“Fedeltà” di M. Missiroli

L’infedeltà necessaria di Marco Missiroli

di Agata Motta 16-06-2019

Si può essere consapevolmente fedeli solo dopo essere stati consapevolmente infedeli. Alla resa dei conti sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo e vedremo perché) questo il messaggio che arriva forte e chiaro dalle pagine di Fedeltà, discusso romanzo di Marco Missiroli giunto, come da previsione, alla cinquina finalista del Premio Strega 2019.

“Che parola sbagliata tradimento – pensa Carlo, uno dei protagonisti del romanzo – cosa toglieva consumarsi con un’altra ragazza, accaparrandosi una gioia momentanea e dando, possibilmente, una gioia momentanea”. La liturgia del matrimonio resterebbe intatta, su un binario parallelo destinato dunque a non incrociarsi e a non sovrapporsi con l’altro. Che sia illusione consolatoria che mette al riparo dai sensi di colpa o realtà poco importa.

L’autore torna ad esplorare, con modalità diverse e con una scrittura più meditata, costruita, furba e sofisticata rispetto al precedente Atti osceni in luogo privato, il concetto di libertà attraverso il corpo, le sue esperienze e i suoi appetiti. Missiroli passa dal romanzo di formazione su lungo periodo ad un’analisi puntuale di due fasi della vita – la distanza tra l’una e l’altra è di nove anni, un tempo ragionevole per osservare le evoluzioni dei rapporti e le conseguenze delle scelte – dei suoi personaggi: la solida coppia costituita da Carlo e Margherita e i due giovani oggetti del loro desiderio, la studentessa Sofia e il fisioterapista Andrea, intorno ai quali ruotano i membri delle rispettive famiglie, tra cui spicca Anna, madre amata da Margherita e suocera venerata da Carlo, che invece è afflitto da genitori borghesissimi e tradizionalisti dei quali, storcendo un po’ il naso, fanno comodo le raccomandazioni per posti di lavoro più remunerativi e gratificanti e la disponibilità economica necessaria per prendere parte al banchetto immobiliare della Milano che conta.

Carlo e Margherita sono raccontati nella fase del ”malinteso”(il rispettabile professore Carlo Pentecoste è stato sorpreso in bagno con una studentessa in atteggiamenti equivoci che trovano subito un’indignata giustificazione da spendere pubblicamente) e poi in quella dell’assestamento (l’acquisto della Casa con tanta luce e infiniti gradini da salire e l’arrivo di un Figlio taciturno e ipersensibile); si sono traditi, ma non si sono mai allontanati emotivamente e fisicamente. L’uno non ha saputo prendere pienamente il corpo della sua studentessa Sofia, aspirante scrittrice imprigionata nel ricordo della madre morta, ma si è buttato con soddisfazione su altri surrogati di quel desiderio incompiuto; l’altra è riuscita a farsi possedere un’unica volta da Andrea, il fisioterapista gay che consuma in segreto una carica di rabbia e di violenza veicolata sui cani da combattimento e sul ring. Lentamente Anna acquista spazio e spessore nel racconto e diviene quasi un mastice possente in grado di tenere assieme le parti scomposte di chi le si accosta con fiducia. Possiede precisi guizzi intuitivi, in ciò aiutata da una veggente che le spilla soldi in cambio di laconiche parole, e una saggezza ricavata dall’uso di ago e filo, come se cucire indumenti sia stato il modo per tenere assemblati gli scampoli sfuggenti della vita. Anna si astiene da qualsiasi intromissione, pur mantenendo altissima l’attenzione su chi ama, e attorno a lei si coagula un nucleo di affetti sinceri e disinteressati. Per lei si avverte una carica empatica – quella riservata alle simpatiche vecchine di certi film che puntano al cuore – che non suscitano invece gli altri personaggi, chiusi in ossessioni che vorrebbero essere la strada maestra per quella libertà inseguita che invece possiede un ambiguo retrogusto.

Anche Anna ha vissuto la sua trasgressione, il furto di un trancio di tonno al supermercato, e ne ha subìto il castigo e l’espiazione con una vergogna che non ha mai smesso di bruciare, tanto da riviverla nel pesciolino disegnato dal nipote sull’ingessatura della sua gamba.

La precisa topografia dei luoghi, attraversati fisicamente dai personaggi e percorsi con una tale esattezza da avvertire quasi i rumori dei passi, guida la mappa mentale del lettore tra Milano (città sulla quale aleggia la presenza/fantasma di Buzzati) e Rimini – la prima indocile e dicotomica tra periferie in cui si consumano scommesse clandestine e appartamenti costosissimi ambiti come status symbol irrinunciabile, la seconda quasi romantica, dimessa e nostalgica, lontanissima dagli stereotipi goderecci di cui nutrire il turista e vicina probabilmente ai ricordi d’infanzia dell’autore – e si fa essa stessa materia narrativa sulla quale innestare impulsi improvvisi e improvvisi ripensamenti.

L’autore si interroga – ed è forse questo l’aspetto più interessante – sulle dinamiche relazioni che comportano una maturazione, uno scarto netto tra giovinezza ed età adulta. Sì, perché spesso il processo che sembrerebbe frutto di chissà quali lente trasformazioni si rivela invece legato ad un momento, una circostanza, un gesto, un ostacolo, un bisogno, una mancanza ed in essi si insinua il tempo inquieto che scardina certezze e consuetudini, un tempo raccontato in un fluire sciolto e molto visivo.

Fedeltà possiede infatti alcuni tratti del romanzo filmico sin dalla tecnica di montaggio delle sequenze che sconfinano l’una nell’altra come dissolvenze incrociate e non stupirebbe vederne a breve una trasposizione cinematografica, operazione potenzialmente azzardata sia per la scelta del “cosa mostrare e come” sia per la difficoltà di restituire compiutamente le parentesi riflessive. Con perizia Missiroli utilizza la “ripresa” (con focalizzazione variabile) nel passaggio da un gesto o da uno sguardo ad analogo gesto o sguardo di altre mani e altri occhi, per cui l’abbraccio stanco e disilluso tra Carlo e Margherita diventa quello rapido e imbarazzato tra Andrea e la propria madre; lo sguardo alla finestra di Andrea sulla neve appena caduta diventa quello di Carlo e Margherita che vi leggono un buon auspicio per un colloquio di lavoro; le mani del padre di Sofia, “rattrappite una nell’altra quasi a racchiudere un’improvvisa contentezza”, sono le mani di Anna che in esse raccoglie una gioiosa speranza di guarigione. Così in una narrazione che incastra tra loro personaggi e sentimenti e traghetta nel tempo e nello spazio senza disorientare, l’autore registra piccoli slittamenti che fessurano un quotidiano denso di normalità ma ribollente sotto la superficie soltanto un po’ increspata da parole sempre avare e da silenzi che racchiudono dubbi da non palesare. Troppo alta la posta in gioco, troppo rischioso scoprire le proprie carte, meglio ipotizzare e magari illudersi che l’altro o l’altra non sappia o, forse, che finga di non sapere. E’ il solito vecchio gioco delle parti, ognuno la propria e così si va avanti.

L’autore ha voluto solleticare le insoddisfazioni, l’instabilità e le tentazioni che attraversano l’uomo contemporaneo riuscendoci solo in parte. La distanza tra narrazione e personaggi da una parte (per molti dei quali è stato necessario costruire un vissuto accattivante senza riuscire comunque a renderli più veri) e lettore dall’altra rimane fortissima, solo a tratti ci si immerge ma per realizzare subito dopo che si tratta di finzione e che il patto narrativo non è stato firmato da tutti i contraenti.

Lo sforzo di Anna di ingoiare e persino metabolizzare il tradimento subìto e scoperto solo dopo la morte del coniuge conserva una patina di romanticismo retrò per cui le sue emozioni più credibili sono quelle che le suggeriscono un commiato rapido al fine di non creare disturbo; il movimento fisico che più affascina di Carlo è quello che lo spinge a Rimini per compiere finalmente ciò che non era stato capace di fare nove anni prima e che lo porta invece a maturare la capacità di congedarsi da un’ossessione che si tramuta in tenero rimpianto; i gesti più autentici di Margherita sono quelli compiuti sul corpo materno immobile e umiliato dalle feci; le immagini più vere dell’evanescente Sofia sono legate al quieto respiro nella ferramenta paterna; la sofferenza più acuta di Andrea si sostanzia nella scia di sangue e di violenza che attraversa le sue serate; insomma tutti quei momenti, talvolta persino marginali, che dischiudono nuove capacità di amare o di imporre l’amore nei confronti della propria imperfezione sono quelli che si apprezzano maggiormente. La coppia protagonista, impantanata nella ricerca di spazi di libertà e di autenticità, risulta irrimediabilmente sbiadita – soprattutto lei, Margherita, pratica, efficiente, falsamente magnanima, disinibita quel tanto che basta per dimostrare a se stessa di esserne capace – e avrà poche probabilità di ancorarsi nei ricordi del lettore.

