Little Joe

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Il fiore rosso della felicità. ‘Little Joe’ di Jessica Hausner, Prix d’interprétation féminine Cannes 2019 a Emily Beecham

@ Agata Motta (13-08-2020)

Un caschetto di capelli rossi e uno sguardo mite e innocuo, il fisico esile come quello di un elfo. Si presenta così Emily Beecham, vincitrice del Premio all’interpretazione femminile al Festival di Cannes 2019, nel ruolo di Alice, una fitogenetista che lavora con un’équipe di scienziati alla creazione di un fiore che dovrebbe innescare una vera e propria rivoluzione sociale ed economica per le proprietà terapeutiche del suo profumo.

Little Joe, in uscita il prossimo 20 agosto, è un delizioso film, diretto con rigore e forte senso estetico dall’austriaca Jessica Hausner, che al di là delle etichette di genere che gli sono state attribuite (distopico, fantascientifico) offre innumerevoli sollecitazioni etiche, un impianto fortemente metaforico e un’atmosfera paranoica che non sembri assurdo definire elegante e stilizzata.

L’ambientazione è londinese, ma naturalmente potremmo trovarci in qualsiasi altra parte del pianeta votata all’industrializzazione, all’ottimizzazione dei profitti e al sacro furore della ricerca scientifica. Che un profumo seduca, influenzi le scelte e determini comportamenti non è una scoperta eccezionale, lo hanno ben capito le star del mondo dello spettacolo, gli imprenditori e le grandi catene alberghiere che usano fragranze accattivanti per predisporre alla sensualità, all’acquisto e al benessere, ma qui il passo compiuto è assai più lungo e non può non condurre nella selva intricata dell’ingegneria genetica praticata con discutibile disinvoltura.

Nel bianco asettico e abbacinante del laboratorio aziendale, il fiore erge la sua fiammeggiante corolla lanciando promesse di successo allo sguardo assorto degli scienziati che lo coccolano amorevolmente, prima tra tutti la solerte e determinata Alice, che non esita ad effettuare mutazioni genetiche poco ortodosse per il raggiungimento dell’obiettivo: il fiore, sprigionando ossitocina, deve indurre al cervello una sensazione di appagamento simile ad uno stato costante di felicità, un vero passo da gigante nella storia dell’umanità da sempre in lotta con la sofferenza e con il malessere interiore.

Malessere che attanaglia la stessa protagonista, madre proiettata alla realizzazione professionale e rosa da sensi di colpa nei confronti del figlio adolescente Joe. Alice tenta di far luce sui propri lati oscuri tramite sedute di psicoterapia che serviranno soltanto a sedare timidi bagliori di lucida coscienza nei confronti della realtà esterna che pare voglia sfuggirle di mano. Per la terapeuta (Lindsay Duncan) infatti, tutto dev’essere ricondotto nell’alveo rassicurante di una razionalizzazione delle pulsioni e dei desideri inconfessabili e pertanto repressi, come quello, inaccettabile per qualsiasi madre che si ritenga amorevole e devota, di volersi alleggerire del peso di un figlio limitante per la propria carriera.

Il malessere soffoca anche Bella (tenera Kerry Fox), l’anziana collaboratrice dal fosco passato, unica portatrice sana di pensiero divergente in un ambiente infetto. La donna comprenderà subito l’impatto devastante degli effetti collaterali dello splendido fiore e, come Cassandra, rimarrà profeta inascoltata di prossime sventure finché il sistema, fallito il tentativo di assorbirla, non ne decreterà l’espulsione. Gli altri colleghi e collaboratori (David Wilmot, Phénix Brossard, Sebastian Hülk), tutti efficacissimi sul piano di una recitazione volutamente pacata e senza eccessi, saranno progressivamente fagocitati dal sinistro fascino olfattivo del fiore che placherà insicurezze, dubbi, e qualsiasi altra manifestazione di disagio. Persino il timido Chris (un camaleontico Ben Whishaw), corteggiatore discreto e paziente perderà le sue specifiche caratteristiche per divenire un ambizioso ricercatore senza scrupoli e un innamorato intraprendente e a tratti prevaricatore nell’intrufolarsi capziosamente nel rapporto di Alice con il proprio figlio.

