte in Italia e di avere apprezzato la bellezza delle donne.

Non fu Gregorio Fuentes, come qualcuno erroneamente sostiene, ad ispirare il romanzo breve Il vecchio e il mare di Hemingway, ma guardando il volto rugoso e rassegnato, le dita che si posano lievi sul sigaro, lo sguardo profondo dell’uomo di mare, non si può fare a meno di restare vittime di questa suggestione. Il vecchio Santiago, protagonista del romanzo, che dopo 84 giorni di pesca sfortunata riesce a catturare la sua enorme preda, poi pian piano divorata dagli squali, il vecchio che lotta per dimostrare a se stesso di essere vivo, si riflette in Don Gregorio come l’immagine di uno specchio. E non importa più sapere che quel vecchio, quello del romanzo, in realtà fu incontrato in alto mare da entrambi, lo scrittore il capitano, in compagnia di un ragazzino e alle prese con un pesce troppo grande, non importa sapere che quel vecchio mandò al diavolo i due uomini che gli offrivano aiuto prima di diventare una piccola macchia di colore inghiottita dall’orizzonte.

Don Gregorio è il vecchio, Cojimar è il mare. L’americano buono vivrà ancora tra le pieghe di un volto secolare e tra rocce chiare battute da flutti eternamente turchini.

Nota agosto 2019

Non tornerò mai più a Cuba, questa è una certezza. Ho avuto la fortuna di visitarla al di fuori degli intruppamenti da villaggio turistico nella fase di trapasso dal granitico sistema economico-politico comunista a quella di apertura verso le lusinghe del capitalismo occidentale.

Dai racconti dei turisti del post Fidel capisco che quella Cuba non esiste più.

Don Gregorio Fuentes è morto a 104 anni e si è portato dietro la magia dell’americano buono e quell’atmosfera sospesa tra tradizione e fame di novità, quegli sguardi disorientati e annaspanti tra ammirazione e invidia, riprovazione e sufficienza che appartenevano a giovani e ad adulti. I bruschi acquazzoni che rovesciavano in pochi minuti tutta la rabbia di Giove pluvio e il profumo sprigionato dal mango maturo offerto come dono di ringraziamento dalle contadine per un passaggio in macchina magari ci saranno ancora, ma non più sotto lo sguardo fiero degli anziani seduti sulla soglia a riposare o dei bambini chiassosi che si attaccavano ai turisti per imparare la lingua e per procacciare, sin dalle prime ore del mattino, langostinos y camarones per il pranzo o per la cena nelle case particular, abitazioni private che si improvvisavano luoghi di ristorazione per rimpolpare le finanze domestiche.

Adesso abbondano i ristoranti e i pub, luoghi in cui il turista può riconoscere i propri luoghi e non soffrire di nostalgia. Forse saranno reperti museali le case de la trova, splendidi patii o cortili aperti ricchi di vegetazione in cui i musicisti si esibivano con pezzi di repertorio già noti – Hasta siempre comandante! Besame mucho e Guantanamera – o che lo sarebbero diventati grazie ad interpreti eccezionali quali Compay Segundo e Omara Portuondo. E si finiva per sentire il solletico sotto i piedi, bisognava alzarsi, lasciare il mojito o il Cuba libre sul tavolino e ballare, perché in quella Cuba si ballava ovunque, anche per strada e pure i vecchi mantenevano un tale eccesso di sensualità felina nelle movenze che quasi si provava vergogna a pensarlo.

Adesso proliferano discoteche e luoghi in cui le ragazze si agitano sui cubi spogliandosi per la gioia degli occhi di chi le guarda con l’ovvia appendice del sesso venduto e retribuito, magari preferibilmente in dollari. Certo, le ragazze (anche ragazzi, per la verità) che ambivano ai jeans e ad una cena pagata in cambio di una gioiosa compagnia c’erano anche nel ’97 ma chissà perché – forse perché tutto era stemperato e diluito in altri elementi pseudoromantici – si creava l’illusione che fosse meno squallido e triste.

Adesso la piazza di L’Avana è prodiga di locali in cui bere e mangiare, di ombrelloni aperti sui tavoli a porgere confortevole ombra ai turisti di turno. Nulla di strano o di diverso rispetto a tanti altri posti del mondo.

Tra i valori del comunismo ostinatamente mantenuto – quello che garantiva cultura e sanità a tutti ma negava il lusso e la globalizzazione alla maggior parte – e la brama di apertura al capitalismo visto come modello da desiderare, poteva capitare di salire a bordo di vecchie automobili americane con improvvisati tassisti e di scorgere sul cruscotto uno stetoscopio arrotolato. “Non basta lo stipendio – mi aveva spiegato l’uomo al volante quasi mortificato – così arrotondiamo… lo facciamo in tanti”. Ma succedeva spesso, molto spesso, di parlare anche con giovani i cui occhi si accendevano ancora di entusiasmo per il Che, un volto bellissimo sui muri e sulle magliette sinonimo di lotta e libertà e di scorgere negli occhi dei più vecchi un’assorta adorazione per il vecchio Fidel e una pena a stento trattenuta per il lento rotolare sulla china della morte imminente dell’esperienza totalizzante e fideistica della revolution.

Non so fino a che punto Raul sia stato capace di raccogliere quell’eredità scomoda, non so quanto sia saggio che il rubicondo Trump riesumi l’embargo ed impedisca alle navi da crociera che salpano dalle coste americane di attraccare su quelle cubane.