Il tradimento non appare, sotto il profilo esistenziale e narrativo, seduttivo e/o risolutivo, ma di certo questo non era neanche nelle intenzioni dell’autore, che lo pone nei termini della necessità finalizzata. La fedeltà del titolo, dunque, non è quella verso il partner. Lo sconfinamento in altri corpi, l’esplorazione dei propri confini fisici, il cedimento alle pulsioni improvvise e irrazionali sono necessari per la piena comprensione di se stessi, sono atti dovuti per non tradire la propria essenza, sono occasioni per ritrovarsi, per concretizzare “l’altra felicità” senza ipotecare quella vicina e a portata di mano, quella assodata da proteggere e coltivare con devozione senza che possa risultarne offesa o semplicemente diminuita.

La fedeltà insomma è quella verso la propria natura e magari – vorremmo aggiungere – anche verso le parti più nobili di essa. Teoria che mette al riparo dal rischio di banalizzare un romanzo che ha diversi livelli di lettura e che, anche per questo, non possiede il respiro universale dei grandi romanzi.

Marco Missiroli

Fedeltà

Einaudi

p.224, € 19

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/06/19/linfedelta-necessaria-di-marco-missiroli/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2019/06/linfedelta-necessaria-di-marco-missiroli/

“Dolor y gloria” di P. Almodovar

Cinema. Saggistica breve. Festival

Impedimenti del corpo e ‘deseo’ creativo. ‘Dolor y Gloria’ di Pedro Almodóvar, Premio miglior interpretazione maschile Cannes 2019 ad Antonio Banderas

di Agata Motta 30-05-2019

Un uomo immerso totalmente in piscina, il silenzio rarefatto dell’ambiente vuoto, il dettaglio di una lunga cicatrice sulla schiena che è già un anticipo di programma. Poi l’acqua terapeutica si trasforma nel liquido amniotico di un’infanzia felice trascorsa accanto ad una madre dall’energia contagiosa e in quella delle lenzuola strizzate e stese al sole sui cespugli. Presente e passato si tendono la mano, come in tutti i film introspettivi, quelli in cui si cercano le risposte dell’oggi nelle domande di ieri.

Antonio Banderas è Salvador Mallo, un regista osannato in crisi creativa, alias Pedro Almodóvar. E’ da questo spontaneo e voluto processo di identificazione che trae origine il percorso necessario ad una piena comprensione di Dolor y gloria, ultimo film, presentato al Festival di Cannes 2019, del prolifico autore cult spagnolo, che ha affidato a questa pellicola/confessione una delle sue prove più alte e misurate.

All’attore prediletto dal regista negli anni Ottanta (da Labirinto di passioni a Légami) poi passato alle grandi produzioni americane e internazionali (Philadelphia, D’amore e d’ombra, Intervista col vampiro, Desperado, Two Much, Evita, La maschera di Zorro, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo!) e poi tornato ad occupare un posto privilegiato nel cuore e nella filmografia di Almodóvar con La pelle che abito e Gli amanti passeggeri, ad Antonio Banderas, insomma, ancora splendido pur nell’incipiente senilità, è andato il Premio per la Migliore interpretazione maschile; il suo è un ruolo assorto e malinconico, tutto giocato sul piano delicatissimo delle sfumature (non sempre perfettamente restituite in fase di doppiaggio), sul lavoro effettuato sul corpo, da sempre privilegiato oggetto d’indagine per il regista che questa volta però sceglie un punto d’osservazione inconsueto. Non si tratta più dei corpi trasformati dei transessuali né di quelli ricostruiti (come in Tutto su mia madre o La pelle che abito, giusto per citare alcuni dei titoli più noti), l’attenzione adesso è rivolta al proprio corpo mal funzionante, un corpo rivelato attraverso raffiche di refertazioni mediche e immagini radiodiagnostiche che ne mostrano i meccanismi interni alterati in un turbinio quasi voluttuoso di malattie accuratamente elencate e descritte nella loro sintomatologia dolorosa.

Si fa presto a dire “dolore”, tutti lo conoscono e lo hanno provato almeno qualche volta, ma esiste una forma di dolore, quello cronico, che si installa dentro il corpo in permanenza come un parassita o un ospite sgradito, che rosica ogni pulsione vitalistica, che imprime una direzione obbligatoria alle scelte individuali, che strema nella consapevolezza dell’incompiuto, che terrorizza nella proiezione di se stessi in un futuro in cui non sarà più possibile continuare a svolgere le attività che si amano e che aiutano a sentirsi vivi, perché la partita si giocherà con la capacità di convivere con esso. Almodóvar lo descrive con la lucidità dettata dalla conoscenza diretta e ad esso attribuisce parte della sua crisi “creativa”, che è appunto la crisi di Salvador Mallo che, a sua volta, è il personaggio della rinascita di Banderas come attore finalmente restituito come merita ai grandi ruoli che segnano la carriera.

Il regista si lascia alle spalle le accattivanti trame scabrose e grottesche e le opulenze narrative che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione. Dolor y gloria è un film essenziale e, proprio per questo preciso intento di condensazione tematica e prosciugamento verbale, estremamente struggente, un sussurro straziante sui due aspetti solo apparentemente antitetici della vita di un artista: il dolore, fisico e interiore, e la gloria, disperatamente cercata anche quando si pensa di poterne fare a meno. Alla domanda su cosa possa fare un regista se non scrive e non gira Mallo risponde “vivere”, ma è una bugia clamorosa alla quale nessuno crede, né l’autore né gli spettatori, già il nostro Pirandello ci aveva confidato che “la vita o si scrive o si vive” e la sostanza delle cose non è affatto cambiata. La necessità di continuare a svolgere un lavoro molto fisico come quello del regista, in netto conflitto con le bizze di un corpo dolorante, non è messa in dubbio neanche quando la parola vorrebbe negarla per creare illusioni consolatorie.

E infatti sul dolore e su quanto esso possa dettare la sua legge a chi vi si trova sottomesso ruota il plot, apparentemente molto semplice e lineare. Sono semplici e magnetici persino i titoli d’apertura, incastonati dentro una cornice di disegni astratti computerizzati che fluiscono in cangianti e accesi cromatismi, ma si tratta di una semplicità che non coincide affatto con la povertà inventiva. Almodóvar non può fare a meno di sorprendere sempre e comunque anche quando l’impronta generale appare squisitamente posata ed equilibrata.

Sulla gloria ad Almodóvar non importa indugiare, essa è tanto ingombrante e comprimaria nel titolo quanto tacitamente assodata nel film, è una grossa fetta d’esistenza sulla quale è inutile soffermarsi se non nella riesumazione della fase iniziale di una carriera in continua ascesa che fornisce il pretesto alla narrazione: la proiezione di un vecchio film restaurato, Sabor, durante la quale dovrebbero presentarsi il regista e il protagonista Alberto Crespo (nell’efficace, brusca e sofferta interpretazione di Asier Etxeandìa) che, dai tempi delle riprese, non si sono più visti né parlati. Dopo una fase di paludoso stallo, il protagonista riemergerà alla vita grazie ad una serie di piccoli eventi che riannodano la corda tesa dei ricordi, tra i quali giganteggia l’anziana madre interpretata da Julieta Serrano, attrice icona di Almodóvar, che si porge con scanzonata e tenera serietà, aggrappata alla coroncina del Rosario e alle sue ataviche certezze, a dare ulteriore spessore al personaggio che, nei flashback, appartiene all’altra icona del regista spagnolo, Penélope Cruz. Il senso di colpa di Mallo per averla delusa nelle sue aspettative è sempre in agguato, specie per non aver potuto mantenere fede alla promessa di farla morire nel paese amato, e ad esso, forse, nella realtà si aggiunge quello dell’uomo Almodóvar per aver parlato di lei al grande pubblico pur sapendo che ciò non le sarebbe piaciuto.

La riconciliazione con Alberto, tramite il dono di un monologo teatrale autobiografico, La dipendenza, trascina nel territorio ancora immacolato dell’incanto del cinema avvertito come luogo di ogni possibilità e di ogni sogno, porta dentro la magia dei film proiettati sul muro bianco sotto il quale i ragazzini urinavano, con una manovra che ricorda l’analogo incanto del bambino Totò di Nuovo Cinema Paradiso, film di Giuseppe Tornatore con il quale Dolor y gloria condivide il tema del “ritorno” del regista ormai affermato – fisico o memoriale non importa – ai luoghi e alle passioni dell’infanzia. In quel monologo, che per Alberto Crespo diventa arma di riscatto professionale, è contenuta anche la doppia dipendenza, dalla scrittura e dalla droga, dei due giovani amanti che ne sono protagonisti, Salvador e Federico, quest’ultimo interpretato da un Leonardo Sbaraglia che dona il giusto mix di timidezza e determinazione al suo fragile personaggio. Ma all’antico amante Federico, ritrovato proprio grazie a quello spettacolo in cui si riconosce, Mallo nega, con la saggezza della maturità, un nostalgico rapporto sessuale. Intanto, complice l’affettuoso interesse dell’assistente Mercedes (Nora Navas nel ruolo indovinato e calzante della chioccia accudente), maturano in Mallo le decisioni che potrebbero rimettere ordine e speranza nella sua paralisi esistenziale: affidarsi ad un centro di terapia del dolore per liberarsi dall’eroina, utilizzata a scopi antalgici, cui l’aveva appena iniziato con un pizzico di astiosa e forse vendicativa noncuranza Alberto, e sottoporsi ad un intervento chirurgico per risolvere la disfagia, uno dei tanti supplizi quotidiani.

