“Tesnota” di K. Balagov

Saggistica breve. Cinema

Prigionie reali e narrative di una famiglia. ‘Tesnota’ di Kantemir Balagov, al cinema dal 1° agosto

 di Agata Motta 28-07-2019

Kantemir Balagov, giovane regista russo del Caucaso del Nord, studi di Economia e Legge messi da parte per inseguire prima la passione per la fotografia e poi quella per il cinema, con Tesnota (premiato a Cannes nel 2017 con il premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard e, l’anno successivo, al Festival Premiers Plans d’Angers) è al suo primo lungometraggio, ma dimostra già di avere idee chiare in fatto di stile. Formatosi presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – Leone d’oro a Venezia, nel 2010, per Faust ma già noto per la Trilogia sul potere – Balagov racconta la storia (sceneggiatura scritta a quattro mani con Anton Yarush), in gran parte vera perché ispirata ad un fatto di cronaca, del rapimento di una giovanissima coppia di fidanzati prossimi alle nozze e dei risvolti affettivi ed emotivi prodotti sulle famiglie, e solo marginalmente sui rapiti, chiamate a pagare un riscatto proibitivo per le reali condizioni economiche delle classi sociali di appartenenza.

Tempo e luogo sono immediatamente dichiarati nelle didascalie iniziali – 1998, Nalchik, Caucaso del Nord, Russia – per consentire la corretta contestualizzazione di una vicenda che riprende il filo mai interrotto della diaspora ebraica e della convivenza di etnie, lingue e religioni diverse su territori ambiguamente stretti tra un passato di sottomissione e un presente di autonomia e pericolosamente vicini alle aree interessate dai conflitti ceceni. Le famiglie in questione appartengono alla comunità ebraica che predilige una condivisione collettiva di ciò che accade ai propri membri e uno spirito di appartenenza tanto forte da apparire all’esterno esclusivo e fatalmente chiuso e iperprotettivo. Emerge subito con evidenza la decisione di non coinvolgere la polizia, decisione non condivisa da Ilana, sorella maggiore del rapito David e vera protagonista del film, e di procedere con una raccolta di denaro volta al raggiungimento della somma richiesta. Naturalmente l’adesione alla proposta del rabbino non è unanime, in pochi sono disposti a mettere mano alla scarsella e i soldi raccolti bastano a soddisfare metà della richiesta, per cui si effettua la scelta difficile di liberare intanto la ragazza, che non ha alle spalle una famiglia allargata in grado di sostenerla. Cos’altro bisognerà fare per ottenere la salvezza di entrambi? E cosa invece non si è disposti a fare?

Eccoci dunque al nucleo sul quale l’autore ha scelto di scavare non tanto con lo strumento immediato delle parole, distillate ed essenziali, ma con quello più sofisticato e paradossalmente più semplice dell’uso degli strumenti tecnici a sua disposizione. Ognuno soffre a suo modo, questa verità è esposta con efficacia nelle scarne battute dei dialoghi e soprattutto nei volti, sui quali i primissimi piani indugiano alla ricerca delle minime variazioni espressive: dalle emozioni rabbiose ma mai urlate di Ileana – una sorprendente Darya Zhovner che si rivela giusta, spontanea e a tratti magnetica nella caparbia determinazione, purtroppo fallimentare, a non lasciarsi sopraffare e distruggere dalle circostanze – a quelle compresse ma non domate superbamente restituite da Olga Dragunova, mater dolorosa che impone al marito e alla figlia il prezzo altissimo del suo amore per David.

I personaggi sono chiusi in una trappola che sembra senza uscita, braccati dalla macchina da presa che li costringe in “inquadrature limite” – accentuate dalla definizione del quadro in rapporto 4:3 (1,33) – dentro le quali non rientrano interamente, dai cui margini debordano, come se l’evasione dalla prigionia narrativa comportasse di conseguenza l’uscita dalla porzione di spazio rappresentato. Se si escludono gli indugi sugli esterni desolati e bui, esposti agli occhi dello spettatore attraverso il mix delle luci dei lampioni e di quelle del fascio dei fari della macchina, il ricorso frequente agli stacchi, magari per semplici cambi di angolazioni, e quello raro al récadrage limitano i movimenti della macchina da presa, mentre la concessione ad un tempo di lettura delle immagini più lungo, quasi a voler rallentare anche il ritmo della narrazione, consente la possibilità di un tempo di riflessione che non produce empatia ma distacco oggettivo. Nella gestione personale del montaggio, che talvolta trasmette il nervosismo e le lacerazioni di Ilana e altre la lentezza esasperante delle azioni che devono essere compiute, Balagov può definire e sigillare le proprie scelte stilistiche per le quali si dichiara debitore alla Nouvelle Vague e al cinema russo del disgelo, almeno per ciò che concerne stimoli e sollecitazioni.

Nella disperata ricerca di una soluzione, c’è chi approfitta della situazione per compiere un’azione di sciacallaggio ed acquistare a prezzo stracciato l’officina che dà lavoro e sostentamento alla famiglia del ragazzo e che si configura come luogo di realizzazione professionale e umana per Ilana, che vi coltiva la passione per i motori e la fiduciosa vicinanza con il padre. In questa della vendita, che si porge come una delle scene chiave, si conferma la capacità del regista di usare le luci come vero e proprio vettore di senso: gli occhi in ombra ed il resto del viso rischiarato dalla luce spiovente dell’abat-jour. Questo tipo di illuminazione, che crea effetti di chiaroscuro giocato sulle contrapposizioni, è già presente sin dalle prime sequenze, diviene cifra stilistica e contribuisce ad accentuare la drammaticità delle decisioni che i personaggi sono chiamati di volta in volta a prendere.

Il rapporto di Ilana con i membri della sua famiglia è sviscerato attraverso dense sequenze, da quello con la madre, raffreddato dalla rigidità e dall’intransigenza materna e soprattutto dallo squilibrio affettivo per il figlio minore, a quello con il padre tenero e comprensivo (Artem Tsypin, perfetto nel difficile ruolo di un uomo che, pur amando entrambi i figli, sente di dover assecondare la volontà della moglie che in qualche modo si trasforma in legge morale), da quello con il fratello (Veniamin Kats, attore non professionista che punta sugli aspetti più infantili del suo personaggio) posto immediatamente sul piano di una complicità che si esplica nella condivisione di piccole trasgressioni e intime confidenze, a quello con Zelim (un Nazir Zhukov un po’ opaco rispetto agli altri interpreti ) nel ruolo di un ragazzo cabardo lontano dalle esaltazioni politiche di alcuni dei suoi amici e diffidente nei confronti dell’estremismo musulmano, mostrato in un lungo e atroce frammento di documentario, girato in un villaggio del Daghestan, davvero indigesto e difficile da reggere. Il personaggio di Zelim appare quindi più funzionale alla comprensione complessiva della storia che necessario, sia perché porterà la ragazza a rifiutare un matrimonio combinato e risolutivo sul piano della somma da consegnare ai sequestratori, sia per ciò che significa la possibilità di sfuggire alle convenzioni e ai dettami morali in quel lembo di terra in cui, a detta dello stesso regista, ad accomunare ebrei e cabardi sono il senso dell’onore e il rispetto delle tradizioni.

La luce quasi suggerita nel film, come suggerite appaiono le voci in presa diretta, vira velocemente verso cromatismi accentuati di impronta pittorica nelle scene finali, girate in esterno e impregnate in successione del verde e del giallo filtrato dai finestrini dell’automobile e dell’azzurro implacabile del cielo che domina assorto sulle periferie di Nalchik e sulle aguzze cime caucasiche mostrate attraverso una soggettiva corale in coincidenza con lo sguardo degli esuli.

La nuova diaspora conduce via il nucleo familiare monco di una parte essenziale, David, il figlio amato che sceglie di restare con la futura moglie. Non può esserci futuro per chi ha infranto i codici d’onore. Il sangue della verginità di Ilana, ceduta al ragazzo amato nella luce rossastra di un magazzino senza alcuna poesia e trasporto, tributo necessario alla negazione di un matrimonio imposto, ha precluso la possibilità di un nuovo inizio nella stessa terra. Allora si va via, come sono andati via i padri e i padri dei padri, ma Ilana, la forte, la ribelle, non accetterà il ruolo di vittima sacrificale e neanche quello di sostituta nell’affetto materno e una nuova, stanca pietà sembra affacciarsi nel suo cuore, perché infine anche lei, come la madre, ha perso l’oggetto del suo amore.

Tesnota (Closeness in inglese o Vicinanza in italiano) uscirà in l’Italia il primo agosto, cioè nella fase culminante delle ferie estive, mentre Cannes ha già salutato con favore il secondo lungometraggio di Balagov, Beanpole, tributandogli il premio per la regia nella sezione Un certain regard.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/29/prigionie-reali-e-narrative-di-una-famiglia-tesnota-di-kantemir-balagov-al-cinema-dal-1-agosto/

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L’età straniera di M. Mander

Saggistica breve. Letteratura

Leo e la scimmietta Iwarazu. ‘L’età straniera’ di Marina Mander, Marsilio editore

di Agata Motta 22-07-2019

Vivere in una famiglia di larghe vedute non è semplice, pensa il diciassettenne Leo, “perché a forza di guardare più in là, è diventato sempre più difficile guardarsi negli occhi”. Forse quando le vedute erano ristrette e gli orizzonti più limitati era molto più semplice capire da che parte stare, il bene e il male erano poli contrapposti dai confini ben definiti, si poteva entrare in una o nell’altra delle due dimensioni dell’esistere, si dovevano soltanto compiere delle scelte, soprattutto nell’età ibrida, indigesta, spregevole dell’adolescenza, quando la direzione da imboccare non è ben segnalata e tocca giorno per giorno costruire un pezzetto di futuro, un mattoncino dopo l’altro. L’adolescenza è insomma l’età che appare fulgida e incorrotta a posteriori, quando si è costretti ad indossare il tempo trascorso con finta nonchalance.