Mi auguro che anche adesso gli uomini giochino ancora a domino sulle sedie impagliate del centro di Santiago, che i ragazzini tirino calci a palloni di fortuna sul campo sterrato di Baracoa, che le giovani donne si pettinino davanti la soglia di casa nel cuore di Holguin, che qualcuno cucini pesce sierra alla griglia nelle baracche di Cayo Granma e altri propongano aragoste a buon mercato da consumare nel tinello della propria casa, che giovani snelli scalino il fusto di una palma per raccogliere cocco da cui estrarre il latte da vendere sulla spiaggia.

Puro sentimentalismo, condivido, ma Cuba voglio conservarla così: il sigaro di Don Gregorio, il mare azzurrissimo, le zanzare assassine di certe spiagge meravigliose, il succo giallastro del mango che cola tra le dita, le variopinte casette coloniali, i murales con il volto di Che Guevara, la voglia di vita che esplode tra le crepe di palazzi fatiscenti, i teatri frequentati da chiunque, i giornali sgualciti perché letti, il profumo dolciastro delle maripose, pelli scure e pelli chiare mescolate sui camion dai cassoni aperti adibiti a trasporto pubblico strabordanti di gente disposta a pestarsi i piedi con un sorriso pur di tirarti a bordo.

Fotogrammi di un tempo che fu.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/08/01/amarcord-cuba-gregorio-fuentes-e-lamericano-buono/

“Tesnota” di K. Balagov

Saggistica breve. Cinema

Prigionie reali e narrative di una famiglia. ‘Tesnota’ di Kantemir Balagov, al cinema dal 1° agosto

 di Agata Motta 28-07-2019

Kantemir Balagov, giovane regista russo del Caucaso del Nord, studi di Economia e Legge messi da parte per inseguire prima la passione per la fotografia e poi quella per il cinema, con Tesnota (premiato a Cannes nel 2017 con il premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard e, l’anno successivo, al Festival Premiers Plans d’Angers) è al suo primo lungometraggio, ma dimostra già di avere idee chiare in fatto di stile. Formatosi presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – Leone d’oro a Venezia, nel 2010, per Faust ma già noto per la Trilogia sul potere – Balagov racconta la storia (sceneggiatura scritta a quattro mani con Anton Yarush), in gran parte vera perché ispirata ad un fatto di cronaca, del rapimento di una giovanissima coppia di fidanzati prossimi alle nozze e dei risvolti affettivi ed emotivi prodotti sulle famiglie, e solo marginalmente sui rapiti, chiamate a pagare un riscatto proibitivo per le reali condizioni economiche delle classi sociali di appartenenza.

Tempo e luogo sono immediatamente dichiarati nelle didascalie iniziali – 1998, Nalchik, Caucaso del Nord, Russia – per consentire la corretta contestualizzazione di una vicenda che riprende il filo mai interrotto della diaspora ebraica e della convivenza di etnie, lingue e religioni diverse su territori ambiguamente stretti tra un passato di sottomissione e un presente di autonomia e pericolosamente vicini alle aree interessate dai conflitti ceceni. Le famiglie in questione appartengono alla comunità ebraica che predilige una condivisione collettiva di ciò che accade ai propri membri e uno spirito di appartenenza tanto forte da apparire all’esterno esclusivo e fatalmente chiuso e iperprotettivo. Emerge subito con evidenza la decisione di non coinvolgere la polizia, decisione non condivisa da Ilana, sorella maggiore del rapito David e vera protagonista del film, e di procedere con una raccolta di denaro volta al raggiungimento della somma richiesta. Naturalmente l’adesione alla proposta del rabbino non è unanime, in pochi sono disposti a mettere mano alla scarsella e i soldi raccolti bastano a soddisfare metà della richiesta, per cui si effettua la scelta difficile di liberare intanto la ragazza, che non ha alle spalle una famiglia allargata in grado di sostenerla. Cos’altro bisognerà fare per ottenere la salvezza di entrambi? E cosa invece non si è disposti a fare?

Eccoci dunque al nucleo sul quale l’autore ha scelto di scavare non tanto con lo strumento immediato delle parole, distillate ed essenziali, ma con quello più sofisticato e paradossalmente più semplice dell’uso degli strumenti tecnici a sua disposizione. Ognuno soffre a suo modo, questa verità è esposta con efficacia nelle scarne battute dei dialoghi e soprattutto nei volti, sui quali i primissimi piani indugiano alla ricerca delle minime variazioni espressive: dalle emozioni rabbiose ma mai urlate di Ileana – una sorprendente Darya Zhovner che si rivela giusta, spontanea e a tratti magnetica nella caparbia determinazione, purtroppo fallimentare, a non lasciarsi sopraffare e distruggere dalle circostanze – a quelle compresse ma non domate superbamente restituite da Olga Dragunova, mater dolorosa che impone al marito e alla figlia il prezzo altissimo del suo amore per David.