Il linguaggio cinematografico è terso e pulito senza alcuna prodigiosa ostentazione nei movimenti di macchina, le inquadrature sono prevalentemente statiche – alcune proprio teatrali – e girate in interni con uno sguardo intimo e privilegiato alla casa del protagonista, che è una ricostruzione di quella dell’autore, un piccolo museo consacrato alla bellezza da godere in solitudine.

La Madrid mostrata in brevi sequenze è quella delle strade dello spaccio, mentre la poesia e l’incanto negati alla capitale sono regalati a Paterna, luogo di un’infanzia poverissima e mitica in cui si schiudono la passione per lo studio, forzatamente condotto in collegio (inevitabile l’accostamento a La mala educaciòn e al carico di livore da sempre manifestato nei confronti di un cattolicesimo bigotto e limitante) e il sorgere del primo desiderio, legato ad Eduardo, il giovane imbianchino con una spiccata inclinazione per la pittura che gli schiude inconsapevolmente l’orizzonte dell’omosessualità.

Con una leggera forzatura potremmo dire che la stanchezza che pervade lo sguardo del protagonista diventa quasi una cifra stilistica e si posa su oggetti e persone, sui movimenti rallentati e ingoffiti dai malanni, sulle percezioni dilatate dall’eroina, sul presente che ha subìto una battuta d’arresto contrapposto all’esuberanza di un passato che emerge a ondate riportandolo all’infanzia illuminata dalla prorompente e mai scalfita vitalità della giovane madre, una Penélope Cruz in cui la bellezza è solo un dettaglio, e nemmeno il più significativo, tra le tante doti espressive.

Ma ecco che questi flashback, che si portano dentro la necessità della riappropriazione del passato per ottenere la pacificazione con il presente, diventano qualcos’altro, ecco che l’apparente semplicità narrativa cui si accennava, con un rapido guizzo, si sostanzia di un espediente tecnico, a sua volta semplice, che riporta al set, quello addomesticato e intimo della rinascita artistica e umana che prelude ad altra gloria, quello de El primero deseo, divenuto film nel film (El Deseo è guarda caso anche il nome della casa di produzione), e dell’infanzia magica in cui tutto era ancora da compiere e da immaginare.

Non ci dice nulla di nuovo Almodóvar nel rivelare che la sua salvezza è stata determinata dal cinema e che nel cinema – nel suo complesso processo di creazione fatto di scrittura e di riprese – ha trovato il suo dio e la sua forza. Si limita insomma a ribadire il concetto (sarà un caso che il suo protagonista si chiami Salvador?), quasi per ricordarlo a se stesso, perché in fondo questo è il destino di tutti gli artisti. Ecco perché questo film, probabilmente, non riceverà unanimi consensi, bisogna sentirlo sulla propria pelle per assorbirne ogni immagine e ogni parola, bisogna essere dolenti e creativi, anche senza essere stati baciati dalla perfida gloria.

Per chi ha amato l’Almodóvar degli eccessi e della provocazione, sarà comunque singolare e piacevole constatare come si possa sostanzialmente restare fedeli a se stessi pur nella declinazione di nuclei tematici e accenti stilistici pacati e introspettivi. Mutare pelle più volte pur restando riconoscibilissimi, anche questo, in fondo, fa parte della grandezza di un autore.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/05/30/impedimenti-del-corpo-e-deseo-creativo-dolor-y-gloria-di-pedro-almodovar/

pubblicato anche su Articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/05/impedimenti-del-corpo-e-deseo-creativo-dolor-y-gloria-di-pedro-almodovar/

“Pranzi di famiglia” di Romana Petri

Il recupero memoriale dei morti. ‘Pranzi di famiglia’ di Romana Petri, ed. Neri Pozza

L’invito a fare un bagno sulle spiagge dell’Alentejo e l’esortazione a far presto, perché di tempo ne è rimasto poco, mettono in moto il meccanismo dell’impetuoso flashback – che costituisce il romanzo quasi per intero giocato su più piani temporali – di Ovunque io sia, il primo libro della trilogia di Romana Petri.

Il dialogo su una panchina del Prìncipe Real con la richiesta di perpetuare la memoria dei morti è invece il fulcro dal quale si dipana Pranzi di famiglia, il secondo atteso romanzo di ambientazione portoghese, edito da Neri Pozza, che la Petri ha regalato ai suoi lettori. In entrambi i casi si tratta di un sogno, l’unico non luogo in cui possono avvenire gli incontri negati dalla realtà – in questo caso quello di Vasco e della madre Maria do Ceu – l’unico spazio libero in cui si intrecciano desideri che la ragione non permette di esprimere e moniti che hanno il sapore di imperativi categorici, specie se espressi dalla coscienza stranita dallo stupore per l’assenza che la morte si lascia sempre dietro come una scia infetta. Perché se è vero che una madre, ovunque si trovi dopo la morte, continuerà a camminare accanto ai suoi figli, è anche vero che affinché questo avvenga è necessario che i figli ne alimentino il ricordo, ne ricostruiscano la fisionomia, gli atti e il calore, mettendo assieme frammenti, immagini, parole, sensazioni che non possono essersi spenti semplicemente con la morte.

Semplicemente? Sì, semplicemente, perché la morte, sembra volerci suggerire la Petri, non può essere considerata un trapasso definitivo ma un trasferimento in altri mondi nei quali si può permanere solo se agganciati alla vita attraverso il ricordo. E non è necessario scomodare verità ultraterrene per avvalorare questa ipotesi se persino Foscolo aveva detto che “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” e, in questo caso, l’urna non sarebbe un solenne sepolcro all’ombra dei cipressi ma il cuore di quanti  hanno conosciuto e amato chi è andato in quell’altrove sconosciuto e misterioso che si chiama morte. Per questo Maria do Ceu, personaggio che i lettori di Ovunque io sia avranno di certo molto amato, consegna al figlio la richiesta pressante di non lasciarsi trasportare dalla deriva del dolore ma di consentirle di abitare quel mondo attraverso il recupero memoriale.
Impresa ardua per Vasco, da sempre afflitto da una strana reticenza al ricordo, che non si avvarrà del recupero attraverso le sensazioni percettive di proustiano sapore, ma ricorrerà ad un indefesso esercizio della memoria, ad una disciplina imposta a se stesso che lo condurrà a rapide illuminazioni, a date dalle quali estrarre grumi da distillare, a stanze in cui far muovere chi vi ha vissuto. Così si costringerà ad annotare su un quadernetto tutto quello che riuscirà a salvare della sua infanzia illuminata e devastata – nel violento ossimoro dettato dalle circostanze – da una madre che si è svuotata di forze e di eventuali felicità per amore dei suoi tre figli: Rita, anzitutto, nata con un volto simile ad un quadro di Picasso, alla quale ha tentato tenacemente di restituire sembianze accettabili sottoponendola a complicatissime operazioni chirurgiche, e i gemelli Vasco e Joana, entrambi bellissimi per uno strano scherzo del destino, lui fragile e irrisolto, costantemente proteso alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, lei divorata dal senso di colpa per quella bellezza che si trasforma in supplizio nella sorella deforme.

L’intimità propria dei legami familiari era stata pura e spontanea solo attraverso la mediazione della madre; dalla sua morte cessa di esistere tra i fratelli orfani di luce e di affetto incondizionato e soprattutto di quel collante necessario che era stato voluto e caparbiamente perseguito e imposto da Maria do Ceu anche nella fase terminale della sua malattia. Un ultimo disperato tentativo di lasciare in eredità l’armonia tra i suoi figli era stato compiuto attraverso un viaggio di piacere in Austria, ma dopo pochissimo tempo lo spegnersi della fiammella inesausta del suo amore aveva destinato i figli al silenzio perpetuo o almeno al mantenimento di rapporti incancreniti dalla presenza di un padre sostanzialmente estraneo, Tiago, dedito alla carriera e alla moltiplicazione a tempo indeterminato del successo professionale, del denaro, del pubblico consenso.
Tiago pensa di assolvere al suo compito paterno con i pranzi domenicali, durante i quali riunisce la famiglia. Per quietare la coscienza, si tira dietro lo schizofrenico fratello Humberto – personaggio poeticamente riuscitissimo cui la Petri dona riflessioni da filosofo incompreso – e lo pseudo suocero Manuel Ramalhete – altro personaggio baciato dalla grazia – ma lascia fuori Marta, l’ambiziosa compagna e poi moglie che ha sostituito l’infelice Maria do Ceu con una ventata di giovinezza e di alleggerimento dai problemi e con la capacità di appagare il narcisismo necessario all’uomo come l’aria.