Marina Mander con il suo L’età straniera, romanzo della dozzina finalista allo Strega pubblicato da Marsilio, entra a gamba tesa nella pelle, nei pensieri e nel linguaggio di un adolescente che vive la propria età con indolenza, ironia, lucida consapevolezza e cupi sensi di colpa, quest’ultimi affioranti nottetempo, nel tribunale speciale di un SuperIo iperattivo che gli attribuisce la colpa di delitti mai commessi e di nefandezze forse accarezzate attraverso desideri inesprimibili. La famiglia di larghe vedute di Leo, in realtà, è una famiglia ferita dal suicidio di un padre dall’intelligenza speciale, dai pensieri tanto densi da essere rumorosi, dal disagio tanto forte da non farsi bastare moglie e figlio, dall’adattamento così limitato alla “pretesa di medietà” imposta dai sani e dai normali da andare incontro all’abbraccio dolce e mortifero del mare senza dubbi ed esitazioni. A Leo resta in eredità la sensazione di non averlo salvato, di essersi riaddormentato proprio mentre il padre moriva, il sonno giusto del bambino sereno contro il sonno eterno dell’uomo che non poteva concepire altre razionalità diverse da quelle numeriche.

Alla madre invece restano addosso un’inesausta voglia di vita e il desiderio a tratti anomalo e quasi patologico di salvare vite spezzate, per lavoro – è un’assistente sociale – e soprattutto per vocazione. Un robusto tassista si è frattanto infilato nel suo letto, non tenta nemmeno di sostituire un padre inarrivabile, gli basta quella donna così com’è, con i suoi entusiasmi e le sue certezze e le sue ampie vedute. Lo sguardo attento e sensibilissimo nei confronti dei reietti e dei disperati diventa però superficiale e sfocato nei confronti del figlio, al quale nemmeno chiede il permesso, quando decide di portarsi a casa Florin, un giovane rumeno costretto a prostituirsi che rifiuta palesemente di imparare l’italiano, forse perché le parole necessarie alla comunicazione gli restituiscono sotto il palato il sapore del tradimento, della disillusione, dell’inutilità di instaurare relazioni che prima o poi potrebbero rivelarsi frustrasti o peggio devastanti. Tanto, se proprio si vuole comprendere chi ci sta accanto, le parole non servono, bastano i gesti che siglano un’intesa, le intuizioni che confermano la disposizione all’ascolto.

Leo e Florin, per volontà materna, dovranno condividere stanza, pasti, tempo libero. Un tentativo di porgere la normalità al giovane rumeno che ovviamente non può giungere da chi dentro quella normalità proprio non si riconosce. L’unico punto di contatto che può esistere tra i due ragazzi è il loro essere entrambi “stranieri” al mondo circostante, quello corrotto e violento di Florin – attraversato però ad intermittenza da amicizie consolidate con altri reietti – e quello stagnante e privo degli stimoli giusti – prodotti solo dalle incessanti letture e dalla quiete delle canne talvolta fumate – di Leo. Per il resto sembrerebbe che i due ragazzi siano isole vaganti su mari lontanissimi, senza ponti o mezzi di trasporto atti a collegare vissuti troppo diversi, ma al momento opportuno scatteranno i meccanismi di solidarietà, la difesa dell’altro verrà reciprocamente esercitata nei modi che ciascuno conosce, con i mezzi di cui ciascuno dispone.

La trama è tutta qui, un vagare tra pensieri, che manifestano una sensibilità esasperata, azioni minimali e parole taciute o “atterrate in un paese sconosciuto e ostile”. L’alessitimia (incapacità di trovare parole per le emozioni) che viene incollata addosso a Leo come etichetta multiuso dai tanti terapeuti presso i quali la madre lo indirizza – in ciò solerte perché l’affidamento del figlio ad esperti le mette a posto la coscienza – si esprime proprio così, con silenzi e parole negate. La galleria degli psico-soloni – tratteggiata con quell’umorismo al vetriolo che riavvicina il lettore a certi stilemi dissacranti di Ipocondria fantastica – è gustosamente pettegola e irriverente: si passa dalla dottoressa “culona” che propina fantasie guidate, silenziosi abbracci, tentativi di rappresentazione dello scenario inconscio ed esortazioni a sane scopate alla terapia di gruppo da iniziare rigorosamente con il grido di battaglia Navajo per vocalizzare l’aggressività e da proseguire magari con un bel pianto liberatorio. E poi ancora, in rapida successione, gli psicodrammi in compagnia di manipoli di invasati che “non vedevano l’ora di buttarsi a terra in posizione fetale e con il pollice in bocca” e la proposta del buon vecchio Prozac, due pastigliette per l’acquisto della felicità a buon mercato. Ma qui la madre torna ad indossare la mise delle occasioni, quella di madre presente e assennata e decreta che di impasticcarsi proprio non si deve neanche parlare e che è meglio farsi due canne se proprio è necessario, rivelandosi in ciò una lucida e ruspante fautrice della famigerata Cannabis terapeutica.

Così la mente fervida di Leo prova a coinvolgere la scimmietta Iwazaru (il nome che ha da subito attribuito a Florin con riferimento al motto giapponese delle scimmie sagge) che gli è stata assegnata in sorte in quello che potrebbe trasformarsi in un piccolo e lucroso business con ruoli ben precisi, l’amministratore e il procacciatore di clienti. Naturalmente il diavolo ci mette la coda, in fondo basta bucare una ruota per impedire ai ragazzi il raggiungimento delle “verdi praterie aeroportuali” sulle quali far fiorire erba e denaro, ma il brutto è che il diavolo non si limita solo alla coda e spesso ci mette pure il resto, magari nelle sembianze che dovrebbero essere più rassicuranti, quelle di un agente di polizia giusto per dirne una, e che invece si rivelano marce e violente.

Gli incontri, le incursioni degli altri personaggi, i piccoli episodi che spezzano il flusso ininterrotto di disagio esistenziale in fondo sono semplici diversivi nella materia compatta del romanzo. I personaggi che ruotano intorno a Leo sono coerentemente percepiti con quella visione limitata, che pretende di assere assoluta, tipica dell’età, per cui degli adulti sono soltanto intuite le debolezze e i dolori, mentre appaiono sovrastanti quelle contraddizioni e quelle leggerezze che sembrano inspiegabili ed ingiustificabili agli occhi del ragazzo che si smarrisce di fronte alla constatazione di non essere il centro del loro mondo, l’unico veramente degno di qualsiasi cura e attenzione. La madre è amata nonostante la sua distrazione lastricata di buoni propositi, il tassista tollerato come l’erba infestante di un giardino che non può essere sradicata, Florin vissuto come rivale nell’affetto materno, come esserino da compatire, come scafato compagno da invidiare. La punizione per i cattivi pensieri tanto si abbatterà comunque nei sogni, in quella parentesi di vita che sembra tanto autenticamente reale da essere considerata parte integrante del proprio vissuto.

“Quando non si sa bene cosa fare della propria vita si spera sempre in un incontro che possa cambiare tutto, se non sei capace di modificare le cose da solo ci dovrà pur essere qualcuno da qualche parte a traghettarti in un’età migliore.” I pensieri di Leo, che affiorano in continuazione con brucianti dubbi e con dolorose constatazioni, sono la colonna sonora del romanzo, la parte più autenticamente felice, assecondata da una scelta stilistica altrettanto giusta.

Il lessico è spericolato ma curatissimo, la sintassi allegramente aggrovigliata ma mai contorta, entrambi gli elementi devono esprimere il mondo di un adolescente svagatamente colto e profondo e lo fanno con espressioni spiazzanti e accostamenti di termini dai quali traspare l’attenzione estrema per un linguaggio da addomesticare al fine di mantenerlo selvaggio (perché anche l’apatia negli adolescenti riesce ad essere tale) e di renderlo funzionale ai contenuti. La scrittura mimetica adottata dalla Mander riproduce con naturalezza quel mondo, come se ne facesse parte integrante, come se fosse il proprio alfabeto. E si tratta di una conferma, perché l’autrice triestina aveva già dato prova di questa capacità camaleontica di indossare altre pelli e di sperimentazione linguistica con La prima vera bugia.

Ma si può concludere una storia di adolescenti senza neanche accennare al sesso? Naturalmente no. A quell’età si vive il sesso come pensiero dominante, che sia quello tragicamente venduto di Florin o quello non ancora sperimentato di Leo, esso è tanto assoluto da porgersi come elemento risolutore. Bastano un semplice riconoscimento verbale (il nome della scimmietta muta Shizaru) e una bocca morbida sulla quale approdare per sciogliere dubbi e tensioni, per dare un ordine accettabile al caos esistenziale dell’età straniera. La psico-culona non aveva tutti i torti…

Marina Mander, L’età straniera, Marsilio editore, pp.206, € 16.00

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/24/leo-e-la-scimmietta-iwarazu-leta-straniera-di-marina-mander-marsilio-editore/

Brancati e la guerra

Saggistica breve. Letteratura

La guerra come rimedio contro la monotonia della vita sociale. Una prosa giovanile di Vitaliano Brancati

Vitaliano Brancati

Sul quotidiano romano “Tevere” dell’8 agosto 1930 venne presentata la prosa di Vitaliano Brancati intitolata La guerra, un insieme di considerazioni sul primo conflitto mondiale e più in generale sul valore e sul significato della guerra che, nelle intenzioni del giovane autore, doveva essere riportata in appendice al suo primo romanzo di prossima pubblicazione L’amico del vincitore.

L’inizio della prosa descrive con spietato realismo gli strazi della guerra inducendo il lettore a pregustare, dopo tale esordio, un caldo e appassionato inno alla pace e alla fratellanza. Invece, con un vero e proprio colpo di scena, il giovane Brancati prosegue in direzione del tutto opposta.