I personaggi sono chiusi in una trappola che sembra senza uscita, braccati dalla macchina da presa che li costringe in “inquadrature limite” – accentuate dalla definizione del quadro in rapporto 4:3 (1,33) – dentro le quali non rientrano interamente, dai cui margini debordano, come se l’evasione dalla prigionia narrativa comportasse di conseguenza l’uscita dalla porzione di spazio rappresentato. Se si escludono gli indugi sugli esterni desolati e bui, esposti agli occhi dello spettatore attraverso il mix delle luci dei lampioni e di quelle del fascio dei fari della macchina, il ricorso frequente agli stacchi, magari per semplici cambi di angolazioni, e quello raro al récadrage limitano i movimenti della macchina da presa, mentre la concessione ad un tempo di lettura delle immagini più lungo, quasi a voler rallentare anche il ritmo della narrazione, consente la possibilità di un tempo di riflessione che non produce empatia ma distacco oggettivo. Nella gestione personale del montaggio, che talvolta trasmette il nervosismo e le lacerazioni di Ilana e altre la lentezza esasperante delle azioni che devono essere compiute, Balagov può definire e sigillare le proprie scelte stilistiche per le quali si dichiara debitore alla Nouvelle Vague e al cinema russo del disgelo, almeno per ciò che concerne stimoli e sollecitazioni.

Nella disperata ricerca di una soluzione, c’è chi approfitta della situazione per compiere un’azione di sciacallaggio ed acquistare a prezzo stracciato l’officina che dà lavoro e sostentamento alla famiglia del ragazzo e che si configura come luogo di realizzazione professionale e umana per Ilana, che vi coltiva la passione per i motori e la fiduciosa vicinanza con il padre. In questa della vendita, che si porge come una delle scene chiave, si conferma la capacità del regista di usare le luci come vero e proprio vettore di senso: gli occhi in ombra ed il resto del viso rischiarato dalla luce spiovente dell’abat-jour. Questo tipo di illuminazione, che crea effetti di chiaroscuro giocato sulle contrapposizioni, è già presente sin dalle prime sequenze, diviene cifra stilistica e contribuisce ad accentuare la drammaticità delle decisioni che i personaggi sono chiamati di volta in volta a prendere.

Il rapporto di Ilana con i membri della sua famiglia è sviscerato attraverso dense sequenze, da quello con la madre, raffreddato dalla rigidità e dall’intransigenza materna e soprattutto dallo squilibrio affettivo per il figlio minore, a quello con il padre tenero e comprensivo (Artem Tsypin, perfetto nel difficile ruolo di un uomo che, pur amando entrambi i figli, sente di dover assecondare la volontà della moglie che in qualche modo si trasforma in legge morale), da quello con il fratello (Veniamin Kats, attore non professionista che punta sugli aspetti più infantili del suo personaggio) posto immediatamente sul piano di una complicità che si esplica nella condivisione di piccole trasgressioni e intime confidenze, a quello con Zelim (un Nazir Zhukov un po’ opaco rispetto agli altri interpreti ) nel ruolo di un ragazzo cabardo lontano dalle esaltazioni politiche di alcuni dei suoi amici e diffidente nei confronti dell’estremismo musulmano, mostrato in un lungo e atroce frammento di documentario, girato in un villaggio del Daghestan, davvero indigesto e difficile da reggere. Il personaggio di Zelim appare quindi più funzionale alla comprensione complessiva della storia che necessario, sia perché porterà la ragazza a rifiutare un matrimonio combinato e risolutivo sul piano della somma da consegnare ai sequestratori, sia per ciò che significa la possibilità di sfuggire alle convenzioni e ai dettami morali in quel lembo di terra in cui, a detta dello stesso regista, ad accomunare ebrei e cabardi sono il senso dell’onore e il rispetto delle tradizioni.

La luce quasi suggerita nel film, come suggerite appaiono le voci in presa diretta, vira velocemente verso cromatismi accentuati di impronta pittorica nelle scene finali, girate in esterno e impregnate in successione del verde e del giallo filtrato dai finestrini dell’automobile e dell’azzurro implacabile del cielo che domina assorto sulle periferie di Nalchik e sulle aguzze cime caucasiche mostrate attraverso una soggettiva corale in coincidenza con lo sguardo degli esuli.

La nuova diaspora conduce via il nucleo familiare monco di una parte essenziale, David, il figlio amato che sceglie di restare con la futura moglie. Non può esserci futuro per chi ha infranto i codici d’onore. Il sangue della verginità di Ilana, ceduta al ragazzo amato nella luce rossastra di un magazzino senza alcuna poesia e trasporto, tributo necessario alla negazione di un matrimonio imposto, ha precluso la possibilità di un nuovo inizio nella stessa terra. Allora si va via, come sono andati via i padri e i padri dei padri, ma Ilana, la forte, la ribelle, non accetterà il ruolo di vittima sacrificale e neanche quello di sostituta nell’affetto materno e una nuova, stanca pietà sembra affacciarsi nel suo cuore, perché infine anche lei, come la madre, ha perso l’oggetto del suo amore.

Tesnota (Closeness in inglese o Vicinanza in italiano) uscirà in l’Italia il primo agosto, cioè nella fase culminante delle ferie estive, mentre Cannes ha già salutato con favore il secondo lungometraggio di Balagov, Beanpole, tributandogli il premio per la regia nella sezione Un certain regard.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/29/prigionie-reali-e-narrative-di-una-famiglia-tesnota-di-kantemir-balagov-al-cinema-dal-1-agosto/

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L’età straniera di M. Mander

Saggistica breve. Letteratura

Leo e la scimmietta Iwarazu. ‘L’età straniera’ di Marina Mander, Marsilio editore

di Agata Motta 22-07-2019

Vivere in una famiglia di larghe vedute non è semplice, pensa il diciassettenne Leo, “perché a forza di guardare più in là, è diventato sempre più difficile guardarsi negli occhi”. Forse quando le vedute erano ristrette e gli orizzonti più limitati era molto più semplice capire da che parte stare, il bene e il male erano poli contrapposti dai confini ben definiti, si poteva entrare in una o nell’altra delle due dimensioni dell’esistere, si dovevano soltanto compiere delle scelte, soprattutto nell’età ibrida, indigesta, spregevole dell’adolescenza, quando la direzione da imboccare non è ben segnalata e tocca giorno per giorno costruire un pezzetto di futuro, un mattoncino dopo l’altro. L’adolescenza è insomma l’età che appare fulgida e incorrotta a posteriori, quando si è costretti ad indossare il tempo trascorso con finta nonchalance.