Joe (Kit Connor), del quale il fiore porta il nome come se per Alice fosse quasi un duplicazione, è un perfetto prototipo di adolescente figlio del suo tempo che vedrà interrotto (o trasformato/evoluto?) il profondo legame affettivo con la madre a causa della presenza del rosso ospite trapiantato illecitamente in casa come innocente dono risarcitorio. Se l’essere umano vive lottando quotidianamente con i propri mostri, la loro definitiva sconfitta porta ad una condizione simile alla morte, come esplicitamente dichiarano, sotto forma di scherzo, Joe e la sua amichetta del cuore in un significativo dialogo che sembra volerci condurre ad una interpretazione risolutiva per poi avviarci nuovamente sui sentieri già battuti del dubbio.

Sotto il profilo squisitamente tecnico, il film possiede un impianto connotato dai contrasti, sia per quanto riguarda le contrapposizioni cromatiche valorizzate dall’ottima fotografia di Martin Gschlacht  sia per quanto concerne il linguaggio delle riprese che dipanano pigramente l’elemento perturbante che si insinua poco alla volta nella mente dei personaggi.

Il bianco e il rosso, con la variante del fucsia, e il verde mela dominano incontrastati negli interni del laboratorio, dai quali emana una sensazione ambigua di freddo – i camici bianchi degli studiosi e i loro calcoli razionali – e di caldo umido – i petali filiformi e folti che si distendono beati nella serra/incubatrice loro destinata – mentre tinte più cupe e tonalità ramate come quella dei suoi capelli dominano l’abitazione di Alice. La macchina da presa avanza con lente carrellate in netta opposizione alla velocità di crescita che si vorrebbe imprimere alle piante per essere pronte per la grande esposizione che segnerà il traguardo dell’ardita sperimentazione.

La sceneggiatura della stessa Jessica Hausner e di Géraldine Bajarde porge dialoghi scarni e asciutti, l’impotenza delle parole scagliata contro il muro di una coalizione di intenti. Vengono invece sfruttate le variazioni quasi impercettibili della mimica facciale che riflette comportamenti nuovi e stati d’animo diversi, i gesti mai esibiti o ridondanti, le atmosfere ora fiabesche ora iperrealistiche che slittano in quelle da costante incubo ad occhi aperti, le musiche del compositore giapponese Teiji Ito che costruiscono un ordito di suoni dolci e percussivi, il montaggio sonoro di Tobias Fleig che inserisce un sottofondo di latrati, quasi ad annodare un filo immaginario con il cane Bello, lo stesso nome declinato al maschile della proprietaria che non esiterà a farlo sopprimere quando non lo riconoscerà più come il proprio oggetto d’amore.

Nessuna violenza esibita, nessuna scena forte da digerire, solo una leggera, serpeggiante inquietudine che di tutti questi contrasti si nutre.

Il fiore è sterile, per sopravvivere ha quindi bisogno di una riproduzione assistita che solo gli esseri umani possono garantirgli in uno scambio di “favori” che potrà perpetuare lo spiraglio di felicità conquistata coincidente con la fine delle emozioni. Un virus (casuale e inquietante riferimento in questa fase storica che al virus è assoggettata) si trasmette al cervello per costringerlo ad amare il fiore e a far sì che non si estingua.

Davvero tante le chiavi di lettura e tra tutte si è liberi di scegliere la propria, sebbene l’autrice  definisca nell’ultima scena il quadro multiforme schizzato con volute polivalenze.

Il messaggio più semplice e superficiale, da fiaba a lieto fine e pertanto assai improbabile, sarebbe che se ci prendiamo cura di qualcuno o di qualcosa esso possa restituirci l’amore e la felicità che meritiamo, ma qui c’è qualcosa di più sottile e inquietante, perché l’amore presenta sempre le sue insidie, porge un conto da pagare. Il fiore, che esala vapori apparentemente benefici e pollini in grado di modificare le strutture psichiche, sembra più che altro la messa in scena di un legame profondo e perverso con le parti più intime e nascoste dell’Io, di un amore simile a quello di Narciso, devastante e impossibile, condannato a ripiegarsi su stesso e a nutrirsi di proiezioni illusorie.

La felicità rincorsa da un’umanità zombificata sarebbe frutto dell’assenza di empatia, di una finzione che porta a recitare se stessi per mantenere un appagamento che possa protrarsi oltre l’effimero degli attimi fuggenti, della messa al bando dei sensi di colpa e degli scrupoli etici, di un parossistico individualismo che bandisce sentimenti potenzialmente dolorosi per crearne di nuovi perfettamente anestetizzati.