Così la Petri decide di mettere a fuoco la famiglia dos Santos in quei residui commestibili di relazioni fasulle sopravvissute allo sfacelo affettivo, in quei pranzi domenicali nei quali si consuma il rito officiato da Tiago con lunghi monologhi, mentre gusta cibi raffinati, stappa vini pregiati, sciorina i successi ottenuti e commenta i viaggi effettuati e quelli ancora in programma. Non importa se i fedeli di quelle messe profane non gli tributano gli onori sperati, per lui è necessario tenere formalmente in vita l’idea di un nucleo familiare ancora esistente, per lui forma e sostanza possono e devono coesistere.

Lo sguardo dell’autrice è volutamente asettico, perché le emozioni devono sprigionarsi dalla materia narrata e non dal giudizio del narratore che si limita ad esporre fatti ed analizzare sentimenti lasciando cadere qua e là osservazioni di struggente bellezza e verità sui rapporti umani, sulla vita e sulla morte.
La Petri restringe inoltre il suo campo d’indagine, passa dai campi lunghi e medi di Ovunque io sia ai primi piani e ai dettagli (con un’operazione quasi speculare a quella effettuata nei quadri del personaggio chiave della pittrice Luciana Albertini) e, proprio per questa maggiore vicinanza, il racconto si fa luce che illumina angoli bui, coglie tra il non detto lo strazio dei personaggi, addita quel fastello di giorni ancora buoni che avrebbero potuto essere vissuti, quel groviglio di sentimenti autentici con i quali avrebbero potuto lenire un dolore in tutti identico e ugualmente devastante che preferiscono invece dissipare nella rinuncia. Una rinuncia che passa attraverso la rimozione di memorie scomode che potrebbero riplasmare in peggio il passato e che si fortifica nell’illusione che ci saranno altre occasioni per chiarire, altri pranzi domenicali durante i quali tirare fuori rancori sotterranei e tensioni esplosive.
La Petri lascia che la scrittura fluisca limpida anche quando potrebbe intorbidarsi, giunge a scavare laddove mancano le parole, trascina in piccoli gorghi narrativi che promettono tempesta finché il silenzio denso prende corpo in immagini, ricordi, indagini introspettive che aprono squarci su territori accidentati che il lettore può percorrere anche violando il naturale riserbo dei personaggi

L’unica a manifestare la sua cieca rabbia è Rita con i suoi furori esagerati e talvolta pretestuosi, gli altri preferiscono rimuginare malumori e mettere la sordina ai dispiaceri. Vasco e Joana recidono il rapporto esclusivo dei fratelli gemelli per accantonarlo e persino umiliarlo con la rinuncia alla confidenza e alla complicità. A cementare la loro unione era stato in passato quel continuo elemosinare il tempo e l’attenzione materna tutta concentrata sulla sofferenza di Rita, ma mentre la vita di Vasco subirà uno scossone che aprirà nuove prospettive determinando scelte di costruttiva rottura, per Joana sarà l’inizio di una caduta interminabile. La maternità che l’aveva inizialmente ubriacata di gioia, si trasforma presto nella presa d’atto di un fallimento esistenziale che passa attraverso il fallimento coniugale. Il mediocre marito che aveva scelto per autopunirsi della prestanza fisica che arrecava dolore alla sorella, come la madre aveva intuito, la mortifica con il tradimento, ma lei preferisce ingoiare, l’orgoglio le suggerisce di tacere, di non rivelare il cedimento e poi il crollo della vita agiata e promettente che pensava di condurre con lui. La discesa è talmente vertiginosa da spingerla ad accettare l’aiuto economico del padre detestato, andare in analisi e restare vittima di uno di quei transfert difettosi che non portano alla fiducia in chi deve curare le ferite dell’anima ma alla dipendenza ossessiva, alla riesumazione dei torti subiti e alle recriminazioni senz’appello. E, beffa tra le beffe, Joana sarà l’unica, infine, ad accettare la sussistenza della forma, a divenire in questo persino simile al padre, la meno amata da lui e paradossalmente la più vicina.

Nelle giornate incolori di Vasco esplode invece la vitalità contagiosa di una talentuosa pittrice italiana, Luciana Albertini (personaggio appena evocato nel romanzo precedente), un po’ più grande d’età perché il buon Edipo ci mette sempre il naso. Ad accompagnarla c’è il vecchio cane Barabba, fratello letterario di Osac, protagonista de Il mio cane del Klondike, sul quale la Petri lascia come impronta personale la consueta passione per il mondo animale indagato con la stessa delicatezza e la stessa precisione riservate all’agire all’animo degli uomini. La Albertini, medico votato all’arte come l’artista perugina quasi omonima cui il personaggio è ispirato, irrompe con le sue tele dai titoli bizzarri e i suoi colori, con il suo corpo minuto e quasi androgino, con la sua saggezza striata di follia a curare la malinconica sottrazione alla vita di Vasco e soprattutto ad osservare con la lente deformante dell’ironia quella strana famiglia in cui – come lo stesso Vasco riconosce e afferma – sembra che tutti abbiano gli aculei sulla groppa e che si tengano a distanza, capaci di conservare solo il silenzio. Sarà proprio lei a dissacrare la solennità di quei pranzi  con una mostra blasfema in cui la famiglia del suo compagno viene svelata nei suoi tratti più grotteschi e in quelle tele riemergeranno con tenerezza anche altri personaggi indelebili di Ovunque io sia come la zia Julieta, dalle gambe sottili come alghe, che aveva vissuto tutta la vita strisciando al suolo e non aveva mai smesso di sorridere. Ma il passato è in agguato, bussa alle porte finché ad aprire sarà proprio l’irascibile Rita, che tirerà fuori dall’oblio quei ricordi ostinatamente negati per riscrivere la mitologia che appartiene sempre ad ogni famiglia. Rita rinuncerà anche ad altri interventi correttivi per mantenere le sembianze del viso che la madre ha conosciuto e amato, l’accettazione di se stessa e della sua deformità è il dono più bello che possa offrirle.

Lisbona e i luoghi cari del Portogallo, altra patria elettiva della Petri, sono presenti con le loro atmosfere e i loro piatti – dal bacalhao alla carne de porco à alentejana — con quei tipi umani un po’ ombrosi in cui la scintilla della gioia si accende raramente, con la saudade, quell’intraducibile disposizione d’animo propria dei lusitani. E’ tangibile l’agio con cui l’autrice si muove su strade conosciute e modalità comunicative perfettamente note, gioca in casa e vincere la partita è fin troppo facile. Nonostante Pranzi di famiglia abbia una totale autonomia narrativa e che non sia indispensabile conoscere anche il precedente Ovunque io sia, il consiglio è quello di leggerli comunque entrambi nel loro ordine naturale, anzitutto perché si guadagna un’altra bellissima storia e poi perché personaggi come Manuel Ramalhete e la moglie Ofelia, genitori “adottivi” di Maria do Ceu e quindi nonni dei tre fratelli, sono troppo preziosi per non conoscerli interamente. Il primo, donnaiolo impenitente, tratteggiato egregiamente nella piena decadenza, è uno dei commensali dei pranzi di famiglia, vi giunge come un pietoso trofeo del passato, con il suo interminabile conteggio dei morti, con il suo pianto teatrale, con la sua falsità ammaliante, con la sua amarissima vecchiaia alla desolata casa di riposo Cruz Vermelha spacciata per privilegio; la seconda è un ricordo intermittente, una presenza incombente nonostante l’assenza, un ritratto geniale dell’Albertini. Appropriarsi del loro travagliato passato e di quello di tanti altri personaggi indimenticabili sarebbe pertanto operazione affascinante.

Pranzi di famiglia è un romanzo sulla capacità di guardarsi dentro, sulla forza del destino, sulla necessità di rompere ciò non può essere aggiustato, sulla fiducia nei cambiamenti necessari e sulla speranza da portarsi appesa al collo come un amuleto. Ed è in fondo un riconoscersi, con il proprio vuoto e i propri fallimenti, con i propri interrogativi destinati a restare senza risposte. E’ ascoltare quei silenzi intorno alle cose finite, sui quali il tempo non ci concederà più di ritornare.