Marina Mander con il suo L’età straniera, romanzo della dozzina finalista allo Strega pubblicato da Marsilio, entra a gamba tesa nella pelle, nei pensieri e nel linguaggio di un adolescente che vive la propria età con indolenza, ironia, lucida consapevolezza e cupi sensi di colpa, quest’ultimi affioranti nottetempo, nel tribunale speciale di un SuperIo iperattivo che gli attribuisce la colpa di delitti mai commessi e di nefandezze forse accarezzate attraverso desideri inesprimibili. La famiglia di larghe vedute di Leo, in realtà, è una famiglia ferita dal suicidio di un padre dall’intelligenza speciale, dai pensieri tanto densi da essere rumorosi, dal disagio tanto forte da non farsi bastare moglie e figlio, dall’adattamento così limitato alla “pretesa di medietà” imposta dai sani e dai normali da andare incontro all’abbraccio dolce e mortifero del mare senza dubbi ed esitazioni. A Leo resta in eredità la sensazione di non averlo salvato, di essersi riaddormentato proprio mentre il padre moriva, il sonno giusto del bambino sereno contro il sonno eterno dell’uomo che non poteva concepire altre razionalità diverse da quelle numeriche.

Alla madre invece restano addosso un’inesausta voglia di vita e il desiderio a tratti anomalo e quasi patologico di salvare vite spezzate, per lavoro – è un’assistente sociale – e soprattutto per vocazione. Un robusto tassista si è frattanto infilato nel suo letto, non tenta nemmeno di sostituire un padre inarrivabile, gli basta quella donna così com’è, con i suoi entusiasmi e le sue certezze e le sue ampie vedute. Lo sguardo attento e sensibilissimo nei confronti dei reietti e dei disperati diventa però superficiale e sfocato nei confronti del figlio, al quale nemmeno chiede il permesso, quando decide di portarsi a casa Florin, un giovane rumeno costretto a prostituirsi che rifiuta palesemente di imparare l’italiano, forse perché le parole necessarie alla comunicazione gli restituiscono sotto il palato il sapore del tradimento, della disillusione, dell’inutilità di instaurare relazioni che prima o poi potrebbero rivelarsi frustrasti o peggio devastanti. Tanto, se proprio si vuole comprendere chi ci sta accanto, le parole non servono, bastano i gesti che siglano un’intesa, le intuizioni che confermano la disposizione all’ascolto.

Leo e Florin, per volontà materna, dovranno condividere stanza, pasti, tempo libero. Un tentativo di porgere la normalità al giovane rumeno che ovviamente non può giungere da chi dentro quella normalità proprio non si riconosce. L’unico punto di contatto che può esistere tra i due ragazzi è il loro essere entrambi “stranieri” al mondo circostante, quello corrotto e violento di Florin – attraversato però ad intermittenza da amicizie consolidate con altri reietti – e quello stagnante e privo degli stimoli giusti – prodotti solo dalle incessanti letture e dalla quiete delle canne talvolta fumate – di Leo. Per il resto sembrerebbe che i due ragazzi siano isole vaganti su mari lontanissimi, senza ponti o mezzi di trasporto atti a collegare vissuti troppo diversi, ma al momento opportuno scatteranno i meccanismi di solidarietà, la difesa dell’altro verrà reciprocamente esercitata nei modi che ciascuno conosce, con i mezzi di cui ciascuno dispone.

La trama è tutta qui, un vagare tra pensieri, che manifestano una sensibilità esasperata, azioni minimali e parole taciute o “atterrate in un paese sconosciuto e ostile”. L’alessitimia (incapacità di trovare parole per le emozioni) che viene incollata addosso a Leo come etichetta multiuso dai tanti terapeuti presso i quali la madre lo indirizza – in ciò solerte perché l’affidamento del figlio ad esperti le mette a posto la coscienza – si esprime proprio così, con silenzi e parole negate. La galleria degli psico-soloni – tratteggiata con quell’umorismo al vetriolo che riavvicina il lettore a certi stilemi dissacranti di Ipocondria fantastica – è gustosamente pettegola e irriverente: si passa dalla dottoressa “culona” che propina fantasie guidate, silenziosi abbracci, tentativi di rappresentazione dello scenario inconscio ed esortazioni a sane scopate alla terapia di gruppo da iniziare rigorosamente con il grido di battaglia Navajo per vocalizzare l’aggressività e da proseguire magari con un bel pianto liberatorio. E poi ancora, in rapida successione, gli psicodrammi in compagnia di manipoli di invasati che “non vedevano l’ora di buttarsi a terra in posizione fetale e con il pollice in bocca” e la proposta del buon vecchio Prozac, due pastigliette per l’acquisto della felicità a buon mercato. Ma qui la madre torna ad indossare la mise delle occasioni, quella di madre presente e assennata e decreta che di impasticcarsi proprio non si deve neanche parlare e che è meglio farsi due canne se proprio è necessario, rivelandosi in ciò una lucida e ruspante fautrice della famigerata Cannabis terapeutica.