Il dubbio resta la sostanza pregnante del film. Si è trattato di suggestioni o dell’avvio verso una nuova società di uguali, di soldatini efficienti impegnati nel perpetuo sogno della conquista della felicità?

https://www.scriptandbooks.it/2020/10/02/il-fiore-rosso-della-felicita-little-joe-di-jessica-hausner-prix-dinterpretation-feminine-cannes-2019-a-emily-beecham/

“Altrove” di Agata Motta su Scenario

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Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

 

 

Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.

La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.

La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.

Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.

Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

http://www.inscenaonlineteam.net/2020/08/07/la-necessita-di-restare-tabula-fati-pubblica-la-produzione-drammaturgica-di-agata-motta-nel-volume-altrove/

Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

Altrove
Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.
La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.
La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.
Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.
Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

 

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

https://www.edizionitabulafati.it/altrove.htm

 

Tre Piani di Eshkol Nevo

Reperti del dolore. ‘Tre piani’ di Eshkol Nevo, ed. Neri Pozza

@ Agata Motta (27-04-2020)                          Letteratura. Saggistica breve.

Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.

Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che  riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.

Marc Chagall (1887-1985)_Het blauwe huis

Marc Chagall, Il sogno di Giacobbe

La sua è un’altra limpida voce che giunge da Israele, dopo quelle già da tempo affermate ed apprezzate della generazione precedente – Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman – e con esse condivide la necessità di raccontare storie di disagevoli normalità con lo scavo meticoloso e asettico di un bisturi che si fa spazio dentro i labbri di una ferita infetta, ma senza alcun compiacimento, come mosso da una necessità conoscitiva che trova la sua piena realizzazione nella comunicazione con l’altro, con colui che saprà ascoltare. Già con Nostalgia, pubblicato inizialmente da Mondadori e poi da Neri Pozza, casa editrice che ha continuato a seguire tutto il percorso dell’autore, Nevo aveva raccolto grandi consensi e il successo ha accompagnato anche i lavori successivi.

Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.

Marc Chagall, Violinista verde

Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.

Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.

Talmud babilonese

Marc Chagall, Sabbath

Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.

La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.

Marc Chagall_Russian village

E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.

Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/reperti-del-dolore-tre-piani-di-eshkol-nevo-ed-neri-pozza/

“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

anche su Artcicolo21

https://www.articolo21.org/2020/04/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

“Viva la vida”spettacolo su Frida Kahlo

L’anima prigioniera di Frida. ‘Viva la vida’, con Pamela Villoresi, al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-03-2020)

Teatro. Saggistica breve.

Palermo – In questi giorni di confuso smarrimento, di attesa, di rabbia, di impotenza, il Teatro Biondo ha aperto per tre pomeriggi (dal 6 all’8 marzo) il proprio sipario virtuale in sala Strehler proponendo Viva la vida, spettacolo su Frida Kahlo liberamente tratto dall’intenso monologo di Pino Cacucci, che ha definito la pittrice come colei che meglio ha saputo dipingere l’anima profonda e ancestrale del Messico.

Diretto con precisione e grande sensibilità da Gigi De Luca, che ne ha curato anche il progetto e il fedele adattamento, il lavoro, prodotto dal Biondo, riesce a fondere gli ossimori stridenti che hanno caratterizzato l’esistenza di una donna fuori dal comune, innamorata della vita nonostante la presenza di un dolore necessario e perenne.

Inizialmente la voce galleggia nel buio a narrare le proprie origini – quasi una sorta di predestinazione alla complessità – poi la luce incontra e svela il corpo di Frida, ovvero il corpo di una magnifica Pamela Villoresi che indossa immediatamente il personaggio per impossessarsi del suo dolore, della sua voracità e della sua carne.

L’arbusto rampicante trafitto da fiori rossi che si abbarbica sulla poltrona/letto che accoglie il corpo tormentato della donna è il primo timido segnale di una natura che ha prodotto aridità e passioni, ma è anche il simbolo dell’importanza attribuita a radici culturali mai rinnegate e sempre coltivate.