Romana Petri
Pranzi di famiglia
Neri Pozza Editore, 2019
pp.414

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/05/06/il-recupero-memoriale-dei-morti-pranzi-di-famiglia-di-romana-petri-ed-neri-pozza/

 

anche su Articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/05/il-recupero-memoriale-dei-morti-pranzi-di-famiglia-di-romana-petri-ed-neri-pozza/

“Anna Karenina & I”di Tommaso Mottola

Cinema, Teatro, Saggistica breve, Eventi

Immersione sacrale in un altro Io. ‘Karenina & I’, capolavoro atipico di Tommaso Mottola

Possono bastare 85 minuti di film per restituire allo spettatore un autore immenso come Tolstoj, un personaggio femminile eterno come Anna Karenina, un’attrice intensa come la norvegese Gørild Mauseth, una ricerca interiore trasversale che appartiene a tutti i nomi schierati in campo e uno sguardo penetrante sui meravigliosi paesaggi europei e asiatici che vivono e respirano nella stessa magnetica atmosfera? L’impresa realizzata dall’ottimo Tommaso Mottola nel dirigere Karenina & I  riesce a soddisfare nel migliore dei modi tutte queste ambiziose esigenze e corrisponde ad un ideale artistico che scardina la gabbia delle consuete catalogazioni in generi per conciliare compiutamente teatro, letteratura, cinema e vita in un’unica travolgente narrazione.

Il film racconta della sfida affrontata dall’attrice, quella di recitare Anna Karenina in russo, lingua del tutto sconosciuta. La proposta le giunge a Venezia, dopo la lunga tournée norvegese che aveva avuto per oggetto lo stesso lavoro, e lei se ne innamora immediatamente in ciò sostenuta dal marito regista che vi legge un’ulteriore sfida in cui la posta in gioco è altissima sotto il profilo umano e professionale. Così Gørild Mauseth affronterà un viaggio di 11.000 km in treno con il marito e il figlio ancora piccolo, quasi dell’età del figlio di Anna Karenina, e il loro percorso come famiglia procederà di pari passo con quello artistico e con il tentativo di recupero memoriale di un tempo fermo e rimosso che si prospetta per l’attrice come riconquista di se stessa e redenzione delle proprie fratture interiori. Con la cuffia alle orecchie che le porge ossessivamente brani del lavoro da interpretare e l’inseparabile agendina su cui annotare la pronuncia di ogni singola parola e i tanti appunti cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, Gørild Mauseth litiga con una lingua sconosciuta nel tentativo di addomesticarla, vuole parlare la lingua di Anna, vuole conoscere la donna che è stata, non il personaggio, vuole comprendere le ragioni che hanno spinto Tolstoj a scegliere un personaggio con il quale condividerà in qualche modo la sorte (l’abbandono della famiglia e la morte in una stazione ferroviaria) e a scoprire cosa vi abbia nascosto.

“Se è vero che ci sono tante sentenze quante teste, dunque ci sono tante specie di amore quanti sono i cuori” recita Liam Neeson (presente nel film anche come appassionato co-produttore), star internazionale che si rivela presenza preziosa e discreta nel donare la propria intensa voce a Tolstoj attraverso alcuni passi del suo romanzo. Ed è così che va inteso l’amore di Anna, una specie di amore che non cerca condanne o assoluzioni, il suo personale modo di intendere un sentimento travolgente ed inopportuno nella società in cui si trova a vivere.

Il regista non cede alla tentazione del road movie e grazie al superbo montaggio di Michal Leszczylowski, che seleziona e accosta inquadrature preziose e utilizza gli stacchi netti in funzione fluidificante, riesce paradossalmente a rendere snella e agile una materia che si dipana lentamente come il processo creativo che ha portato il grande autore russo alla definizione di un’immagine muliebre che è rimasta nel cuore e nell’anima dei lettori come una sorella o un’amica di cui si riconosce l’errore ma che va compatita in quanto “ostaggio delle proprie emozioni”. Karenina & I  non possiede neanche l’aridità di un certo modo di fare documentari e non ha nulla a che spartire con i pregevoli film sul teatro alla Kenneth Branagh o con quelli che riprendono integralmente per il grande schermo gli spettacoli del genere di Uomini e topi di Anna D. Shapiro e Skylight di Stephen Daldry.

Qui le sequenze teatrali sono saldamente intrecciate alla struttura del film e diventano esse stesse materia narrativa e puro godimento estetico. I tanti inserimenti in ordine sparso della fatidica “prima” illustrano i momenti topici della narrazione di Tolstoj rendendoli comprensibili anche a chi non conosce il romanzo e ciò che per sua natura avrebbe bisogno di tempi più distesi trova un assetto compatto e suggestivo che consente allo spettatore di essere catapultato nella magia della costruzione e della rappresentazione dell’evento. Ecco perché appare una scelta illuminata quella di portare il film inizialmente nei teatri con una tournée di tre date – sabato 9 marzo al Teatro Argentina di Roma, lunedì 11 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano e lunedì 18 marzo al Teatro Mercadante di Napoli – durante le quali saranno presenti sia l’attrice che il regista, e poi nelle sale cinematografiche.

Considerato il valore “sacrale” di immersione in un altro Io – paventato dall’amica e attrice Julia Aug che le prospetta un sofferto processo di identificazione: “quando indosserai il suo vestito ho paura che diventi la tua pelle”- e quello letterario di “inchiesta” – inteso come ricerca di sé, del personaggio e dell’autore – è logico che la peregrinazione in transiberiana fino a Vladivostok, meta finale in cui l’attende la grande prova, debba avere delle tappe necessarie come pellegrinaggi di fede. Bisogna credere fortemente perché avvengano le cose, e non è un caso se la battuta viene detta in presenza di un monaco ortodosso del monastero delle isole Solovki, luogo tristemente noto in cui Stalin fece erigere il primo gulag e luogo mistico in cui il segno della croce davanti ad un altare compiuto da Gørild rimanda a quello di Anna Karenina, il gesto abituale che “suscitò nella sua anima una serie di ricordi verginali e infantili”, quello che squarcia l’oscurità e illumina il passato, quello che la fa gettare tra il primo e il secondo vagone del treno in corsa.

L’attrice cerca Anna e il suo creatore in ogni luogo, mentre si interroga su chi siamo e da dove veniamo. Ulteriori tappe del pellegrinaggio sono l’elegante e signorile S. Pietroburgo che ha accolto Anna bambina, sposa e madre, Mosca e la casa di campagna che hanno visto i tormenti di Tolstoj, Novosibirsk che segna la metà del viaggio dell’attrice e il fiorire dei dubbi sulla riuscita dell’impresa, il lago Baykal in cui bagnarsi per diventare una vera donna russa. E in ogni nuovo luogo nuovi incontri per confrontarsi, per conoscere le opinioni della gente comune e quelle degli artisti, per immagazzinare impressioni momentanee e sollecitazioni durature. Le riprese indugiano sulla donna e sull’attrice, ne restituiscono lo sguardo assorto e ubriaco di bellezza con soggettive e panoramiche di squisita finezza e di grande pregio estetico, la bloccano in primi piani che scrutano il viso bellissimo per coglierne le tante sfumature espressive e in campi medi sul “moto fisico” di attraversamento di spazi sterminati che corrisponde al “movimento interiore”, alla ricerca di qualcosa di indefinibile che si farà chiaro soltanto alla fine dell’avventura.

E davvero ogni singola scena è talmente intrisa di rimandi visivi e di corrispondenze interiori e formali che bisognerebbe segnalarle una per una, dall’accostamento degli inquieti cavalli in movimento alle statue equestri e al temperamento del personaggio di Anna all’inquadratura attraverso il semicerchio del finestrino del treno sul basso caseggiato turchese della stazione di Novosibirsk e sulla statua bianca dell’atleta proteso nello sforzo, dal pedinamento attuato dall’occhio famelico della macchina da presa sul movimento continuo della donna nei preziosi abiti di scena – nero, bianco e rosso – tra incantati boschi di betulle, luccicanti distese di neve, anonime stazioni ferroviarie all’immagine anaforica della bambina vestita di rosso che si riverbera nell’attrice vestita dello stesso colore.   “Tentare di arrivare a quella piccola bimba”, è proprio questa l’intenzione di Gørild, la bambina vestita di rosso simboleggia quell’infanzia lontana della quale entrambe le donne, l’attrice e la protagonista del romanzo, devono impossessarsi per comprendere se stesse e tutto quel capitolo di vita che ha bisogno di essere illuminato e portato allo scoperto.