Così la mente fervida di Leo prova a coinvolgere la scimmietta Iwazaru (il nome che ha da subito attribuito a Florin con riferimento al motto giapponese delle scimmie sagge) che gli è stata assegnata in sorte in quello che potrebbe trasformarsi in un piccolo e lucroso business con ruoli ben precisi, l’amministratore e il procacciatore di clienti. Naturalmente il diavolo ci mette la coda, in fondo basta bucare una ruota per impedire ai ragazzi il raggiungimento delle “verdi praterie aeroportuali” sulle quali far fiorire erba e denaro, ma il brutto è che il diavolo non si limita solo alla coda e spesso ci mette pure il resto, magari nelle sembianze che dovrebbero essere più rassicuranti, quelle di un agente di polizia giusto per dirne una, e che invece si rivelano marce e violente.

Gli incontri, le incursioni degli altri personaggi, i piccoli episodi che spezzano il flusso ininterrotto di disagio esistenziale in fondo sono semplici diversivi nella materia compatta del romanzo. I personaggi che ruotano intorno a Leo sono coerentemente percepiti con quella visione limitata, che pretende di assere assoluta, tipica dell’età, per cui degli adulti sono soltanto intuite le debolezze e i dolori, mentre appaiono sovrastanti quelle contraddizioni e quelle leggerezze che sembrano inspiegabili ed ingiustificabili agli occhi del ragazzo che si smarrisce di fronte alla constatazione di non essere il centro del loro mondo, l’unico veramente degno di qualsiasi cura e attenzione. La madre è amata nonostante la sua distrazione lastricata di buoni propositi, il tassista tollerato come l’erba infestante di un giardino che non può essere sradicata, Florin vissuto come rivale nell’affetto materno, come esserino da compatire, come scafato compagno da invidiare. La punizione per i cattivi pensieri tanto si abbatterà comunque nei sogni, in quella parentesi di vita che sembra tanto autenticamente reale da essere considerata parte integrante del proprio vissuto.

“Quando non si sa bene cosa fare della propria vita si spera sempre in un incontro che possa cambiare tutto, se non sei capace di modificare le cose da solo ci dovrà pur essere qualcuno da qualche parte a traghettarti in un’età migliore.” I pensieri di Leo, che affiorano in continuazione con brucianti dubbi e con dolorose constatazioni, sono la colonna sonora del romanzo, la parte più autenticamente felice, assecondata da una scelta stilistica altrettanto giusta.

Il lessico è spericolato ma curatissimo, la sintassi allegramente aggrovigliata ma mai contorta, entrambi gli elementi devono esprimere il mondo di un adolescente svagatamente colto e profondo e lo fanno con espressioni spiazzanti e accostamenti di termini dai quali traspare l’attenzione estrema per un linguaggio da addomesticare al fine di mantenerlo selvaggio (perché anche l’apatia negli adolescenti riesce ad essere tale) e di renderlo funzionale ai contenuti. La scrittura mimetica adottata dalla Mander riproduce con naturalezza quel mondo, come se ne facesse parte integrante, come se fosse il proprio alfabeto. E si tratta di una conferma, perché l’autrice triestina aveva già dato prova di questa capacità camaleontica di indossare altre pelli e di sperimentazione linguistica con La prima vera bugia.

Ma si può concludere una storia di adolescenti senza neanche accennare al sesso? Naturalmente no. A quell’età si vive il sesso come pensiero dominante, che sia quello tragicamente venduto di Florin o quello non ancora sperimentato di Leo, esso è tanto assoluto da porgersi come elemento risolutore. Bastano un semplice riconoscimento verbale (il nome della scimmietta muta Shizaru) e una bocca morbida sulla quale approdare per sciogliere dubbi e tensioni, per dare un ordine accettabile al caos esistenziale dell’età straniera. La psico-culona non aveva tutti i torti…

Marina Mander, L’età straniera, Marsilio editore, pp.206, € 16.00

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/24/leo-e-la-scimmietta-iwarazu-leta-straniera-di-marina-mander-marsilio-editore/

Brancati e la guerra

Saggistica breve. Letteratura

La guerra come rimedio contro la monotonia della vita sociale. Una prosa giovanile di Vitaliano Brancati

Vitaliano Brancati

Sul quotidiano romano “Tevere” dell’8 agosto 1930 venne presentata la prosa di Vitaliano Brancati intitolata La guerra, un insieme di considerazioni sul primo conflitto mondiale e più in generale sul valore e sul significato della guerra che, nelle intenzioni del giovane autore, doveva essere riportata in appendice al suo primo romanzo di prossima pubblicazione L’amico del vincitore.

L’inizio della prosa descrive con spietato realismo gli strazi della guerra inducendo il lettore a pregustare, dopo tale esordio, un caldo e appassionato inno alla pace e alla fratellanza. Invece, con un vero e proprio colpo di scena, il giovane Brancati prosegue in direzione del tutto opposta.