La guerra è necessaria, secondo l’autore, perché amplifica al massimo le sensazioni. E per essere più incisivo prospetta minuziosamente agli occhi del lettore la differente qualità della giornata del borghese e quella del soldato: entrambi seguono una trafila quasi uguale di trepidazioni e di soddisfazioni, solo che nella giornata del soldato non c’è spazio per la noia e il torpore e le stesse sensazioni subiscono una fortissima dilatazione. Certo, il soldato affronta la morte, ma essa è un ignoto che potrebbe essere tanto brutto quanto bello. Anche il fatto che durante la guerra si vivano sensazioni spaventose al limite della sopportazione non è negativo per lo spirito umano che ha bisogno di “spezzare tutto il ghiaccio di abitudini pigre, di materialità sorda, di sonnolenza che la vita sociale ha accumulato”.

Con la questione delle “presunte” responsabilità, Brancati si riallaccia ad uno dei punti nevralgici del dibattito del dopoguerra, dibattito che a distanza di anni forniva sostanzialmente due immagini del conflitto: una ufficiale, epica e gratificante, l’altra critica e insistente sugli altissimi costi umani dell’impresa.

L’autore sostiene che per un evento tanto grandioso sia impossibile e fuorviante cercare singole responsabilità, perché tutti indistintamente vollero la guerra, anche coloro che avevano paura. Alla fine a restare intatto nei secoli non sarà il ricordo delle morti atroci ma l’esito della guerra come “forma eterna e assoluzione”.

Gabriele D’Annunzio, 12 settembre 1919

Prevenendo una possibile obiezione, l’autore si chiede come possa accordarsi la fede in Dio, che aveva appena affermato di possedere, con l’idea della guerra. Il giovane Brancati liquida la questione con una pretestuosa scappatoia di personalissimo conio: Dio non vuole la guerra, ma riguardo queste piccole cose lascia agli uomini la più assoluta libertà; per Lui è importante solo essere ricordato anche nella forma capovolta della bestemmia. E ancora l’autore sostiene che nell’uomo coesistono due aspetti: uno mondano che spinge a pensare e ad agire e uno eterno e immutabile che si bea della contemplazione del Creatore. Pertanto tutti gli affanni della vita sono solo uno scherzo se posti a raffronto con questa parte eterna e felice dello spirito umano.

Il giovane Brancati si trovava allora in una fase particolare della propria vita in cui sentiva fortemente la necessità di credere in qualcosa e di lasciare naufragare nella fede i suoi dubbi. Fede in Dio naturalmente, alimentata da quella parte della sua anima fiduciosa nell’entità metafisica, ma anche fede nell’Uomo (Mussolini in questo caso) che con la sua forza e volontà potesse supplire alle manchevolezze individuali. E’ infatti condotta su un registro mussoliniano (nel ’30 non era ancora esplosa la coscienza antifascista del Brancati maturo) la sua esaltazione della guerra “parola mostruosa e fascinatrice” e su un registro vagamente dannunziano (quel D’Annunzio poi tanto deplorato!) per quell’amplificarsi a dismisura delle sensazioni. La guerra assurge nel suo scritto ad entità metastorica mediante la quale esaltare la parte mondana dell’uomo fino ad assumere anche una dimensione ludica.

Brancati non pensava, come i nazionalisti, che bisognasse combattere per l’Italia esasperando il patriottismo in parossistico bisogno di espansione territoriale e volontà di potenza, non vi cercava una soluzione a livello esistenziale, come Serra e Borgese, né l’esplosione terribile e magnifica di uno spettacolo orgiastico di istinti e modernità come Marinetti, né il bagno caldo di sangue e l’operazione malthusiana che Papini sbandierava con cinismo, né ancora il male necessario, “la guerra che uccida la guerra” di Salvemini. Per Brancati combattere significava spezzare la monotonia di quella vita sociale “tragica, pericolosa e insopportabile”, significava sentire dentro sé “il fremito dell’umanità giovane e barbarica”. E’ un gioco, appunto, con il quale esaltare al massimo grado le sensazioni e dal quale è possibile distaccarsi rifugiandosi nella parte eterna e felice dello spirito. Punto di vista quasi adolescenziale ma necessario per staccarsi con una presunta originalità dal “già detto”.

La prosa non fu inserita, come era stato preannunciato, alla fine del romanzo, edito poi nel ’32. Probabilmente era bastato quel breve lasso di tempo perché Brancati avvertisse l’ambiguità della collocazione di quella prosa alla fine del suo romanzo L’amico del vincitore: una vicenda amara che ha come protagonista il bambino prodigio e poi studente modello Pietro Dellini, un perdente roso dal dubbio della propria mediocrità, uno dei tanti “inetti” della nutrita galleria novecentesca, sconfitto per il fatto stesso di essere stato “amico del vincitore”, nel quale è adombrata la figura di Mussolini, l’uomo che animerà la dittatura sulla quale il Brancati maturo riverserà la sua più sferzante ironia.

Dovevano passare ancora molti anni prima che la scrittura di questo grandissimo autore, molto noto ai contemporanei ma purtroppo oggi poco letto e ricordato, giungesse alle magnifiche vette espressive dei capolavori.

Il suo romanzo giovanile resta un semplice esercizio di scrittura, lo specchio riflettente stati d’animo e aspirazioni di un giovane stregato, come tanti, dalla seduttiva immagine fascista di potenza fisica e verbale. Nonostante questo, le simpatie del lettore vanno indiscutibilmente al “perdente”, al ragazzo dal fine intelletto che si contrappone all’antagonista compiaciuto della propria forza e del proprio coraggio incosciente. Già nel titolo, in fondo, lui stesso si era schierato e Pietro Dellini si porgeva come il proprio riconoscibilissimo alter ego.

Quella dimensione ludica della guerra, tanto esaltata nella prosa esaminata, in fondo non gli calzava a pennello e, nonostante l’assidua frequentazione della sala di scherma (disciplina di moda, certamente, ma anche propedeutica per eventuali duelli), la sua aggressività doveva restare confinata alla forma, non certo alla sostanza.

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Brancati e l’universo femminile

Saggistica breve. Letteratura.

L’eterno femminino della Bambola. Vitaliano Brancati e i suoi personaggi

di Agata Motta 09-07-2019

Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni ne ‘Il bell’Antonio’ di Mauro Bolognini, 1960

Quello dell’universo femminile nella narrativa di Vitaliano Brancati, l’autore de Il bell’Antonio, è un capitolo arduo e affascinante che val la pena affrontare per comprendere a fondo lo spirito, gli umori, le fobie proprie del grande narratore siciliano.

Percorrendo un itinerario che attinge anche alla biografia dell’autore – perché uomo e artista interagirono sempre – è possibile ricomporre le tessere sparse del grande mosaico, raffigurante sembianze femminili, al quale la sua opera ci riporta di continuo.

In effetti, se escludiamo brevi bozzetti, Brancati non ha reso quasi mai la donna protagonista esclusiva della sua narrativa; si cura poco dei suoi stati d’animo e dei suoi moti psicologici e ne fa descrizioni sfumate o addirittura insulse, mentre di personaggi maschili sono ridondanti le sue pagine. Uomini contorti, con sprazzi di genialità, assillati, irrequieti, accidiosi; uomini ai quali dedica le sue analisi più sottili e i suoi esercizi introspettivi più acuti con uno scrupolo che ha il sapore di un inconscio esame di coscienza. Ciò malgrado la sua opera trasuda femminilità: caviglie appena intraviste, bocche sezionate attraverso uno spioncino, bagliori rosati di carne occhieggianti dagli indumenti. Lo spirito muliebre, la conturbante fisicità della donna aleggiano prepotentemente anche nell’assenza, come il profumo di un fiore che a distanza di ore esala ancora in un ambiente per il solo fatto di esserci stato.

La donna che vive nelle sue pagine è una creatura che suscita sensazioni e impulsi ambivalenti: può, infatti, incarnare di volta in volta l’oggetto del desiderio o la spinta alla catarsi, il giocattolo con cui trastullarsi o l’immaginetta da santificare, in una riproposta moderna della dicotomica immagine medievale o in un confuso altalenare tra vecchie e nuove istanze. Sempre, però, neutra. Come se non brillasse di luce propria ma del riflesso di ciò che provoca negli uomini.

La galleria dei personaggi utili alla conferma di quanto detto potrebbe essere lunga, ma bastano pochi ritratti esemplari per ribadire il concetto, come quello di Barbara Puglisi (impossibile non riportare alla memoria il volto splendido di Claudia Cardinale scelta, nel 1960, da Mauro Bolognini per quel ruolo accanto al grande Marcello Mastroianni), la bella e fredda moglie del Bell’Antonio, eterea e incapace di nutrire sentimenti autonomi e liberi da risvolti moraleggianti o dall’influsso degli interessi imposti dalla famiglia. La ragazza è quasi un burattino manovrato dall’alto che imbriglia però nei suoi rigidi fili l’uomo che da lei sperava salvezza per la propria vergognosa impotenza o quantomeno devota e casta comprensione. O ancora la Beatrice Banchedi di Paolo il caldo, donna matura che ama crogiolarsi in strani nomignoli, quali Conocchia o Regnante, epiteti che alludono chiaramente al suo aspetto e ai suoi trascorsi sessuali; trascorsi dei quali raccatta ancora la gloria, respirandone l’odore ormai stantio, ma vivo quanto basta per allontanare lo spettro di un corpo in decadenza.

Comunque questa donna, oggetto o vittima, domina incontrastata l’universo maschile e ne polarizza gli interessi, condizionandone le azioni e incatenandone la fantasia e l’intelletto.

Ecco cosa dice in una conferenza il Professor Prampolini, personaggio che compare nei Racconti degli anni difficili: ”Voi donne possedete la superficialità che non ha soltanto il beato compito di non comprendere, ma ha anche quello di smorzare, di attutire, di snervare, quasi, le idee troppo dolorose e dispotiche… è un’opera altamente umanitaria quella di spargere una sottile e ristorante imbecillità nel mondo”. Parole agghiaccianti, ma assai efficaci per esprimere un sentire all’epoca comune. Anche la grottesca conclusione del Bell’Antonio – in cui il protagonista confessa al cugino, infervorato in discorsi idealistici, di aver sognato finalmente un amplesso giunto alla naturale conclusione – ci riporta all’ossessione della donna (da possedere sessualmente o da dominare psicologicamente) che si impone, in una paradossale e imbarazzante priorità, sulle sorti dei popoli in guerra.