“Quel che è insopportabile è non poter estirpare il passato dalle radici, ma se ne può disperdere la memoria” suggerisce ancora la voce di Liam Neeson. Sono le parole iniziali del film sigillate in perfetto contrappunto da quelle conclusive dell’attrice: “Tolstoj aveva creato Anna per disperdere il suo passato, io non lo farò”. La scelta dunque è quella del ritorno in Norvegia, il filo reciso da un brutto incidente durante l’adolescenza va riannodato, il destino che sembrava volerla separare definitivamente dalla propria terra ve la riporta attraverso tortuosi sentieri, il recupero delle proprie radici è necessario per ridefinire un’identità altrimenti minacciata. Infine la donna scia su un paesaggio ghiacciato che le appartiene – in un rapporto di circolarità visiva con la scena iniziale in cui la stessa donna camminava instabile sulla neve – il solco che si lascia alle spalle è un binario che non porta morte ma nuova vita, resurrezione.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/03/07/immersione-sacrale-in-un-altro-io-karenina-i-capolavoro-atipico-di-tommaso-mottola/

anche su Articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/03/immersione-sacrale-in-un-altro-io-karenina-i-capolavoro-atipico-di-tommaso-mottola/

Regia: Tommaso Mottola
Anno di produzione: 2017
Durata: 86′
Genere: docufiction/teatrale
Paese: Norvegia
Produzione: Orto Polare
Data di uscita: 09/03/2019
Ufficio StampaLo Scrittoio

Con:
Gorild Mauseth (Anna Karenina)
Liam Neeson (Leo Tolstoj)
Sonia Bergamasco (Se stessa)
Valentin Zaporozhets (Vronsky)
Fekla Tolstoy (Se stessa)
Evgeny Veigel (Karenin)
Vladislav Yaskin (Levin)
Kristina Babchenko (Kitty)
Denis Nedelko (Stephan)
Yana Myalk (Dasha)

Soggetto:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Sceneggiatura:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Musiche:
Philip Glass
Michael Nyman
Lars Ardal

Montaggio:
Michal Leszczylowski

Fotografia:
Andreas Ausland
Tommaso Mottola
Gleb Teleshov

Produttore:
Gorild Mauseth
Liam Neeson

Voce Narrante:
Liam Neeson

“Preludio alla follia” di Daniela Di Benedetto

Saggistica breve. Letteratura

Distorsioni percettive di una scrittrice. ‘Preludio alla follia’ di Daniela Di Benedetto, Pietro Vittorietti Edizioni

”Tutto andava come doveva andare”. E’ l’incipit spiazzante del romanzo Preludio alla follia di Daniela Di Benedetto, autrice palermitana alla sua ventesima pubblicazione, edito da Pietro Vittorietti. E’ spiazzante perché la rassegnata quiete che vi si avverte o, come si capirà subito dopo, la presa di coscienza di una vita nuova che comincia a cinquantacinque anni per la protagonista Lisa, avviene nel giorno del funerale della propria madre. La morte della madre, a qualunque età avvenga e in qualsiasi condizione, dovrebbe sempre rappresentare un evento traumatico perché va a recidere le radici, sia che esse siano state immerse in torba scadente senza principi nutritivi vitali sia che abbiano tratto linfa corroborante da un terreno fertile. In Lisa, invece, nessuna lacerazione visibile e quelle lacrime che tutti si aspettano non hanno nessuna voglia di sgorgare.

Il lutto in lei si è già compiuto molto tempo addietro, quando la coscienza della propria “diversità” – racchiusa in un altissimo quoziente intellettivo accompagnato da una sostanziale incapacità empatica e da un fastidio epidermico per situazioni ai limiti della normalità – le ha consegnato la capacità di vedere oltre la superficie delle cose e la consapevolezza di una vita destinata ad essere difficile e in permanente urto con le convenzioni e i doveri sociali. Un dono e una condanna, a seconda dei punti di vista, ma il primo si perderà tra i rivoli di un’esistenza in cui le passioni dovranno farsi spazio a spallate per sopravvivere e per restituire senso a ciò che ai suoi occhi appare incomprensibile e assurdo. Quali passioni, dunque, bruceranno senza fine nell’animo della bella, ombrosa e ferocemente sarcastica Lisa? Quella per un uomo, al quale resterà fedele come amante quasi casta fino alla morte di lui, e quella per la scrittura, alla quale si aggrapperà in un’operazione salvifica di scavo e di recupero memoriale o di immaginazione sbrigliata nella quale costruire con vulcanica energia altri mondi percorribili dai personaggi usciti dalla sua penna.

Senza tanti giri di parole la Di Benedetto instaura subito una relazione ben precisa tra se stessa e la protagonista, definita alter ego, che talvolta si esprime in prima persona (in un evidente corsivo) mettendo a nudo sensazioni, riflessioni e commenti, mentre per la maggior parte della storia compare dietro un narratore eterodiegetico che, attraverso la focalizzazione interna, ne restituisce sempre e comunque il punto di vista.

La narrazione semplice, fluida e scorrevole sotto il profilo linguistico, gioca ambiguamente con il lettore, suggerendogli in modo esplicito che quella vita sofferta è sì del personaggio chiamato Lisa ma è anche dell’autrice, in ciò seguendo una consuetudine che oggi attraversa molta produzione contemporanea, attecchita in particolare anche a Palermo, da Alajmo ad Enia giusto per citare i più recenti e notevoli esempi. Si allude al disvelamento del sé ferito come modalità terapeutica e come consegna intima e impudica della propria parte dolente al lettore che voglia accoglierla e farsene depositario. Talvolta la Di Benedetto cede ad una tentazione diaristica che smorza il respiro alle sue pagine tra le quali fanno capolino certi indugi narcisistici, mentre in più occasioni emerge una notevole capacità di autoanalisi.

Risulta particolare il metodo utilizzato per il trattamento del tempo – molto più ampio quello della storia rispetto a quello della narrazione – dettato certamente da una scelta di stile, ma la sensazione è quella di una compressione dei fatti narrati che sacrifica ampiezza e spessore per privilegiare invece l’inserimento di piccoli aneddoti ed improvvise digressioni. Anche l’uso frequentissimo dei flashback, che trasportano il personaggio con rapidi passaggi e in ordine sparso nelle diverse fasi della vita, se da una parte concede dinamicità al racconto dall’altra crea un certo disorientamento nel lettore che deve soffermarsi un momento sulle date per rientrare nei tempi giusti della storia.

Il personaggio o se vogliamo l’autrice – basta scegliere a quale affezionarsi di più – analizza sin dalle prime pagine i traumi che l’hanno depositata, stanca ed avvilita, sul ciglio di una vita dentro la quale sembra muoversi da estranea, così come da ospite si è mossa nella grande casa dei genitori: una stenosi del collo uterino che rende il ciclo mestruale simile ad un incubo, rumori condominiali che le impediscono di dormire, un lavoro da insegnante che trova avvilente e frustrante, un tumore alla tiroide da stress, la morte degli unici uomini che abbia mai amato incondizionatamente – il padre amorevole e premuroso e il brillante amante già sposato con un’altra donna (un po’ padre anche lui, per via dei tanti anni in più, in un evidente complesso edipico) – la convivenza con una madre ostile e insopportabile, le disavventure mediche e ospedaliere, quest’ultime duri atti di accusa nei confronti di un sistema sanitario, pubblico e privato, che non si occupa minimamente del benessere dei pazienti e che dispensa farmaci in maniera dissennata come panacee buone per tutte le stagioni. Ma quella vita che avverte con prepotenza e che le ruggisce dentro ancora incompiuta la rende vestale della scrittura, unica divinità cui votare ogni scelta ed ogni sforzo, nonostante i capricci e le lungaggini degli editori. Così, niente marito, come si auspicherebbe la madre angosciata da un patrimonio destinato a restare senza eredi, niente figli, che ruberebbero tutto il tempo libero, e uno sguardo livido – spesso baciato da guizzi di ironia – da posare sul mondo che le appare capovolto nei valori e nei più banali meccanismi di funzionamento. In compenso qualche amicizia sincera, l’affetto di una zia e di una cugina prematuramente scomparsa, un adorato Dolcepapà e un gatto, fulcro esistenziale e coprotagonista che condizionerà azioni e decisioni senza che questo venga avvertito come un sacrificio.

A ben guardare nulla di veramente eclatante se rapportato alla soglia di tolleranza comune, in fondo tutti sono attraversati da piccole e grandi gioie e da piccoli e grandi dolori, ma la visione della protagonista apre una finestra sulla depressione e sulla distorsione operata da una patologia neurologica di base (una larvata sindrome di Asperger) che trasfigura situazioni e percezioni collocandole in un’atmosfera di eccezionalità che non sempre il lettore può riconoscere come tale. Un percorso per certi versi simile a quello compiuto da Gail Honeyman in Eleanor Oliphant sta benissimo con il quale Preludio alla follia condivide la difficoltà di leggere certe dinamiche relazionali e la presenza di una madre ingombrante che in qualche modo altera la percezione di sé.

Il processo di identificazione appare allora più immediato in certe pulsioni inesprimibili che la maschera sociale impone di controllare e di reprimere, in certe sensazioni che albergano nell’animo umano come patrimonio comune al quale non è possibile aprire un varco liberatorio.