La guerra è necessaria, secondo l’autore, perché amplifica al massimo le sensazioni. E per essere più incisivo prospetta minuziosamente agli occhi del lettore la differente qualità della giornata del borghese e quella del soldato: entrambi seguono una trafila quasi uguale di trepidazioni e di soddisfazioni, solo che nella giornata del soldato non c’è spazio per la noia e il torpore e le stesse sensazioni subiscono una fortissima dilatazione. Certo, il soldato affronta la morte, ma essa è un ignoto che potrebbe essere tanto brutto quanto bello. Anche il fatto che durante la guerra si vivano sensazioni spaventose al limite della sopportazione non è negativo per lo spirito umano che ha bisogno di “spezzare tutto il ghiaccio di abitudini pigre, di materialità sorda, di sonnolenza che la vita sociale ha accumulato”.

Con la questione delle “presunte” responsabilità, Brancati si riallaccia ad uno dei punti nevralgici del dibattito del dopoguerra, dibattito che a distanza di anni forniva sostanzialmente due immagini del conflitto: una ufficiale, epica e gratificante, l’altra critica e insistente sugli altissimi costi umani dell’impresa.

L’autore sostiene che per un evento tanto grandioso sia impossibile e fuorviante cercare singole responsabilità, perché tutti indistintamente vollero la guerra, anche coloro che avevano paura. Alla fine a restare intatto nei secoli non sarà il ricordo delle morti atroci ma l’esito della guerra come “forma eterna e assoluzione”.

Gabriele D’Annunzio, 12 settembre 1919

Prevenendo una possibile obiezione, l’autore si chiede come possa accordarsi la fede in Dio, che aveva appena affermato di possedere, con l’idea della guerra. Il giovane Brancati liquida la questione con una pretestuosa scappatoia di personalissimo conio: Dio non vuole la guerra, ma riguardo queste piccole cose lascia agli uomini la più assoluta libertà; per Lui è importante solo essere ricordato anche nella forma capovolta della bestemmia. E ancora l’autore sostiene che nell’uomo coesistono due aspetti: uno mondano che spinge a pensare e ad agire e uno eterno e immutabile che si bea della contemplazione del Creatore. Pertanto tutti gli affanni della vita sono solo uno scherzo se posti a raffronto con questa parte eterna e felice dello spirito umano.

Il giovane Brancati si trovava allora in una fase particolare della propria vita in cui sentiva fortemente la necessità di credere in qualcosa e di lasciare naufragare nella fede i suoi dubbi. Fede in Dio naturalmente, alimentata da quella parte della sua anima fiduciosa nell’entità metafisica, ma anche fede nell’Uomo (Mussolini in questo caso) che con la sua forza e volontà potesse supplire alle manchevolezze individuali. E’ infatti condotta su un registro mussoliniano (nel ’30 non era ancora esplosa la coscienza antifascista del Brancati maturo) la sua esaltazione della guerra “parola mostruosa e fascinatrice” e su un registro vagamente dannunziano (quel D’Annunzio poi tanto deplorato!) per quell’amplificarsi a dismisura delle sensazioni. La guerra assurge nel suo scritto ad entità metastorica mediante la quale esaltare la parte mondana dell’uomo fino ad assumere anche una dimensione ludica.

Brancati non pensava, come i nazionalisti, che bisognasse combattere per l’Italia esasperando il patriottismo in parossistico bisogno di espansione territoriale e volontà di potenza, non vi cercava una soluzione a livello esistenziale, come Serra e Borgese, né l’esplosione terribile e magnifica di uno spettacolo orgiastico di istinti e modernità come Marinetti, né il bagno caldo di sangue e l’operazione malthusiana che Papini sbandierava con cinismo, né ancora il male necessario, “la guerra che uccida la guerra” di Salvemini. Per Brancati combattere significava spezzare la monotonia di quella vita sociale “tragica, pericolosa e insopportabile”, significava sentire dentro sé “il fremito dell’umanità giovane e barbarica”. E’ un gioco, appunto, con il quale esaltare al massimo grado le sensazioni e dal quale è possibile distaccarsi rifugiandosi nella parte eterna e felice dello spirito. Punto di vista quasi adolescenziale ma necessario per staccarsi con una presunta originalità dal “già detto”.

La prosa non fu inserita, come era stato preannunciato, alla fine del romanzo, edito poi nel ’32. Probabilmente era bastato quel breve lasso di tempo perché Brancati avvertisse l’ambiguità della collocazione di quella prosa alla fine del suo romanzo L’amico del vincitore: una vicenda amara che ha come protagonista il bambino prodigio e poi studente modello Pietro Dellini, un perdente roso dal dubbio della propria mediocrità, uno dei tanti “inetti” della nutrita galleria novecentesca, sconfitto per il fatto stesso di essere stato “amico del vincitore”, nel quale è adombrata la figura di Mussolini, l’uomo che animerà la dittatura sulla quale il Brancati maturo riverserà la sua più sferzante ironia.

Dovevano passare ancora molti anni prima che la scrittura di questo grandissimo autore, molto noto ai contemporanei ma purtroppo oggi poco letto e ricordato, giungesse alle magnifiche vette espressive dei capolavori.

Il suo romanzo giovanile resta un semplice esercizio di scrittura, lo specchio riflettente stati d’animo e aspirazioni di un giovane stregato, come tanti, dalla seduttiva immagine fascista di potenza fisica e verbale. Nonostante questo, le simpatie del lettore vanno indiscutibilmente al “perdente”, al ragazzo dal fine intelletto che si contrappone all’antagonista compiaciuto della propria forza e del proprio coraggio incosciente. Già nel titolo, in fondo, lui stesso si era schierato e Pietro Dellini si porgeva come il proprio riconoscibilissimo alter ego.