Molta critica ha voluto riscontrare nell’opera di Brancati una forte componente misogina, e in questa direzione è possibile agevolmente spingersi senza timore di essere contraddetti. Sarebbe, però, un modello riduttivo, una liquidazione sommaria del pensiero di un autore brillante che probabilmente non avrebbe accettato e approvato questo giudizio su di sé. A ben guardare l’ironia, che spesso affiora per ridicolizzare certi atteggiamenti femminili, disinvolti o inibiti, è propria del suo modo di affrontare e di interpretare la realtà. Il sarcasmo è infatti riversato a piene mani anche sugli uomini, dei quali sono messi a nudo con occhio spietato tic, nevrosi, frustrazioni. L’umanità descritta nelle sue pagine è guardata attraverso la lente deformante di un umorismo di impianto pirandelliano, tanto più amaro quanto più larvatamente autobiografico.

Si potrebbe piuttosto parlare di irrisolto tentativo di comprendere a fondo il mondo femminile o forse di malcelato e inconscio senso di intima superiorità.

Che egli non sia stato un bigotto provinciale è dimostrato, a livello biografico, dall’aver sposato Anna Proclemer, una giovane attrice apertamente svincolata dall’atavico attaccamento al focolare domestico, riluttante ai legami definitivi e determinata ad ottenere tramite il proprio lavoro un’indipendenza economica irrinunciabile; ma che genericamente non ricevesse dalla donna un giusto equilibrio e che ne avesse una visione parziale e non sempre realistica è dimostrato, riferendoci ancora al privato, dal fallimento del suo matrimonio (Nord contro Sud in assetto bellico di amore/odio) e dalla visione romantica ed edulcorata che aveva della moglie alla quale si rivolgeva con la formula d’apertura “Santa” in sostituzione del consueto “Cara” nelle tante lettere racchiuse nell’epistolario Lettere da un matrimonio contenente scritti suoi e della Proclemer.

Anna Proclemer con Giorgio Albertazzi ne ‘La governante’ di Brancati, versione televisiva 1978

Sul piano letterario poi la casistica è infinita. I protagonisti delle sue storie non sono mai appagati dai rapporti d’amore, siano essi occasionali o duraturi, e non riescono a vivere in perfetta simbiosi con la padrona dei suoi pensieri: sostanzialmente l’uomo domina in maniera prepotente, relegando la donna al ruolo che le compete da secoli, oppure subisce frustrazioni elevandola a feticcio.

Alfio Magnano, focoso padre del Bell’Antonio, si impone completamente sulla moglie dolce e remissiva secondo i più tradizionali canoni e giunge in un momento di collera a rivelarle, con una manovra di aguzzino, di avere altri figli sparsi per la città per esibire la propria potenza riproduttiva. Di contro, Paolo Castorini, protagonista dell’ultimo e incompleto romanzo Paolo il caldo (è del 1973 la trasposizione cinematografica diretta da Marco Vicario), subisce una dura sconfitta verbale e fisica dopo un tentativo di approccio con Ester Salimbene, donna determinata, politicizzata e dedita ad ideali maschili, tanto da subirne un forte contraccolpo psicologico.

E non mancano neppure gli squallidi ménages familiari in cui i coniugi vivono nella più totale indifferenza affettiva come il mediocre Aldo Piscitello e la scaltra Rosina, indimenticabili vittime del regime fascista nel racconto Il vecchio con gli stivali.

Sembra proprio che l’unica possibilità per l’uomo di realizzare un rapporto appagante, non solo a livello sessuale, possa attuarsi con la “Bambola” che, nel Don Giovanni in Sicilia (anche questo divenuto film nel 1967 per la regia di Alberto Lattuada, quasi a sancire il legame strettissimo tra Brancati, che fu fecondo sceneggiatore, e il cinema) il giovane Muscarà acquista a Parigi. Modello di perfezione nella sua mancanza di anima e di vita, la Bambola induce un austero commendatore a togliersi tanto di cappello per aver trovato in essa “l’Eterno femminino”.

La donna, insomma, si rivela come l’ennesimo polo in cui è palesato il dissidio tra spirituale e materiale, razionale e irrazionale, ironia e amarezza che è alla base dell’arte e della vita di Brancati, assertore dell’incomunicabilità tra i due sessi. Incomunicabilità che emergeva già con insistenza in un’epoca in cui la donna si avviava a prendere coscienza di sé e la “sicilianità” cominciava a proporsi come modello negativo e infruttuoso.

Nel caso di Brancati, però, come si accennava, l’incapacità di dialogo e di relazioni autentiche era minata alla base dalla sostanziale “incomprensione” di un universo ossessivamente amato e inseguito. Gli stereotipi femminili del fascismo, sebbene razionalmente superati, per gran parte della sua vita bussarono ancora alla sua coscienza tormentata, come fantasmi accantonati ma corrosivi, distorcendone le percezioni e determinando quel vano affannarsi intorno ad un mistero insolubile che, almeno alla sensibilità contemporanea, può risultare disturbante.

La svolta era comunque dietro l’angolo. L’autore, giustamente ricordato come acuto osservatore e fustigatore della società, che, nella maggior parte della sua produzione, non era riuscito a metabolizzare “il nuovo” della condizione femminile, con la commedia La governante (anch’essa divenuta film nel 1974 per la regia di Giovanni Grimaldi), immediatamente colpita dalla censura per via dell’accenno all’omosessualità, dimostrò di aver cominciato a cambiare pagina. I fantasmi erano stati sconfitti, i tormenti della donna protagonista, vittima dell’ipocrisia e della morale dell’epoca e, a sua volta, colpevole calunniatrice che si riscatta con il suicidio, sono analizzati in questa commedia, con maggiore finezza e con intuizioni più sincere. Non siamo ancora giunti alla comprensione totale del mistero femminile, ma sicuramente la strada era stata tracciata e, se l’autore non fosse morto di lì a poco, forse avrebbe potuto percorrerla con risultati sorprendenti.

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“Fedeltà” di M. Missiroli

L’infedeltà necessaria di Marco Missiroli

di Agata Motta 16-06-2019

Si può essere consapevolmente fedeli solo dopo essere stati consapevolmente infedeli. Alla resa dei conti sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo e vedremo perché) questo il messaggio che arriva forte e chiaro dalle pagine di Fedeltà, discusso romanzo di Marco Missiroli giunto, come da previsione, alla cinquina finalista del Premio Strega 2019.

“Che parola sbagliata tradimento – pensa Carlo, uno dei protagonisti del romanzo – cosa toglieva consumarsi con un’altra ragazza, accaparrandosi una gioia momentanea e dando, possibilmente, una gioia momentanea”. La liturgia del matrimonio resterebbe intatta, su un binario parallelo destinato dunque a non incrociarsi e a non sovrapporsi con l’altro. Che sia illusione consolatoria che mette al riparo dai sensi di colpa o realtà poco importa.

L’autore torna ad esplorare, con modalità diverse e con una scrittura più meditata, costruita, furba e sofisticata rispetto al precedente Atti osceni in luogo privato, il concetto di libertà attraverso il corpo, le sue esperienze e i suoi appetiti. Missiroli passa dal romanzo di formazione su lungo periodo ad un’analisi puntuale di due fasi della vita – la distanza tra l’una e l’altra è di nove anni, un tempo ragionevole per osservare le evoluzioni dei rapporti e le conseguenze delle scelte – dei suoi personaggi: la solida coppia costituita da Carlo e Margherita e i due giovani oggetti del loro desiderio, la studentessa Sofia e il fisioterapista Andrea, intorno ai quali ruotano i membri delle rispettive famiglie, tra cui spicca Anna, madre amata da Margherita e suocera venerata da Carlo, che invece è afflitto da genitori borghesissimi e tradizionalisti dei quali, storcendo un po’ il naso, fanno comodo le raccomandazioni per posti di lavoro più remunerativi e gratificanti e la disponibilità economica necessaria per prendere parte al banchetto immobiliare della Milano che conta.

Carlo e Margherita sono raccontati nella fase del ”malinteso”(il rispettabile professore Carlo Pentecoste è stato sorpreso in bagno con una studentessa in atteggiamenti equivoci che trovano subito un’indignata giustificazione da spendere pubblicamente) e poi in quella dell’assestamento (l’acquisto della Casa con tanta luce e infiniti gradini da salire e l’arrivo di un Figlio taciturno e ipersensibile); si sono traditi, ma non si sono mai allontanati emotivamente e fisicamente. L’uno non ha saputo prendere pienamente il corpo della sua studentessa Sofia, aspirante scrittrice imprigionata nel ricordo della madre morta, ma si è buttato con soddisfazione su altri surrogati di quel desiderio incompiuto; l’altra è riuscita a farsi possedere un’unica volta da Andrea, il fisioterapista gay che consuma in segreto una carica di rabbia e di violenza veicolata sui cani da combattimento e sul ring. Lentamente Anna acquista spazio e spessore nel racconto e diviene quasi un mastice possente in grado di tenere assieme le parti scomposte di chi le si accosta con fiducia. Possiede precisi guizzi intuitivi, in ciò aiutata da una veggente che le spilla soldi in cambio di laconiche parole, e una saggezza ricavata dall’uso di ago e filo, come se cucire indumenti sia stato il modo per tenere assemblati gli scampoli sfuggenti della vita. Anna si astiene da qualsiasi intromissione, pur mantenendo altissima l’attenzione su chi ama, e attorno a lei si coagula un nucleo di affetti sinceri e disinteressati. Per lei si avverte una carica empatica – quella riservata alle simpatiche vecchine di certi film che puntano al cuore – che non suscitano invece gli altri personaggi, chiusi in ossessioni che vorrebbero essere la strada maestra per quella libertà inseguita che invece possiede un ambiguo retrogusto.