Non mancano le situazioni leggere in questo romanzo breve, anzi se ne trovano parecchie nel continuo ondeggiare tra presente e passato che ricostruisce i tasselli fondamentali dell’infanzia e della giovinezza, epoche in cui le possibilità di sopravvivenza sembravano infinite e praticabili, e quelli dell’età matura, in cui la disillusione e la stanchezza assumono le sembianze di una pericolosa depressione, malattia di proporzioni sempre più ampie sulla quale l’autrice si sofferma come se volesse mettere in guardia il lettore per fornirgli strumenti utili al suo riconoscimento e al suo devastante potenziale.

Che prima o poi si scatenerà l’uragano della follia è chiaro sin dal titolo, ma l’evento è continuamente procrastinato, perché il lettore deve sentire l’esasperazione della protagonista giungere all’apice e frattanto congetturare su chi ne resterà vittima e per quale motivo, quindi ovviamente non staremo qui a fare rivelazioni inopportune.

Sarebbe bello alla fine immaginare di sentire la risatina lieve dell’autrice che strizza un occhio e sussurra: “Ci hai creduto? Era tutto un gioco!”, ma di certo l’epilogo vuole invece mantenere un carattere di assoluta drammaticità attraverso una riflessione su quanto la follia non sia affatto straordinaria e immediatamente percepibile, riflessione che l’autrice aveva già effettuato nel recente Tre gesti di ordinaria follia edito da Tabula Fati.

E la madre tiranna? Alla fine è soltanto una vecchietta affetta da demenza con la quale l’autrice e la protagonista, dopo la morte, possono riappacificarsi, senza rancore.

Daniela Di Benedetto

Preludio alla follia

Pietro Vittorietti Edizioni

pp.184, € 12.00

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/28/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

anche su www.articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/03/distorsioni-percettive-di-una-scrittrice-preludio-alla-follia-di-daniela-di-benedetto-pietro-vittorietti-edizioni/

Melancolia della resistenza di L. Krasznahorkai

Saggistica breve. Letteratura

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

 

Dev’essere una fissa della letteratura dei paesi europei centro-orientali quella dei personaggi strambi al limite dell’alienazione o della follia, quella delle storie in bilico tra la più abbrutente solitudine e i grandi sogni impossibili. Basterebbe scomodare autori quali i cechi Hrabal o Haŝek per averne conferma, ma la lettura di Melancolia

della resistenza dell’ungherese László Krasznahorkai, pur vicino nello spirito e nella caratteristiche essenziali agli autori citati, se ne distacca per la totale assenza di ironia che viene sostituita da una visione più cupa e disperata dell’agire umano.

Ripubblicato a distanza di cinque anni (la prima edizione italiana era della scomparsa casa editrice Zandonai) da Bompiani, il romanzo è ambientato in una piccola cittadina ungherese, sulla quale l’autore preferisce mantenere l’anonimato pur inserendo alcune coordinate che potrebbero facilitarne l’identificazione, al fine di rendere subito evidente e forte la valenza metaforica che potrebbe assumere la vicenda. Nello srotolare le microstorie dei tanti abitanti, Krasznahorkai utilizza una tecnica che potremmo definire “a staffetta”, perché la storia avanza e progredisce nel momento in cui il personaggio coinvolto porge il testimone al prossimo personaggio del quale il narratore seguirà la corsa o il pantano immobile, le emozioni segrete o gli avidi istinti.

La recente proliferazione di romanzi distopici – tra i quali Melancolia della resistenza si inserisce a pieno titolo – segnala con chiarezza una condizione di tentata e mancata resistenza ad una società civile – o forse è più opportuno dire incivile – nella quale non ci si riconosce più. Il cambio di guardia prospettato da Krasznahorkai non veste i panni del nuovo, ma sembra sprofondare negli anni bui dell’ordine costituito – dall’alto e senza possibilità di confronto – e dell’asservimento brutale ai cinici di professione, ai rampanti ammannitori di improbabili banchetti populisti. Se teniamo conto del fatto che il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1989, l’autore si mostra critico tanto nei confronti dell’agonizzante comunismo ungherese, che avrebbe ridotto il paese in un luogo malsano dominato da paure indefinite, sia nei confronti degli eventuali “nuovi manovratori” che spacciano l’ordine come il più prezioso dei beni conseguibili e complottano – immolando il solito capro espiatorio – per crearsi una credibilità politica e sociale a buon prezzo. Nel solco aperto nella fase del cambiamento, si insinua un grottesco circo che espone una gigantesca balena imbalsamata e che, pare, si porti dietro un seguito di facinorosi e violenti personaggi che si abbandona a violenze tanto inaudite quanto gratuite. Pur senza essere regale e minacciosa come la bianca Moby Dick, anche intorno a questa balena si coagula un universo di paure e speranze, di sensazioni contraddittorie e spiazzanti. Il giovane postino Valuska vi scorge una bellezza magnetica che cattura lo sguardo e lo immobilizza nell’atto del guardare, gli altri invece ne avvertono un sentore di marcio e di decomposizione, un’attrazione perversa che istiga alla violenza.

E’ un romanzo strano e allucinato, che afferra e risucchia per qualche pagina per poi respingere in modo molesto, come nella lunghissima tirata del vecchio Eszeter, intellettuale e musicista, che attraverso il semplice atto di attaccare un chiodo trova la quintessenza di una personalissima filosofia: egli decide di far cambiare rotta alla sua stanca vita, con un’ulteriore chiusura al mondo esterno e una patologica apertura empatica al giovane mezzo matto, Valuska, cui vanno per intero anche le simpatie del lettore, l’unico personaggio – tra squali e opportunisti di professione – che conservi ancora la capacità di stupirsi e di scorgere ed apprezzare il bello anche dove non ce ne sarebbe neanche l’ombra.

Che da un romanzo tanto immaginifico e visionario si potesse trarre un film altrettanto denso di immagini e situazioni simboliche era persino troppo ovvio. E’ del 2000, infatti, il suggestivo Le armonie di Werckmeister, sceneggiato dallo stesso Krasznahorkai e dal regista Béla Tarr, il cui titolo rimanda al musicista tedesco noto per un tipo particolare di accordatura che, nel romanzo, rappresenta l’obiettivo degli inani studi del vecchio Eszeter, coniuge tradito e abbandonato a se stesso della spregiudicata donna che prenderà, insieme con un sinistro e compiacente generale, le redini del potere nella cittadina ormai giunta al collasso definitivo. Nel romanzo, come nel film, i due personaggi chiave del sognatore Valuska e del musicista Eszeter hanno un ruolo privilegiato, essi sono i depositari della tentata malinconica resistenza al male, ma il loro approccio con la realtà è troppo astratto e utopico, non può attecchire nessun sogno nel terreno solcato da cadaveri e immondizia in cui la sorte li ha posti a vivere. Sono perdenti, eroi e martiri, l’uno con lo sguardo perennemente in alto nella stupita osservazione del cosmo, l’altro sedotto dal richiamo dell’armonia cercata nelle note e nella purezza dei rapporti umani.

Durante la lettura potrà capitare di odiare certe complicazioni linguistiche e certe estenuanti lentezze, ma alla fine, anche a distanza di mesi, qualcosa rimane pervicacemente attaccato alla memoria, qualcosa di indefinibile che possiede un retrogusto malinconico e inquietante.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/22/la-balena-imbalsamata-di-krasznahorkai-melancolia-della-resistenza-ed-bompiani/

pubblicato anche su www.articolo.21.org

https://www.articolo21.org/2019/02/la-balena-imbalsamata-di-krasznahorkai-melancolia-della-resistenza-ed-bompiani/

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/

Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale

Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale. I classici della letteratura moderna e contemporanea

Thomas Mann La montagna incantata: dedicato a chi non si lascia prendere dalla fretta, questo è un colossale romanzo di formazione in cui si fondono l’attraversamento vertiginoso del tempo immobile e dilatato di un sanatorio e lo snodarsi della vicenda di un singolo come simbolo della storia del popolo tedesco alla vigilia della grande guerra. Hans Castorp, un giovane borghese giunto nel sanatorio svizzero di Davos per incontrare il cugino lì ricoverato, effettuerà il proprio percorso di maturazione attraverso i temi universali della malattia, dell’amore e della morte. L’incontro con alcuni personaggi carismatici gli farà conoscere il conflitto, che rimarrà irrisolto, tra l’irrazionalità e l’individualismo da una parte e la fiducia nel progresso materiale e nella scienza dall’altra. Il vasto e avvolgente tessuto narrativo di una prosa complessa e perfetta consente digressioni di impianto saggistico che sembrano sgorgare in modo spontaneo e naturale dai dialoghi dei personaggi.

“Ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano” dice lo stesso Mann, parole su cui meditare.