Quella dimensione ludica della guerra, tanto esaltata nella prosa esaminata, in fondo non gli calzava a pennello e, nonostante l’assidua frequentazione della sala di scherma (disciplina di moda, certamente, ma anche propedeutica per eventuali duelli), la sua aggressività doveva restare confinata alla forma, non certo alla sostanza.

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Brancati e l’universo femminile

Saggistica breve. Letteratura.

L’eterno femminino della Bambola. Vitaliano Brancati e i suoi personaggi

di Agata Motta 09-07-2019

Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni ne ‘Il bell’Antonio’ di Mauro Bolognini, 1960

Quello dell’universo femminile nella narrativa di Vitaliano Brancati, l’autore de Il bell’Antonio, è un capitolo arduo e affascinante che val la pena affrontare per comprendere a fondo lo spirito, gli umori, le fobie proprie del grande narratore siciliano.

Percorrendo un itinerario che attinge anche alla biografia dell’autore – perché uomo e artista interagirono sempre – è possibile ricomporre le tessere sparse del grande mosaico, raffigurante sembianze femminili, al quale la sua opera ci riporta di continuo.

In effetti, se escludiamo brevi bozzetti, Brancati non ha reso quasi mai la donna protagonista esclusiva della sua narrativa; si cura poco dei suoi stati d’animo e dei suoi moti psicologici e ne fa descrizioni sfumate o addirittura insulse, mentre di personaggi maschili sono ridondanti le sue pagine. Uomini contorti, con sprazzi di genialità, assillati, irrequieti, accidiosi; uomini ai quali dedica le sue analisi più sottili e i suoi esercizi introspettivi più acuti con uno scrupolo che ha il sapore di un inconscio esame di coscienza. Ciò malgrado la sua opera trasuda femminilità: caviglie appena intraviste, bocche sezionate attraverso uno spioncino, bagliori rosati di carne occhieggianti dagli indumenti. Lo spirito muliebre, la conturbante fisicità della donna aleggiano prepotentemente anche nell’assenza, come il profumo di un fiore che a distanza di ore esala ancora in un ambiente per il solo fatto di esserci stato.

La donna che vive nelle sue pagine è una creatura che suscita sensazioni e impulsi ambivalenti: può, infatti, incarnare di volta in volta l’oggetto del desiderio o la spinta alla catarsi, il giocattolo con cui trastullarsi o l’immaginetta da santificare, in una riproposta moderna della dicotomica immagine medievale o in un confuso altalenare tra vecchie e nuove istanze. Sempre, però, neutra. Come se non brillasse di luce propria ma del riflesso di ciò che provoca negli uomini.

La galleria dei personaggi utili alla conferma di quanto detto potrebbe essere lunga, ma bastano pochi ritratti esemplari per ribadire il concetto, come quello di Barbara Puglisi (impossibile non riportare alla memoria il volto splendido di Claudia Cardinale scelta, nel 1960, da Mauro Bolognini per quel ruolo accanto al grande Marcello Mastroianni), la bella e fredda moglie del Bell’Antonio, eterea e incapace di nutrire sentimenti autonomi e liberi da risvolti moraleggianti o dall’influsso degli interessi imposti dalla famiglia. La ragazza è quasi un burattino manovrato dall’alto che imbriglia però nei suoi rigidi fili l’uomo che da lei sperava salvezza per la propria vergognosa impotenza o quantomeno devota e casta comprensione. O ancora la Beatrice Banchedi di Paolo il caldo, donna matura che ama crogiolarsi in strani nomignoli, quali Conocchia o Regnante, epiteti che alludono chiaramente al suo aspetto e ai suoi trascorsi sessuali; trascorsi dei quali raccatta ancora la gloria, respirandone l’odore ormai stantio, ma vivo quanto basta per allontanare lo spettro di un corpo in decadenza.

Comunque questa donna, oggetto o vittima, domina incontrastata l’universo maschile e ne polarizza gli interessi, condizionandone le azioni e incatenandone la fantasia e l’intelletto.

Ecco cosa dice in una conferenza il Professor Prampolini, personaggio che compare nei Racconti degli anni difficili: ”Voi donne possedete la superficialità che non ha soltanto il beato compito di non comprendere, ma ha anche quello di smorzare, di attutire, di snervare, quasi, le idee troppo dolorose e dispotiche… è un’opera altamente umanitaria quella di spargere una sottile e ristorante imbecillità nel mondo”. Parole agghiaccianti, ma assai efficaci per esprimere un sentire all’epoca comune. Anche la grottesca conclusione del Bell’Antonio – in cui il protagonista confessa al cugino, infervorato in discorsi idealistici, di aver sognato finalmente un amplesso giunto alla naturale conclusione – ci riporta all’ossessione della donna (da possedere sessualmente o da dominare psicologicamente) che si impone, in una paradossale e imbarazzante priorità, sulle sorti dei popoli in guerra.

Molta critica ha voluto riscontrare nell’opera di Brancati una forte componente misogina, e in questa direzione è possibile agevolmente spingersi senza timore di essere contraddetti. Sarebbe, però, un modello riduttivo, una liquidazione sommaria del pensiero di un autore brillante che probabilmente non avrebbe accettato e approvato questo giudizio su di sé. A ben guardare l’ironia, che spesso affiora per ridicolizzare certi atteggiamenti femminili, disinvolti o inibiti, è propria del suo modo di affrontare e di interpretare la realtà. Il sarcasmo è infatti riversato a piene mani anche sugli uomini, dei quali sono messi a nudo con occhio spietato tic, nevrosi, frustrazioni. L’umanità descritta nelle sue pagine è guardata attraverso la lente deformante di un umorismo di impianto pirandelliano, tanto più amaro quanto più larvatamente autobiografico.