Anche Anna ha vissuto la sua trasgressione, il furto di un trancio di tonno al supermercato, e ne ha subìto il castigo e l’espiazione con una vergogna che non ha mai smesso di bruciare, tanto da riviverla nel pesciolino disegnato dal nipote sull’ingessatura della sua gamba.

La precisa topografia dei luoghi, attraversati fisicamente dai personaggi e percorsi con una tale esattezza da avvertire quasi i rumori dei passi, guida la mappa mentale del lettore tra Milano (città sulla quale aleggia la presenza/fantasma di Buzzati) e Rimini – la prima indocile e dicotomica tra periferie in cui si consumano scommesse clandestine e appartamenti costosissimi ambiti come status symbol irrinunciabile, la seconda quasi romantica, dimessa e nostalgica, lontanissima dagli stereotipi goderecci di cui nutrire il turista e vicina probabilmente ai ricordi d’infanzia dell’autore – e si fa essa stessa materia narrativa sulla quale innestare impulsi improvvisi e improvvisi ripensamenti.

L’autore si interroga – ed è forse questo l’aspetto più interessante – sulle dinamiche relazioni che comportano una maturazione, uno scarto netto tra giovinezza ed età adulta. Sì, perché spesso il processo che sembrerebbe frutto di chissà quali lente trasformazioni si rivela invece legato ad un momento, una circostanza, un gesto, un ostacolo, un bisogno, una mancanza ed in essi si insinua il tempo inquieto che scardina certezze e consuetudini, un tempo raccontato in un fluire sciolto e molto visivo.

Fedeltà possiede infatti alcuni tratti del romanzo filmico sin dalla tecnica di montaggio delle sequenze che sconfinano l’una nell’altra come dissolvenze incrociate e non stupirebbe vederne a breve una trasposizione cinematografica, operazione potenzialmente azzardata sia per la scelta del “cosa mostrare e come” sia per la difficoltà di restituire compiutamente le parentesi riflessive. Con perizia Missiroli utilizza la “ripresa” (con focalizzazione variabile) nel passaggio da un gesto o da uno sguardo ad analogo gesto o sguardo di altre mani e altri occhi, per cui l’abbraccio stanco e disilluso tra Carlo e Margherita diventa quello rapido e imbarazzato tra Andrea e la propria madre; lo sguardo alla finestra di Andrea sulla neve appena caduta diventa quello di Carlo e Margherita che vi leggono un buon auspicio per un colloquio di lavoro; le mani del padre di Sofia, “rattrappite una nell’altra quasi a racchiudere un’improvvisa contentezza”, sono le mani di Anna che in esse raccoglie una gioiosa speranza di guarigione. Così in una narrazione che incastra tra loro personaggi e sentimenti e traghetta nel tempo e nello spazio senza disorientare, l’autore registra piccoli slittamenti che fessurano un quotidiano denso di normalità ma ribollente sotto la superficie soltanto un po’ increspata da parole sempre avare e da silenzi che racchiudono dubbi da non palesare. Troppo alta la posta in gioco, troppo rischioso scoprire le proprie carte, meglio ipotizzare e magari illudersi che l’altro o l’altra non sappia o, forse, che finga di non sapere. E’ il solito vecchio gioco delle parti, ognuno la propria e così si va avanti.

L’autore ha voluto solleticare le insoddisfazioni, l’instabilità e le tentazioni che attraversano l’uomo contemporaneo riuscendoci solo in parte. La distanza tra narrazione e personaggi da una parte (per molti dei quali è stato necessario costruire un vissuto accattivante senza riuscire comunque a renderli più veri) e lettore dall’altra rimane fortissima, solo a tratti ci si immerge ma per realizzare subito dopo che si tratta di finzione e che il patto narrativo non è stato firmato da tutti i contraenti.

Lo sforzo di Anna di ingoiare e persino metabolizzare il tradimento subìto e scoperto solo dopo la morte del coniuge conserva una patina di romanticismo retrò per cui le sue emozioni più credibili sono quelle che le suggeriscono un commiato rapido al fine di non creare disturbo; il movimento fisico che più affascina di Carlo è quello che lo spinge a Rimini per compiere finalmente ciò che non era stato capace di fare nove anni prima e che lo porta invece a maturare la capacità di congedarsi da un’ossessione che si tramuta in tenero rimpianto; i gesti più autentici di Margherita sono quelli compiuti sul corpo materno immobile e umiliato dalle feci; le immagini più vere dell’evanescente Sofia sono legate al quieto respiro nella ferramenta paterna; la sofferenza più acuta di Andrea si sostanzia nella scia di sangue e di violenza che attraversa le sue serate; insomma tutti quei momenti, talvolta persino marginali, che dischiudono nuove capacità di amare o di imporre l’amore nei confronti della propria imperfezione sono quelli che si apprezzano maggiormente. La coppia protagonista, impantanata nella ricerca di spazi di libertà e di autenticità, risulta irrimediabilmente sbiadita – soprattutto lei, Margherita, pratica, efficiente, falsamente magnanima, disinibita quel tanto che basta per dimostrare a se stessa di esserne capace – e avrà poche probabilità di ancorarsi nei ricordi del lettore.

Il tradimento non appare, sotto il profilo esistenziale e narrativo, seduttivo e/o risolutivo, ma di certo questo non era neanche nelle intenzioni dell’autore, che lo pone nei termini della necessità finalizzata. La fedeltà del titolo, dunque, non è quella verso il partner. Lo sconfinamento in altri corpi, l’esplorazione dei propri confini fisici, il cedimento alle pulsioni improvvise e irrazionali sono necessari per la piena comprensione di se stessi, sono atti dovuti per non tradire la propria essenza, sono occasioni per ritrovarsi, per concretizzare “l’altra felicità” senza ipotecare quella vicina e a portata di mano, quella assodata da proteggere e coltivare con devozione senza che possa risultarne offesa o semplicemente diminuita.

La fedeltà insomma è quella verso la propria natura e magari – vorremmo aggiungere – anche verso le parti più nobili di essa. Teoria che mette al riparo dal rischio di banalizzare un romanzo che ha diversi livelli di lettura e che, anche per questo, non possiede il respiro universale dei grandi romanzi.

Marco Missiroli

Fedeltà

Einaudi

p.224, € 19

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“Dolor y gloria” di P. Almodovar

Cinema. Saggistica breve. Festival

Impedimenti del corpo e ‘deseo’ creativo. ‘Dolor y Gloria’ di Pedro Almodóvar, Premio miglior interpretazione maschile Cannes 2019 ad Antonio Banderas

di Agata Motta 30-05-2019

Un uomo immerso totalmente in piscina, il silenzio rarefatto dell’ambiente vuoto, il dettaglio di una lunga cicatrice sulla schiena che è già un anticipo di programma. Poi l’acqua terapeutica si trasforma nel liquido amniotico di un’infanzia felice trascorsa accanto ad una madre dall’energia contagiosa e in quella delle lenzuola strizzate e stese al sole sui cespugli. Presente e passato si tendono la mano, come in tutti i film introspettivi, quelli in cui si cercano le risposte dell’oggi nelle domande di ieri.

Antonio Banderas è Salvador Mallo, un regista osannato in crisi creativa, alias Pedro Almodóvar. E’ da questo spontaneo e voluto processo di identificazione che trae origine il percorso necessario ad una piena comprensione di Dolor y gloria, ultimo film, presentato al Festival di Cannes 2019, del prolifico autore cult spagnolo, che ha affidato a questa pellicola/confessione una delle sue prove più alte e misurate.

All’attore prediletto dal regista negli anni Ottanta (da Labirinto di passioni a Légami) poi passato alle grandi produzioni americane e internazionali (Philadelphia, D’amore e d’ombra, Intervista col vampiro, Desperado, Two Much, Evita, La maschera di Zorro, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo!) e poi tornato ad occupare un posto privilegiato nel cuore e nella filmografia di Almodóvar con La pelle che abito e Gli amanti passeggeri, ad Antonio Banderas, insomma, ancora splendido pur nell’incipiente senilità, è andato il Premio per la Migliore interpretazione maschile; il suo è un ruolo assorto e malinconico, tutto giocato sul piano delicatissimo delle sfumature (non sempre perfettamente restituite in fase di doppiaggio), sul lavoro effettuato sul corpo, da sempre privilegiato oggetto d’indagine per il regista che questa volta però sceglie un punto d’osservazione inconsueto. Non si tratta più dei corpi trasformati dei transessuali né di quelli ricostruiti (come in Tutto su mia madre o La pelle che abito, giusto per citare alcuni dei titoli più noti), l’attenzione adesso è rivolta al proprio corpo mal funzionante, un corpo rivelato attraverso raffiche di refertazioni mediche e immagini radiodiagnostiche che ne mostrano i meccanismi interni alterati in un turbinio quasi voluttuoso di malattie accuratamente elencate e descritte nella loro sintomatologia dolorosa.

Si fa presto a dire “dolore”, tutti lo conoscono e lo hanno provato almeno qualche volta, ma esiste una forma di dolore, quello cronico, che si installa dentro il corpo in permanenza come un parassita o un ospite sgradito, che rosica ogni pulsione vitalistica, che imprime una direzione obbligatoria alle scelte individuali, che strema nella consapevolezza dell’incompiuto, che terrorizza nella proiezione di se stessi in un futuro in cui non sarà più possibile continuare a svolgere le attività che si amano e che aiutano a sentirsi vivi, perché la partita si giocherà con la capacità di convivere con esso. Almodóvar lo descrive con la lucidità dettata dalla conoscenza diretta e ad esso attribuisce parte della sua crisi “creativa”, che è appunto la crisi di Salvador Mallo che, a sua volta, è il personaggio della rinascita di Banderas come attore finalmente restituito come merita ai grandi ruoli che segnano la carriera.