Poi la trama compatta e preziosa della drammaturgia e il sicuro incedere verbale della protagonista accendono l’incanto di uno spettacolo vertiginoso e coinvolgente, in cui la scelta registica di inserire il canto risulta vincente, il canto come compagno/antagonista, perché tutto in questa esistenza martoriata è lotta, contrasto, coesistenza di opposti e bisogno di mescolarne i succhi per trarne nutrimento. Ecco che la struggente voce di Lavinia Mancusi diviene anch’essa corpo vivente, quello di Chavela Vargas, altra mitica figura messicana che accompagnerà Frida nell’ultima parte del suo percorso umano e artistico: “Le due donne si incontrano per caso e si riconoscono”, la bambina malata e la gatta randagia, nella bella definizione della scrittrice Silvana La Spina. Alla parola allora saranno affidati il dolore rabbioso, il ruggito, la stanchezza, l’amore, l’arte; al canto il soffio vitale, anche quando è velato di malinconia, anche quando traveste la sofferenza con i panni colorati dell’allegria.

La Villoresi conduce magistralmente il gioco spietato degli ultimi giorni – quelli del riepilogo, della sintesi, del bilancio, dell’immersione memoriale e della trasfigurazione nel sogno – con azioni minime ma con tutte le modulazioni vocali necessarie a restituire la multiforme esperienza di un’anima inquieta prigioniera di un corpo malato: la scoperta della pittura e delle sue capacità catartiche, l’impegno politico condiviso con il marito due volte sposato, Diego Rivera, muralista illustre e adultero impenitente, amore fatto di tormento e sollievo, amore indispensabile come l’aria, lo strazio degli aborti ripetuti e l’impossibile maternità per un ventre profanato da un’asta metallica nel terribile incidente che, a soli diciotto anni, devastò il fragile corpo già segnato dalla malattia marchiandolo con l’infamia di continui interventi e onnipresenti dolori, il sollievo tratto dall’alcol e dalla morfina, l’interesse per il suo popolo e le sue tradizioni cui si sente legata a doppio filo, l’attrazione per le donne e la complicità tutta femminile che rende unici certi legami, il desiderio sorprendente suscitato in altri uomini e talvolta ricambiato, l’ostinazione alla vita nonostante tutto, l’abitudine alla sofferenza e alle insospettabili risorse che da essa possono scaturire.

Elementi dedotti dalla biografia e dalla pittura si offrono come fertili sollecitazioni per le scelte registiche che agiscono in sinergia con quelle più propriamente tecniche.

Frida Kahlo, La colonna spezzata

Nell’impianto scenografico Maria Teresa D’Alessio accoglie, reinventa e restituisce con grande scrupolo e precisione questi elementi, per cui il grande specchio, che nel lunghissimo periodo dell’immobilità aveva consentito alla donna di ritrarsi o di decorare i busti indossati come una seconda pelle, diviene occasione per una recitazione non convenzionale, con l’attrice seduta di spalle ma perfettamente visibile al pubblico sullo specchio; il celebre dipinto La colonna spezzata detta il tema pittorico che la body painter Veronica Bottigliero riproduce sul corpo nudo dell’attrice – bende bianche che lasciano scoperto il seno – con il valore aggiunto di sapore metaforico delle cicatrici deturpanti che si trasformano in quegli intrichi di foglie e natura lussureggiante tanto cari all’artista. E ancora Le due Frida e Autoritratto come Tehuana guidano le mani esperte di Roberta Di Capua e Rosario Martone nel confezionamento del corpetto ricamato e del manto/copricapo che l’attrice indosserà dopo aver scrollato l’immobilità dal corpo nudo per lasciarsi sedurre da altre movenze e altri stati d’animo.

Anche le luci di Nino Annaloro giocano un ruolo importante nella messa in scena perché occultano e svelano, seguendo il ritmo della narrazione, o aprono squarci onirici, come nella scena bellissima in cui Frida, sulla scia di un fascio di luce che sembra una strada da percorrere con il pensiero, rievoca un’abitudine contratta sin da bambina, quella di disegnare una porta sul vetro appannato e da lì intrecciare dialoghi con un’amica immaginaria eppur presente nelle lunghe giornate di immobilità e solitudine. “A che servono le gambe quando si hanno ali per volare?” I sogni, quelli tossici e maledetti che anticipano la morte o quelli salvifici e forieri di refrigerio, restano l’unico senso da attribuire alla vita, l’unica via di fuga quando tutto ciò che si ha intorno diventa insostenibile.