Si potrebbe piuttosto parlare di irrisolto tentativo di comprendere a fondo il mondo femminile o forse di malcelato e inconscio senso di intima superiorità.

Che egli non sia stato un bigotto provinciale è dimostrato, a livello biografico, dall’aver sposato Anna Proclemer, una giovane attrice apertamente svincolata dall’atavico attaccamento al focolare domestico, riluttante ai legami definitivi e determinata ad ottenere tramite il proprio lavoro un’indipendenza economica irrinunciabile; ma che genericamente non ricevesse dalla donna un giusto equilibrio e che ne avesse una visione parziale e non sempre realistica è dimostrato, riferendoci ancora al privato, dal fallimento del suo matrimonio (Nord contro Sud in assetto bellico di amore/odio) e dalla visione romantica ed edulcorata che aveva della moglie alla quale si rivolgeva con la formula d’apertura “Santa” in sostituzione del consueto “Cara” nelle tante lettere racchiuse nell’epistolario Lettere da un matrimonio contenente scritti suoi e della Proclemer.

Anna Proclemer con Giorgio Albertazzi ne ‘La governante’ di Brancati, versione televisiva 1978

Sul piano letterario poi la casistica è infinita. I protagonisti delle sue storie non sono mai appagati dai rapporti d’amore, siano essi occasionali o duraturi, e non riescono a vivere in perfetta simbiosi con la padrona dei suoi pensieri: sostanzialmente l’uomo domina in maniera prepotente, relegando la donna al ruolo che le compete da secoli, oppure subisce frustrazioni elevandola a feticcio.

Alfio Magnano, focoso padre del Bell’Antonio, si impone completamente sulla moglie dolce e remissiva secondo i più tradizionali canoni e giunge in un momento di collera a rivelarle, con una manovra di aguzzino, di avere altri figli sparsi per la città per esibire la propria potenza riproduttiva. Di contro, Paolo Castorini, protagonista dell’ultimo e incompleto romanzo Paolo il caldo (è del 1973 la trasposizione cinematografica diretta da Marco Vicario), subisce una dura sconfitta verbale e fisica dopo un tentativo di approccio con Ester Salimbene, donna determinata, politicizzata e dedita ad ideali maschili, tanto da subirne un forte contraccolpo psicologico.

E non mancano neppure gli squallidi ménages familiari in cui i coniugi vivono nella più totale indifferenza affettiva come il mediocre Aldo Piscitello e la scaltra Rosina, indimenticabili vittime del regime fascista nel racconto Il vecchio con gli stivali.

Sembra proprio che l’unica possibilità per l’uomo di realizzare un rapporto appagante, non solo a livello sessuale, possa attuarsi con la “Bambola” che, nel Don Giovanni in Sicilia (anche questo divenuto film nel 1967 per la regia di Alberto Lattuada, quasi a sancire il legame strettissimo tra Brancati, che fu fecondo sceneggiatore, e il cinema) il giovane Muscarà acquista a Parigi. Modello di perfezione nella sua mancanza di anima e di vita, la Bambola induce un austero commendatore a togliersi tanto di cappello per aver trovato in essa “l’Eterno femminino”.

La donna, insomma, si rivela come l’ennesimo polo in cui è palesato il dissidio tra spirituale e materiale, razionale e irrazionale, ironia e amarezza che è alla base dell’arte e della vita di Brancati, assertore dell’incomunicabilità tra i due sessi. Incomunicabilità che emergeva già con insistenza in un’epoca in cui la donna si avviava a prendere coscienza di sé e la “sicilianità” cominciava a proporsi come modello negativo e infruttuoso.

Nel caso di Brancati, però, come si accennava, l’incapacità di dialogo e di relazioni autentiche era minata alla base dalla sostanziale “incomprensione” di un universo ossessivamente amato e inseguito. Gli stereotipi femminili del fascismo, sebbene razionalmente superati, per gran parte della sua vita bussarono ancora alla sua coscienza tormentata, come fantasmi accantonati ma corrosivi, distorcendone le percezioni e determinando quel vano affannarsi intorno ad un mistero insolubile che, almeno alla sensibilità contemporanea, può risultare disturbante.

La svolta era comunque dietro l’angolo. L’autore, giustamente ricordato come acuto osservatore e fustigatore della società, che, nella maggior parte della sua produzione, non era riuscito a metabolizzare “il nuovo” della condizione femminile, con la commedia La governante (anch’essa divenuta film nel 1974 per la regia di Giovanni Grimaldi), immediatamente colpita dalla censura per via dell’accenno all’omosessualità, dimostrò di aver cominciato a cambiare pagina. I fantasmi erano stati sconfitti, i tormenti della donna protagonista, vittima dell’ipocrisia e della morale dell’epoca e, a sua volta, colpevole calunniatrice che si riscatta con il suicidio, sono analizzati in questa commedia, con maggiore finezza e con intuizioni più sincere. Non siamo ancora giunti alla comprensione totale del mistero femminile, ma sicuramente la strada era stata tracciata e, se l’autore non fosse morto di lì a poco, forse avrebbe potuto percorrerla con risultati sorprendenti.

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