Il regista si lascia alle spalle le accattivanti trame scabrose e grottesche e le opulenze narrative che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione. Dolor y gloria è un film essenziale e, proprio per questo preciso intento di condensazione tematica e prosciugamento verbale, estremamente struggente, un sussurro straziante sui due aspetti solo apparentemente antitetici della vita di un artista: il dolore, fisico e interiore, e la gloria, disperatamente cercata anche quando si pensa di poterne fare a meno. Alla domanda su cosa possa fare un regista se non scrive e non gira Mallo risponde “vivere”, ma è una bugia clamorosa alla quale nessuno crede, né l’autore né gli spettatori, già il nostro Pirandello ci aveva confidato che “la vita o si scrive o si vive” e la sostanza delle cose non è affatto cambiata. La necessità di continuare a svolgere un lavoro molto fisico come quello del regista, in netto conflitto con le bizze di un corpo dolorante, non è messa in dubbio neanche quando la parola vorrebbe negarla per creare illusioni consolatorie.

E infatti sul dolore e su quanto esso possa dettare la sua legge a chi vi si trova sottomesso ruota il plot, apparentemente molto semplice e lineare. Sono semplici e magnetici persino i titoli d’apertura, incastonati dentro una cornice di disegni astratti computerizzati che fluiscono in cangianti e accesi cromatismi, ma si tratta di una semplicità che non coincide affatto con la povertà inventiva. Almodóvar non può fare a meno di sorprendere sempre e comunque anche quando l’impronta generale appare squisitamente posata ed equilibrata.

Sulla gloria ad Almodóvar non importa indugiare, essa è tanto ingombrante e comprimaria nel titolo quanto tacitamente assodata nel film, è una grossa fetta d’esistenza sulla quale è inutile soffermarsi se non nella riesumazione della fase iniziale di una carriera in continua ascesa che fornisce il pretesto alla narrazione: la proiezione di un vecchio film restaurato, Sabor, durante la quale dovrebbero presentarsi il regista e il protagonista Alberto Crespo (nell’efficace, brusca e sofferta interpretazione di Asier Etxeandìa) che, dai tempi delle riprese, non si sono più visti né parlati. Dopo una fase di paludoso stallo, il protagonista riemergerà alla vita grazie ad una serie di piccoli eventi che riannodano la corda tesa dei ricordi, tra i quali giganteggia l’anziana madre interpretata da Julieta Serrano, attrice icona di Almodóvar, che si porge con scanzonata e tenera serietà, aggrappata alla coroncina del Rosario e alle sue ataviche certezze, a dare ulteriore spessore al personaggio che, nei flashback, appartiene all’altra icona del regista spagnolo, Penélope Cruz. Il senso di colpa di Mallo per averla delusa nelle sue aspettative è sempre in agguato, specie per non aver potuto mantenere fede alla promessa di farla morire nel paese amato, e ad esso, forse, nella realtà si aggiunge quello dell’uomo Almodóvar per aver parlato di lei al grande pubblico pur sapendo che ciò non le sarebbe piaciuto.

La riconciliazione con Alberto, tramite il dono di un monologo teatrale autobiografico, La dipendenza, trascina nel territorio ancora immacolato dell’incanto del cinema avvertito come luogo di ogni possibilità e di ogni sogno, porta dentro la magia dei film proiettati sul muro bianco sotto il quale i ragazzini urinavano, con una manovra che ricorda l’analogo incanto del bambino Totò di Nuovo Cinema Paradiso, film di Giuseppe Tornatore con il quale Dolor y gloria condivide il tema del “ritorno” del regista ormai affermato – fisico o memoriale non importa – ai luoghi e alle passioni dell’infanzia. In quel monologo, che per Alberto Crespo diventa arma di riscatto professionale, è contenuta anche la doppia dipendenza, dalla scrittura e dalla droga, dei due giovani amanti che ne sono protagonisti, Salvador e Federico, quest’ultimo interpretato da un Leonardo Sbaraglia che dona il giusto mix di timidezza e determinazione al suo fragile personaggio. Ma all’antico amante Federico, ritrovato proprio grazie a quello spettacolo in cui si riconosce, Mallo nega, con la saggezza della maturità, un nostalgico rapporto sessuale. Intanto, complice l’affettuoso interesse dell’assistente Mercedes (Nora Navas nel ruolo indovinato e calzante della chioccia accudente), maturano in Mallo le decisioni che potrebbero rimettere ordine e speranza nella sua paralisi esistenziale: affidarsi ad un centro di terapia del dolore per liberarsi dall’eroina, utilizzata a scopi antalgici, cui l’aveva appena iniziato con un pizzico di astiosa e forse vendicativa noncuranza Alberto, e sottoporsi ad un intervento chirurgico per risolvere la disfagia, uno dei tanti supplizi quotidiani.

Il linguaggio cinematografico è terso e pulito senza alcuna prodigiosa ostentazione nei movimenti di macchina, le inquadrature sono prevalentemente statiche – alcune proprio teatrali – e girate in interni con uno sguardo intimo e privilegiato alla casa del protagonista, che è una ricostruzione di quella dell’autore, un piccolo museo consacrato alla bellezza da godere in solitudine.

La Madrid mostrata in brevi sequenze è quella delle strade dello spaccio, mentre la poesia e l’incanto negati alla capitale sono regalati a Paterna, luogo di un’infanzia poverissima e mitica in cui si schiudono la passione per lo studio, forzatamente condotto in collegio (inevitabile l’accostamento a La mala educaciòn e al carico di livore da sempre manifestato nei confronti di un cattolicesimo bigotto e limitante) e il sorgere del primo desiderio, legato ad Eduardo, il giovane imbianchino con una spiccata inclinazione per la pittura che gli schiude inconsapevolmente l’orizzonte dell’omosessualità.

Con una leggera forzatura potremmo dire che la stanchezza che pervade lo sguardo del protagonista diventa quasi una cifra stilistica e si posa su oggetti e persone, sui movimenti rallentati e ingoffiti dai malanni, sulle percezioni dilatate dall’eroina, sul presente che ha subìto una battuta d’arresto contrapposto all’esuberanza di un passato che emerge a ondate riportandolo all’infanzia illuminata dalla prorompente e mai scalfita vitalità della giovane madre, una Penélope Cruz in cui la bellezza è solo un dettaglio, e nemmeno il più significativo, tra le tante doti espressive.

Ma ecco che questi flashback, che si portano dentro la necessità della riappropriazione del passato per ottenere la pacificazione con il presente, diventano qualcos’altro, ecco che l’apparente semplicità narrativa cui si accennava, con un rapido guizzo, si sostanzia di un espediente tecnico, a sua volta semplice, che riporta al set, quello addomesticato e intimo della rinascita artistica e umana che prelude ad altra gloria, quello de El primero deseo, divenuto film nel film (El Deseo è guarda caso anche il nome della casa di produzione), e dell’infanzia magica in cui tutto era ancora da compiere e da immaginare.

Non ci dice nulla di nuovo Almodóvar nel rivelare che la sua salvezza è stata determinata dal cinema e che nel cinema – nel suo complesso processo di creazione fatto di scrittura e di riprese – ha trovato il suo dio e la sua forza. Si limita insomma a ribadire il concetto (sarà un caso che il suo protagonista si chiami Salvador?), quasi per ricordarlo a se stesso, perché in fondo questo è il destino di tutti gli artisti. Ecco perché questo film, probabilmente, non riceverà unanimi consensi, bisogna sentirlo sulla propria pelle per assorbirne ogni immagine e ogni parola, bisogna essere dolenti e creativi, anche senza essere stati baciati dalla perfida gloria.

Per chi ha amato l’Almodóvar degli eccessi e della provocazione, sarà comunque singolare e piacevole constatare come si possa sostanzialmente restare fedeli a se stessi pur nella declinazione di nuclei tematici e accenti stilistici pacati e introspettivi. Mutare pelle più volte pur restando riconoscibilissimi, anche questo, in fondo, fa parte della grandezza di un autore.

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“Pranzi di famiglia” di Romana Petri

Il recupero memoriale dei morti. ‘Pranzi di famiglia’ di Romana Petri, ed. Neri Pozza

L’invito a fare un bagno sulle spiagge dell’Alentejo e l’esortazione a far presto, perché di tempo ne è rimasto poco, mettono in moto il meccanismo dell’impetuoso flashback – che costituisce il romanzo quasi per intero giocato su più piani temporali – di Ovunque io sia, il primo libro della trilogia di Romana Petri.

Il dialogo su una panchina del Prìncipe Real con la richiesta di perpetuare la memoria dei morti è invece il fulcro dal quale si dipana Pranzi di famiglia, il secondo atteso romanzo di ambientazione portoghese, edito da Neri Pozza, che la Petri ha regalato ai suoi lettori. In entrambi i casi si tratta di un sogno, l’unico non luogo in cui possono avvenire gli incontri negati dalla realtà – in questo caso quello di Vasco e della madre Maria do Ceu – l’unico spazio libero in cui si intrecciano desideri che la ragione non permette di esprimere e moniti che hanno il sapore di imperativi categorici, specie se espressi dalla coscienza stranita dallo stupore per l’assenza che la morte si lascia sempre dietro come una scia infetta. Perché se è vero che una madre, ovunque si trovi dopo la morte, continuerà a camminare accanto ai suoi figli, è anche vero che affinché questo avvenga è necessario che i figli ne alimentino il ricordo, ne ricostruiscano la fisionomia, gli atti e il calore, mettendo assieme frammenti, immagini, parole, sensazioni che non possono essersi spenti semplicemente con la morte.