La pioggia battente che ha battezzato la nascita Frida e la sua crescita, la pioggia sottile che si è fusa tante volte alle sue lacrime, la pioggia violenta che ha flagellato la sua anima in pena, la pioggia tante volte evocata nella narrazione si placa infine in un gocciolare assorto e continuo, lento come la Pelona – la Morte – che finalmente si fa strada a viso scoperto per porre fine al suo capolavoro: averla risparmiata tante volte affinché la vita tanto amata potesse assassinarla lentamente.

Frida Kahlo, Viva la vida

Sulla polpa rossa e succosa delle angurie raffigurate in una natura morta l’artista scriverà poco prima di morire “Viva la vida”, un manifesto artistico, una dichiarazione d’amore, un epitaffio, uno sberleffo al destino idiota.

Appare superfluo sottolineare che uno spettacolo visto su streaming viene mortificato in quella che è la vera essenza del teatro – la percezione con tutto il corpo delle vibrazioni provenienti dal palcoscenico – purché sia chiara “l’eccezionalità” della proposta che in alcun modo deve far sorgere tentazioni future in questa direzione. Il cambio epocale prodotto dalle pay tv nell’universo cinematografico, che ha portato molti illustri studiosi a preconizzare la morte imminente del film fruito in sala, dovrebbe portare ad innalzare barriere protettive verso qualsiasi fenomeno di “disumanizzazione” dell’evento artistico o di desertificazione dei luoghi d’incontro, pena una forma di onanismo culturale dall’orrido aspetto.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/13/lanima-prigioniera-di-frida-viva-la-vida-con-pamela-villoresi-al-teatro-biondo-di-palermo/

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L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

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Una terzina in attesa del countdown

Una terzina in attesa del countdown. Ulisse, la virtù, la conoscenza, il limite

@ Agata Motta (25-02-2020)

Manca ancora un anno, ma già si pianificano progetti e iniziative di diverso genere per arricchire la catena di eventi legati al settecentenario della morte di Dante, tra cui la bizzarra proposta dell’istituzione di un “Dantedì” o “Dante day” da dedicare al genio fustigatore di papi, sovrani, concittadini, città e nazioni.

Che i classici siano tali perché continuano a parlare al cuore e alla mente dei contemporanei non è una verità sulla quale sia necessario imbastire dibattiti o effettuare puntualizzazioni, così come non dovrebbe suscitare meraviglia che dei classici ci si possa innamorare perdutamente e vergognosamente fino al punto di rileggerli con bulimica voracità e con la certezza di trovarvi risposte soddisfacenti e fresche come pane appena sfornato.

Dante è un classico il cui consumo può produrre assuefazione e seri effetti collaterali. Tra questi, molto comuni, specie mentre si consuma un peccato di qualsiasi foggia e natura, il pensiero ossessivo della pena da scontare in aeternum, mentre, più rare ma devastanti, possono verificarsi allucinazioni che portano il lettore ad immaginare il Sommo Poeta vivo e operante accanto a sé, magari assiso nel salotto di casa propria o alla poco parca mensa quotidiana, arcigno e nasuto, sprezzante e altero, magro e coronato d’alloro come in una delle tante raffigurazioni ottocentesche del Dorè, ospite assai scomodo e ingombrante, pronto a sentenziare e ad indicare, come farebbe Minòs orribilmente attorcigliando la coda intorno al corpo, in quale girone collocarci per le nostre sciagurate inclinazioni; mai che si materializzi su una cornice purgatoriale, accanto all’angelo biancovestito intento a cancellare la P di peccato dalla nostra fronte con l’aluccia compassionevole, o immerso nel rapimento estatico dei cieli paradisiaci ad indicarci, con un sorriso dolce come una promessa, il luogo di delizie che potrebbe appartenerci! Nelle inquiete apparizioni da sovradosaggio, il Nostro passeggia severo e cupo, ruminando atroci contrappassi, giudice inflessibile dei nostri vizi, ma pur sempre gigantesco e “divino” come la sua Commedia, definita tale da Giovanni Boccaccio, uno dei primi entusiasti commentatori.

Dante non fu solo Divina Commedia, questo è ovvio, ma non si può negare che ad essa principalmente ci si accosta con perdurante passione e devozione, forse perché con naturalezza si è imposta come il “testo sacro” degli italiani, non solo per l’avvio del processo che portò all’unità linguistica e per aver effettuato una sintesi perfetta di tutto il sapere del suo tempo, ma anche per la costruzione di un’identità comune fatta di versi mandati a memoria da generazioni sempre nuove di studenti, di immagini e personaggi scolpiti a tutto tondo nella memoria collettiva, di un patrimonio condiviso di bellezza che coincide con l’espressione massima della poesia e con l’altezza di una voce che ha saputo plasmare sintassi e lessico come creta per adattarli all’immensità delle proprie esigenze espressive.