Josè Saramago Caino: ”La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui”. Basterebbero queste poche folgoranti parole per comprendere la grandezza di un testo breve, scorrevole ed estremamente gradevole in cui l’autore portoghese immagina la storia di Caino all’indomani dell’odioso fratricidio. A cavallo di un mulo, in una landa desolata che funge da bizzarra macchina del tempo, Caino racconta le più note vicende bibliche – dalla costruzione della torre di Babele alla distruzione di Sodoma, dal sacrificio di Isacco alla consegna delle tavole della legge a Mosè, dall’accanirsi della sventura sul probo Giobbe alla costruzione dell’arca di Noè – attraverso il punto di vista straniante del protagonista, che coglie l’insensatezza e la crudeltà delle richieste di un Dio egocentrico che appare pertanto molto più discutibile delle antropomorfizzate divinità dell’Olimpo. Di Saramago – uno dei Nobel più meritati che sia mai stato attribuito – si consiglia comunque la lettura sistematica di tutta l’opera.

Giuseppe Berto Il male oscuro: a chi si lascia andare alla depressione da festività natalizie e a chi soffre di ipocondria molesta questo bellissimo romanzo psicanalitico offre una spalla sulla quale piangere e uno specchio nel quale riconoscersi. La narrazione fortemente biografica ed introspettiva sfrutta l’espediente che già fu di Svevo ne La coscienza di Zeno, cioè quello della scrittura come terapia suggerita dall’analista, e il protagonista si configura come uno dei fratelli più giovani dei tanti inetti primonovecenteschi. Partendo dal difficile rapporto con l’ingombrante figura paterna e con l’irrisolto nodo della sua morte, Berto sviscera la natura dei suoi mali – riassumibili in un unico male oscuro – e la natura delle relazioni con altre figure condizionanti della sua vita, tra cui la moglie, fino ad approdare al porto sicuro di un voluto e voluttuoso isolamento nel lembo estremo dell’Italia che guarda alla Sicilia come terra ancestrale dal prorompente richiamo. Dalla lotta con il padre all’identificazione con esso, dalla ricerca dell’autonomia al bisogno di ritrovare le proprie radici, in fondo si tratta del passaggio noto e comune a tante generazioni.

Gabriel Garcìa Màrquez L’amore ai tempi del colera: se siete ostinati e se avete una visione romantica della vita questo è il libro perfetto. Si può modulare la propria vita sociale e lavorativa per raggiungere l’obiettivo del coronamento di un sogno d’amore? Florentino Ariza lo fa con convinzione e caparbietà, con la fede incrollabile in un destino che prima o poi aprirà le porte ai suoi desideri. Passeranno “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” prima che ciò avvenga, ma il tempo è relativo quando si parla di felicità, e anche un breve e fuggevole appagamento può valere il tempo lunghissimo dell’attesa. Per chi ci crede… Naturalmente il romanzo attraversa il Novecento latinoamericano fornendo anche uno spaccato sociale di indubbio interesse.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/19/qualche-libro-da-regalare-o-regalarvi-a-natale-i-classici-della-letteratura-moderna-e-contemporanea/

“Andrè e Dorine”del KulunKa Teatro

La perdita delle ‘piccole cose’. ‘André y Dorine’ al Teatro Libero di Palermo

 

Un interno discreto e raccolto con scrittoio, poltroncina, qualche mensola e tante foto appese al muro che racchiudono il percorso comune di una coppia giunta alla vecchiaia. Lui è uno scrittore prolifico ma non particolarmente affermato che continua a produrre, lei una violoncellista che strimpella qualche nota per farsi compagnia e attirare l’attenzione del compagno. Sono le solite dinamiche note delle coppie antiche quelle che si aspettano dall’altro solo la presenza che basta e avanza per condire quel poco di vita che rimane.

Ogni tanto la visita frettolosa del figlio ormai adulto che porta un piccolo dono ai genitori già pronti e predisposti all’ennesimo abbandono. Ma sarebbe troppo semplice e persino bello questo ménage paziente di reciproca tolleranza, questa condivisione di giorni uguali senza alcuno spiraglio di novità diverso da un mesto sorriso o da un affettuoso rimbrotto, è ovvio che non può durare…

Dopo più di cinquecento repliche in giro per il mondo, giunge al Teatro Libero di Palermo – con il supporto di PICE/Acción Culturale Española – la compagnia basca Kulunka Teatro con il pluripremiato André y Dorine di José Dault, Garbiñe Insausti, Iñaki Rikarte, Edu Cárcamo e Rolando San Martín. Successo meritato, perché lo spettacolo, nell’affrontare le tematiche universali di amore, malattia e morte, gode di una grazia particolare costituita dall’equilibrio perfetto tra malinconia e leggerezza. L’uso del physical theatre ha inoltre consentito il superamento di qualsiasi barriera linguistica (anche il cinema muto delle origini era fruibile alla stessa maniera), mentre l’uso delle maschere conferisce paradossalmente un tocco di maggiore umanità ai personaggi, come se i sentimenti venissero amplificati dai volti enormi ed inespressivi, per cui lo spettatore stenta a comprendere come sia possibile trasmettere persino impercettibili variazioni emotive nonostante l’imperturbabilità esibita dalla maschera. Così nello spettacolo, diretto da Iñaki Rikarte, e interpretato dagli stessi autori – José Dault, Garbiñe Insausti ed Edu Cárcamo – non sono le parole ad accompagnare la narrazione, ma le musiche di Yayo Cáceres, contrappunto gioioso o malinconico dello snocciolarsi del presente e dei ricordi.

Il giorno in cui arriva l’infausta sentenza sulle compromesse facoltà mentali di Dorine, André sembra non interessarsene, ma è soltanto il disperato tentativo di rifiutare ciò che sarebbe troppo difficile da accettare. La storia di questa coppia comincia a materializzarsi in ampi flashback scenici di ariosa freschezza e di sottile ironia avviati da un gesto o da una fotografia che traghettano nel presente amaro, perché le vittime della demenza non sono semplicemente quelle colpite direttamente dal male ma anche quelle che intorno a quel male sono costrette ad orbitare. I familiari, inizialmente spiazzati e determinati a resistere, pian piano si adeguano all’unica via percorribile, quella dell’accettazione che può esistere soltanto se le radici dell’amore sono davvero profonde, tanto profonde da trasformare un timido abbraccio in un ballo romantico e dolcissimo, finché gli allegri coriandoli nuziali trattenuti dal ricordo si trasformano in petali funebri e la custodia dell’amato violoncello diventa simbolica bara nella quale seppellire la donna e il suo universo.

Se è vero che l’arte attinge alla vita per indagarne i meccanismi e le verità, è interessante notare come la tematica della malattia – nell’inquietante e desolante versione della demenza senile – sia presente in maniera ossessiva e continua al cinema, nella letteratura e nel teatro. Forse l’attuale trionfalismo scientifico dell’allungamento della vita si scontra inevitabilmente con i guasti della dilatazione temporale di una vecchiaia in certi casi indignitosa e l’arte sa smascherare le statistiche, sa leggere oltre i numeri e le percentuali. Da Le pagine della nostra vita di Nick Cassavetes ad Iris – Un amore vero di Richard Eyre, da La versione di Barney di Mordecai Richler a Io non ricordo di Stefan Merrill Block, da I nostri passi di Chiara Bazzoli a Il Vangelo secondo Antonio di Dario De Luca le opere sull’argomento sono tantissime e l’elenco si potrebbe allungare a dismisura. Si tratta della conferma di un’emergenza narrativa che attraversa le ultime generazioni e si pone come tema etico dominante sul quale è necessario fermarsi a riflettere.

La regia pulita e sensibile e le capacità di espressione corporea degli interpreti consentono allo spettacolo di trasformarsi in una storia perfettamente leggibile che sa far sorridere senza allentare mai la morsa che stringe il cuore e che in qualcuno fa sgorgare una lacrima.

Il vecchio André affida la sua storia più intima e vera alla carta, la narrazione diviene dunque memoria e trasmissione di sentimenti e dolori per quelli che saranno in grado di raccoglierli, di porgere orecchio e di restare in ascolto.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/12/01/la-perdita-delle-piccole-cose-andre-y-dorine-al-teatro-libero-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/12/la-perdita-delle-piccole-cose-andre-y-dorine-al-teatro-libero-di-palermo/

ANDRÉ Y DORINE

drammaturgia José Dault, Garbiñe Insausti, Iñaki Rikarte, Edu Cárcamo, Rolando San Martín

regia Iñaki Rikarte

con José Dault, Garbiñe Insausti, Edu Cárcamo

scene Laura Gómez

musica Yayo Cáceres

costumi Ikerne Giménez

luci Carlos Samaniego “Sama”

maschere Garbiñe Insausti

fotografia Gonzalo Jerez “El Selenita”

aiuto regia Rolando San Martín

Kulunka Teatro / Bilbao – Spagna

1 5 6 7 8 9 11