Semplicemente? Sì, semplicemente, perché la morte, sembra volerci suggerire la Petri, non può essere considerata un trapasso definitivo ma un trasferimento in altri mondi nei quali si può permanere solo se agganciati alla vita attraverso il ricordo. E non è necessario scomodare verità ultraterrene per avvalorare questa ipotesi se persino Foscolo aveva detto che “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” e, in questo caso, l’urna non sarebbe un solenne sepolcro all’ombra dei cipressi ma il cuore di quanti  hanno conosciuto e amato chi è andato in quell’altrove sconosciuto e misterioso che si chiama morte. Per questo Maria do Ceu, personaggio che i lettori di Ovunque io sia avranno di certo molto amato, consegna al figlio la richiesta pressante di non lasciarsi trasportare dalla deriva del dolore ma di consentirle di abitare quel mondo attraverso il recupero memoriale.
Impresa ardua per Vasco, da sempre afflitto da una strana reticenza al ricordo, che non si avvarrà del recupero attraverso le sensazioni percettive di proustiano sapore, ma ricorrerà ad un indefesso esercizio della memoria, ad una disciplina imposta a se stesso che lo condurrà a rapide illuminazioni, a date dalle quali estrarre grumi da distillare, a stanze in cui far muovere chi vi ha vissuto. Così si costringerà ad annotare su un quadernetto tutto quello che riuscirà a salvare della sua infanzia illuminata e devastata – nel violento ossimoro dettato dalle circostanze – da una madre che si è svuotata di forze e di eventuali felicità per amore dei suoi tre figli: Rita, anzitutto, nata con un volto simile ad un quadro di Picasso, alla quale ha tentato tenacemente di restituire sembianze accettabili sottoponendola a complicatissime operazioni chirurgiche, e i gemelli Vasco e Joana, entrambi bellissimi per uno strano scherzo del destino, lui fragile e irrisolto, costantemente proteso alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, lei divorata dal senso di colpa per quella bellezza che si trasforma in supplizio nella sorella deforme.

L’intimità propria dei legami familiari era stata pura e spontanea solo attraverso la mediazione della madre; dalla sua morte cessa di esistere tra i fratelli orfani di luce e di affetto incondizionato e soprattutto di quel collante necessario che era stato voluto e caparbiamente perseguito e imposto da Maria do Ceu anche nella fase terminale della sua malattia. Un ultimo disperato tentativo di lasciare in eredità l’armonia tra i suoi figli era stato compiuto attraverso un viaggio di piacere in Austria, ma dopo pochissimo tempo lo spegnersi della fiammella inesausta del suo amore aveva destinato i figli al silenzio perpetuo o almeno al mantenimento di rapporti incancreniti dalla presenza di un padre sostanzialmente estraneo, Tiago, dedito alla carriera e alla moltiplicazione a tempo indeterminato del successo professionale, del denaro, del pubblico consenso.
Tiago pensa di assolvere al suo compito paterno con i pranzi domenicali, durante i quali riunisce la famiglia. Per quietare la coscienza, si tira dietro lo schizofrenico fratello Humberto – personaggio poeticamente riuscitissimo cui la Petri dona riflessioni da filosofo incompreso – e lo pseudo suocero Manuel Ramalhete – altro personaggio baciato dalla grazia – ma lascia fuori Marta, l’ambiziosa compagna e poi moglie che ha sostituito l’infelice Maria do Ceu con una ventata di giovinezza e di alleggerimento dai problemi e con la capacità di appagare il narcisismo necessario all’uomo come l’aria.

Così la Petri decide di mettere a fuoco la famiglia dos Santos in quei residui commestibili di relazioni fasulle sopravvissute allo sfacelo affettivo, in quei pranzi domenicali nei quali si consuma il rito officiato da Tiago con lunghi monologhi, mentre gusta cibi raffinati, stappa vini pregiati, sciorina i successi ottenuti e commenta i viaggi effettuati e quelli ancora in programma. Non importa se i fedeli di quelle messe profane non gli tributano gli onori sperati, per lui è necessario tenere formalmente in vita l’idea di un nucleo familiare ancora esistente, per lui forma e sostanza possono e devono coesistere.

Lo sguardo dell’autrice è volutamente asettico, perché le emozioni devono sprigionarsi dalla materia narrata e non dal giudizio del narratore che si limita ad esporre fatti ed analizzare sentimenti lasciando cadere qua e là osservazioni di struggente bellezza e verità sui rapporti umani, sulla vita e sulla morte.
La Petri restringe inoltre il suo campo d’indagine, passa dai campi lunghi e medi di Ovunque io sia ai primi piani e ai dettagli (con un’operazione quasi speculare a quella effettuata nei quadri del personaggio chiave della pittrice Luciana Albertini) e, proprio per questa maggiore vicinanza, il racconto si fa luce che illumina angoli bui, coglie tra il non detto lo strazio dei personaggi, addita quel fastello di giorni ancora buoni che avrebbero potuto essere vissuti, quel groviglio di sentimenti autentici con i quali avrebbero potuto lenire un dolore in tutti identico e ugualmente devastante che preferiscono invece dissipare nella rinuncia. Una rinuncia che passa attraverso la rimozione di memorie scomode che potrebbero riplasmare in peggio il passato e che si fortifica nell’illusione che ci saranno altre occasioni per chiarire, altri pranzi domenicali durante i quali tirare fuori rancori sotterranei e tensioni esplosive.
La Petri lascia che la scrittura fluisca limpida anche quando potrebbe intorbidarsi, giunge a scavare laddove mancano le parole, trascina in piccoli gorghi narrativi che promettono tempesta finché il silenzio denso prende corpo in immagini, ricordi, indagini introspettive che aprono squarci su territori accidentati che il lettore può percorrere anche violando il naturale riserbo dei personaggi

L’unica a manifestare la sua cieca rabbia è Rita con i suoi furori esagerati e talvolta pretestuosi, gli altri preferiscono rimuginare malumori e mettere la sordina ai dispiaceri. Vasco e Joana recidono il rapporto esclusivo dei fratelli gemelli per accantonarlo e persino umiliarlo con la rinuncia alla confidenza e alla complicità. A cementare la loro unione era stato in passato quel continuo elemosinare il tempo e l’attenzione materna tutta concentrata sulla sofferenza di Rita, ma mentre la vita di Vasco subirà uno scossone che aprirà nuove prospettive determinando scelte di costruttiva rottura, per Joana sarà l’inizio di una caduta interminabile. La maternità che l’aveva inizialmente ubriacata di gioia, si trasforma presto nella presa d’atto di un fallimento esistenziale che passa attraverso il fallimento coniugale. Il mediocre marito che aveva scelto per autopunirsi della prestanza fisica che arrecava dolore alla sorella, come la madre aveva intuito, la mortifica con il tradimento, ma lei preferisce ingoiare, l’orgoglio le suggerisce di tacere, di non rivelare il cedimento e poi il crollo della vita agiata e promettente che pensava di condurre con lui. La discesa è talmente vertiginosa da spingerla ad accettare l’aiuto economico del padre detestato, andare in analisi e restare vittima di uno di quei transfert difettosi che non portano alla fiducia in chi deve curare le ferite dell’anima ma alla dipendenza ossessiva, alla riesumazione dei torti subiti e alle recriminazioni senz’appello. E, beffa tra le beffe, Joana sarà l’unica, infine, ad accettare la sussistenza della forma, a divenire in questo persino simile al padre, la meno amata da lui e paradossalmente la più vicina.

Nelle giornate incolori di Vasco esplode invece la vitalità contagiosa di una talentuosa pittrice italiana, Luciana Albertini (personaggio appena evocato nel romanzo precedente), un po’ più grande d’età perché il buon Edipo ci mette sempre il naso. Ad accompagnarla c’è il vecchio cane Barabba, fratello letterario di Osac, protagonista de Il mio cane del Klondike, sul quale la Petri lascia come impronta personale la consueta passione per il mondo animale indagato con la stessa delicatezza e la stessa precisione riservate all’agire all’animo degli uomini. La Albertini, medico votato all’arte come l’artista perugina quasi omonima cui il personaggio è ispirato, irrompe con le sue tele dai titoli bizzarri e i suoi colori, con il suo corpo minuto e quasi androgino, con la sua saggezza striata di follia a curare la malinconica sottrazione alla vita di Vasco e soprattutto ad osservare con la lente deformante dell’ironia quella strana famiglia in cui – come lo stesso Vasco riconosce e afferma – sembra che tutti abbiano gli aculei sulla groppa e che si tengano a distanza, capaci di conservare solo il silenzio. Sarà proprio lei a dissacrare la solennità di quei pranzi  con una mostra blasfema in cui la famiglia del suo compagno viene svelata nei suoi tratti più grotteschi e in quelle tele riemergeranno con tenerezza anche altri personaggi indelebili di Ovunque io sia come la zia Julieta, dalle gambe sottili come alghe, che aveva vissuto tutta la vita strisciando al suolo e non aveva mai smesso di sorridere. Ma il passato è in agguato, bussa alle porte finché ad aprire sarà proprio l’irascibile Rita, che tirerà fuori dall’oblio quei ricordi ostinatamente negati per riscrivere la mitologia che appartiene sempre ad ogni famiglia. Rita rinuncerà anche ad altri interventi correttivi per mantenere le sembianze del viso che la madre ha conosciuto e amato, l’accettazione di se stessa e della sua deformità è il dono più bello che possa offrirle.

Lisbona e i luoghi cari del Portogallo, altra patria elettiva della Petri, sono presenti con le loro atmosfere e i loro piatti – dal bacalhao alla carne de porco à alentejana — con quei tipi umani un po’ ombrosi in cui la scintilla della gioia si accende raramente, con la saudade, quell’intraducibile disposizione d’animo propria dei lusitani. E’ tangibile l’agio con cui l’autrice si muove su strade conosciute e modalità comunicative perfettamente note, gioca in casa e vincere la partita è fin troppo facile. Nonostante Pranzi di famiglia abbia una totale autonomia narrativa e che non sia indispensabile conoscere anche il precedente Ovunque io sia, il consiglio è quello di leggerli comunque entrambi nel loro ordine naturale, anzitutto perché si guadagna un’altra bellissima storia e poi perché personaggi come Manuel Ramalhete e la moglie Ofelia, genitori “adottivi” di Maria do Ceu e quindi nonni dei tre fratelli, sono troppo preziosi per non conoscerli interamente. Il primo, donnaiolo impenitente, tratteggiato egregiamente nella piena decadenza, è uno dei commensali dei pranzi di famiglia, vi giunge come un pietoso trofeo del passato, con il suo interminabile conteggio dei morti, con il suo pianto teatrale, con la sua falsità ammaliante, con la sua amarissima vecchiaia alla desolata casa di riposo Cruz Vermelha spacciata per privilegio; la seconda è un ricordo intermittente, una presenza incombente nonostante l’assenza, un ritratto geniale dell’Albertini. Appropriarsi del loro travagliato passato e di quello di tanti altri personaggi indimenticabili sarebbe pertanto operazione affascinante.