Isolare soltanto alcuni versi non è impresa facile, perché sono davvero tanti quelli che possono offrirsi oggi con l’identica freschezza e solennità di un tempo, tanti quelli che invitano a percorsi sempre aperti, fecondi di input filosofici, politici e morali e linguisticamente preziosi, ma l’operazione va fatta per non rischiare di perdere la bussola in un viaggio impervio che egli potè compiere guidato dalla Ragione e soprattutto sorretto dalla Grazia divina, elementi non facilmente reperibili per chiunque si accinga adesso a comprare un biglietto per quella stessa meta: le “stelle”, bellissima, raggiante parola che chiude le tre cantiche consegnandole alla luce e al suo allegorico significato.

Amos Nattini, Inferno, Canto XXVI

Come lucciole che volteggiano al tramonto appaiono le anime dei consiglieri di frodi che risplendono sul fondo dell’ottava bolgia nascoste da lingue di fuoco. Siamo nel XXVI canto, il grosso del percorso infernale è già compiuto, manca poco per giungere a Lucifero, l’angelo ribelle conficcato nel centro della terra. Da solerte maestro Virgilio soccorre l’avida curiosità di Dante, ma l’allievo ha già compreso che il fuoco avvolge i peccatori e desidera invece arrivare subito al cuore del suo dubbio: chi avanza in quella fiamma divisa in due nell’estremità superiore? Sono Ulisse e Diomede che affrontano insieme il castigo divino così come insieme peccarono, spiega Virgilio, ed elenca con mirabile sintesi alcuni degli inganni più noti alla tradizione letteraria. A questo punto, immaginatelo pure il Dante personaggio che freme e desidera con tutto se stesso conoscere la verità sulla fine dell’eroe greco, ma immaginate anche il Dante autore con un sorrisetto sornione da primo della classe, pronto a risolvere una questione assai dibattuta nel Medioevo, periodo in cui la conoscenza dei testi omerici, scritti in greco, non era diretta e giungeva mediata da autorevoli scrittori latini. Dante dell’eroe conosceva le caratteristiche che erano state esaltate ed immortalate nel corso dei secoli, l’astuzia e la sete di conoscenza, quelle che avevano edificato la fama di un personaggio verso il quale il Nostro provava un’ammirazione smisurata e nel quale coglieva alcuni tratti dominanti della propria personalità, senza che questo gli impedisse di stigmatizzare la componente marcia dell’astuzia, cioè il ricorso all’inganno. Naturalmente non è la prima volta che in Dante coesistono sentimenti in aperto contrasto verso i dannati, molto spesso la condanna morale non esclude la comprensione, la pietà, l’ammirazione, la commozione; gli episodi legati alle indimenticabili figure di Paolo e Francesca o di Pier della Vigna ne sono solo gli esempi più eclatanti e noti.

Ma torniamo alla questione della fine di Ulisse. Dante propone una soluzione originale e non supportata dalla tradizione, ma del tutto coerente con l’altissimo profilo del personaggio: dopo tanto viaggiare, giunto alle colonne d’Ercole, invalicabile confine oltre il quale si affronterebbe l’ignoto, Ulisse esorta i pochi compagni di viaggio rimasti con lui a proseguire per conoscere anche il mondo sanza gente. Andranno incontro alla morte attraverso il folle volo, ma da questa orazion picciola sgorga il miracolo di una terzina che ha sfidato i secoli e che continua a costituire essa stessa una sfida per i suoi lettori:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

Eccoli i nostri versi perfetti, li conosciamo tutti, almeno una volta nella vita ne abbiamo considerato distrattamente il messaggio o li abbiamo pronunciati come un mantra per cogliere e assaporare fino in fondo l’universo concettuale racchiuso in una semplice terzina.

Come parlano all’uomo contemporaneo questi versi? Che significato si attribuisce oggi alla virtù e alla conoscenza? Sono ancora i tratti distintivi dell’essere umano? E l’uomo che uso ne fa? Possono essere collocati nella sfera sempre più mutevole e relativa dei valori universalmente riconosciuti e accettati come tali?

Per il Nostro il bisogno di conoscenza è insopprimibile, ad esso vota la propria esistenza – anche quando lo porta consapevolmente nella selva oscura, anche quando lo seduce fino a condurlo alle soglie della superbia – nella sua piena soddisfazione pone l’espletarsi della beatitudine.

Ecco perché il suo Ulisse, nella piccola nave travolta da un turbine e poi inabissata, non appare sconfitto; è rassegnato ad un volere superiore e consapevole della propria audacia, ma non vinto nel nobile impulso che lo ha posto al di sopra dei bruti. Dante umanamente lo comprende e lo sente a sé affine, ma sa di non dover temere il naufragio perché conosce il limite, sa che ogni passo avanti nella conquista del sapere può essere effettuato esclusivamente tramite il soccorso della grazia e ad essa si affida.

Questo, dunque, l’altro intrigante elemento di riflessione: la questione del limite. L’impulso tutto umano di conoscenza che si trasforma in implacabile arsura, in sogno faustiano e in acrobazie volte a spostare sempre più in là il confine della scienza con l’inevitabile prezzo da pagare necessita di limiti? E chi e in nome di cosa potrebbe imporli? Uno scienziato in base al calcolo preciso dei pro e dei contro di ogni manovra che possa incidere sulla natura? Un filosofo che forgi l’etica su nuovi basi dettate da nuovi bisogni? Un legislatore che alla luce dei cambiamenti in atto codifichi nuovi comportamenti legittimi e allenti le maglie su condotte discutibili? Un religioso che accolga tra le braccia l’essere umano in quanto tale con il suo carico di imperfezione e fallibilità?

La questione naturalmente è aperta e, sebbene ci si ritrovi sempre meno baciati dalle luminose certezze dantesche, è impossibile non avvertirne il fascino. Un limite può dunque farsi certezza di equilibrio? Un limite può contenere l’inquietudine e restituirla sotto forma di energia?

Snow Storm, William Turner

Ma è sul significato di virtù che bisognerebbe interrogarsi con maggiore volontà interpretativa; è questo forse oggi l’aspetto più seducente e meno dibattuto dei versi danteschi. Cosa significasse per Dante “seguire virtute” non lascia adito ad alcun dubbio: il suo concetto di virtù è quello mediato dalla teologia cristiana che additava principalmente la via del bene con la conseguente fuga dal male, il vivere rettamente in ogni ambito e settore seguendo le virtù morali e intellettuali; Dante si spende molto sul proprio personale modo di vivere e di sentire la virtù, ma la prioritaria finalità della Commedia è quella di indicare la via a tutti gli uomini di buona volontà affinché possano salvarsi e realizzare la felicità terrena e quella celeste. Ciò che nel De Monarchia era stato teoria nella Commedia diviene pratica.

Cos’è attualmente la virtù? Quell’insieme di imperativi morali innati nell’uomo, dei quali il mondo classico si è fatto lucido interprete, che hanno attraversato il Cristianesimo e poi le grandi rivoluzioni del pensiero, della politica, della tecnologia, per giungere intatti all’epoca del relativismo, del solipsismo e delle relazioni liquide? Un codice comportamentale intimo e personale e quindi non condivisibile a livello sociale? Chi si riallaccia al passato è un moralista o uno che continua a guardare all’essenziale che non soffre le offese del tempo? Sono cambiati gli occhi che guardano o le cose da guardare? Il ripiegamento intimistico di tanti individui è frutto di una rinuncia? E’ un compromesso valido chiudersi al mondo esterno per negarsi poi ogni pudore e riservatezza sulla grande piazza virtuale? Avere le idee chiare su ciò che si vuole e tentare di ottenerlo a ogni costo può costituire un modello esemplare?

Naturalmente è un gioco che non prevede risposte giuste o sbagliate.

Conoscere prima le regole e sapere come collocarsi sulla scacchiera della vita rende le finalità della partita semplici e chiare, tentare di costruirle man mano è senz’altro più eccitante ma disorientamento e sradicamento stanno in agguato dietro l’angolo. A tanti sta bene così, Dante di certo avrebbe avuto qualcosa da ridire.

E allora? L”importante è continuare a considerare la nostra semenza e a ricordare che fatti non fummo a viver come bruti… Ecco su questo ci sarebbero altre considerazioni da fare, ma lasciamo perdere…

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