Pranzi di famiglia è un romanzo sulla capacità di guardarsi dentro, sulla forza del destino, sulla necessità di rompere ciò non può essere aggiustato, sulla fiducia nei cambiamenti necessari e sulla speranza da portarsi appesa al collo come un amuleto. Ed è in fondo un riconoscersi, con il proprio vuoto e i propri fallimenti, con i propri interrogativi destinati a restare senza risposte. E’ ascoltare quei silenzi intorno alle cose finite, sui quali il tempo non ci concederà più di ritornare.

Romana Petri
Pranzi di famiglia
Neri Pozza Editore, 2019
pp.414

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“Anna Karenina & I”di Tommaso Mottola

Cinema, Teatro, Saggistica breve, Eventi

Immersione sacrale in un altro Io. ‘Karenina & I’, capolavoro atipico di Tommaso Mottola

Possono bastare 85 minuti di film per restituire allo spettatore un autore immenso come Tolstoj, un personaggio femminile eterno come Anna Karenina, un’attrice intensa come la norvegese Gørild Mauseth, una ricerca interiore trasversale che appartiene a tutti i nomi schierati in campo e uno sguardo penetrante sui meravigliosi paesaggi europei e asiatici che vivono e respirano nella stessa magnetica atmosfera? L’impresa realizzata dall’ottimo Tommaso Mottola nel dirigere Karenina & I  riesce a soddisfare nel migliore dei modi tutte queste ambiziose esigenze e corrisponde ad un ideale artistico che scardina la gabbia delle consuete catalogazioni in generi per conciliare compiutamente teatro, letteratura, cinema e vita in un’unica travolgente narrazione.

Il film racconta della sfida affrontata dall’attrice, quella di recitare Anna Karenina in russo, lingua del tutto sconosciuta. La proposta le giunge a Venezia, dopo la lunga tournée norvegese che aveva avuto per oggetto lo stesso lavoro, e lei se ne innamora immediatamente in ciò sostenuta dal marito regista che vi legge un’ulteriore sfida in cui la posta in gioco è altissima sotto il profilo umano e professionale. Così Gørild Mauseth affronterà un viaggio di 11.000 km in treno con il marito e il figlio ancora piccolo, quasi dell’età del figlio di Anna Karenina, e il loro percorso come famiglia procederà di pari passo con quello artistico e con il tentativo di recupero memoriale di un tempo fermo e rimosso che si prospetta per l’attrice come riconquista di se stessa e redenzione delle proprie fratture interiori. Con la cuffia alle orecchie che le porge ossessivamente brani del lavoro da interpretare e l’inseparabile agendina su cui annotare la pronuncia di ogni singola parola e i tanti appunti cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, Gørild Mauseth litiga con una lingua sconosciuta nel tentativo di addomesticarla, vuole parlare la lingua di Anna, vuole conoscere la donna che è stata, non il personaggio, vuole comprendere le ragioni che hanno spinto Tolstoj a scegliere un personaggio con il quale condividerà in qualche modo la sorte (l’abbandono della famiglia e la morte in una stazione ferroviaria) e a scoprire cosa vi abbia nascosto.

“Se è vero che ci sono tante sentenze quante teste, dunque ci sono tante specie di amore quanti sono i cuori” recita Liam Neeson (presente nel film anche come appassionato co-produttore), star internazionale che si rivela presenza preziosa e discreta nel donare la propria intensa voce a Tolstoj attraverso alcuni passi del suo romanzo. Ed è così che va inteso l’amore di Anna, una specie di amore che non cerca condanne o assoluzioni, il suo personale modo di intendere un sentimento travolgente ed inopportuno nella società in cui si trova a vivere.

Il regista non cede alla tentazione del road movie e grazie al superbo montaggio di Michal Leszczylowski, che seleziona e accosta inquadrature preziose e utilizza gli stacchi netti in funzione fluidificante, riesce paradossalmente a rendere snella e agile una materia che si dipana lentamente come il processo creativo che ha portato il grande autore russo alla definizione di un’immagine muliebre che è rimasta nel cuore e nell’anima dei lettori come una sorella o un’amica di cui si riconosce l’errore ma che va compatita in quanto “ostaggio delle proprie emozioni”. Karenina & I  non possiede neanche l’aridità di un certo modo di fare documentari e non ha nulla a che spartire con i pregevoli film sul teatro alla Kenneth Branagh o con quelli che riprendono integralmente per il grande schermo gli spettacoli del genere di Uomini e topi di Anna D. Shapiro e Skylight di Stephen Daldry.

Qui le sequenze teatrali sono saldamente intrecciate alla struttura del film e diventano esse stesse materia narrativa e puro godimento estetico. I tanti inserimenti in ordine sparso della fatidica “prima” illustrano i momenti topici della narrazione di Tolstoj rendendoli comprensibili anche a chi non conosce il romanzo e ciò che per sua natura avrebbe bisogno di tempi più distesi trova un assetto compatto e suggestivo che consente allo spettatore di essere catapultato nella magia della costruzione e della rappresentazione dell’evento. Ecco perché appare una scelta illuminata quella di portare il film inizialmente nei teatri con una tournée di tre date – sabato 9 marzo al Teatro Argentina di Roma, lunedì 11 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano e lunedì 18 marzo al Teatro Mercadante di Napoli – durante le quali saranno presenti sia l’attrice che il regista, e poi nelle sale cinematografiche.

Considerato il valore “sacrale” di immersione in un altro Io – paventato dall’amica e attrice Julia Aug che le prospetta un sofferto processo di identificazione: “quando indosserai il suo vestito ho paura che diventi la tua pelle”- e quello letterario di “inchiesta” – inteso come ricerca di sé, del personaggio e dell’autore – è logico che la peregrinazione in transiberiana fino a Vladivostok, meta finale in cui l’attende la grande prova, debba avere delle tappe necessarie come pellegrinaggi di fede. Bisogna credere fortemente perché avvengano le cose, e non è un caso se la battuta viene detta in presenza di un monaco ortodosso del monastero delle isole Solovki, luogo tristemente noto in cui Stalin fece erigere il primo gulag e luogo mistico in cui il segno della croce davanti ad un altare compiuto da Gørild rimanda a quello di Anna Karenina, il gesto abituale che “suscitò nella sua anima una serie di ricordi verginali e infantili”, quello che squarcia l’oscurità e illumina il passato, quello che la fa gettare tra il primo e il secondo vagone del treno in corsa.

L’attrice cerca Anna e il suo creatore in ogni luogo, mentre si interroga su chi siamo e da dove veniamo. Ulteriori tappe del pellegrinaggio sono l’elegante e signorile S. Pietroburgo che ha accolto Anna bambina, sposa e madre, Mosca e la casa di campagna che hanno visto i tormenti di Tolstoj, Novosibirsk che segna la metà del viaggio dell’attrice e il fiorire dei dubbi sulla riuscita dell’impresa, il lago Baykal in cui bagnarsi per diventare una vera donna russa. E in ogni nuovo luogo nuovi incontri per confrontarsi, per conoscere le opinioni della gente comune e quelle degli artisti, per immagazzinare impressioni momentanee e sollecitazioni durature. Le riprese indugiano sulla donna e sull’attrice, ne restituiscono lo sguardo assorto e ubriaco di bellezza con soggettive e panoramiche di squisita finezza e di grande pregio estetico, la bloccano in primi piani che scrutano il viso bellissimo per coglierne le tante sfumature espressive e in campi medi sul “moto fisico” di attraversamento di spazi sterminati che corrisponde al “movimento interiore”, alla ricerca di qualcosa di indefinibile che si farà chiaro soltanto alla fine dell’avventura.

E davvero ogni singola scena è talmente intrisa di rimandi visivi e di corrispondenze interiori e formali che bisognerebbe segnalarle una per una, dall’accostamento degli inquieti cavalli in movimento alle statue equestri e al temperamento del personaggio di Anna all’inquadratura attraverso il semicerchio del finestrino del treno sul basso caseggiato turchese della stazione di Novosibirsk e sulla statua bianca dell’atleta proteso nello sforzo, dal pedinamento attuato dall’occhio famelico della macchina da presa sul movimento continuo della donna nei preziosi abiti di scena – nero, bianco e rosso – tra incantati boschi di betulle, luccicanti distese di neve, anonime stazioni ferroviarie all’immagine anaforica della bambina vestita di rosso che si riverbera nell’attrice vestita dello stesso colore.   “Tentare di arrivare a quella piccola bimba”, è proprio questa l’intenzione di Gørild, la bambina vestita di rosso simboleggia quell’infanzia lontana della quale entrambe le donne, l’attrice e la protagonista del romanzo, devono impossessarsi per comprendere se stesse e tutto quel capitolo di vita che ha bisogno di essere illuminato e portato allo scoperto.

“Quel che è insopportabile è non poter estirpare il passato dalle radici, ma se ne può disperdere la memoria” suggerisce ancora la voce di Liam Neeson. Sono le parole iniziali del film sigillate in perfetto contrappunto da quelle conclusive dell’attrice: “Tolstoj aveva creato Anna per disperdere il suo passato, io non lo farò”. La scelta dunque è quella del ritorno in Norvegia, il filo reciso da un brutto incidente durante l’adolescenza va riannodato, il destino che sembrava volerla separare definitivamente dalla propria terra ve la riporta attraverso tortuosi sentieri, il recupero delle proprie radici è necessario per ridefinire un’identità altrimenti minacciata. Infine la donna scia su un paesaggio ghiacciato che le appartiene – in un rapporto di circolarità visiva con la scena iniziale in cui la stessa donna camminava instabile sulla neve – il solco che si lascia alle spalle è un binario che non porta morte ma nuova vita, resurrezione.

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Regia: Tommaso Mottola
Anno di produzione: 2017
Durata: 86′
Genere: docufiction/teatrale
Paese: Norvegia
Produzione: Orto Polare
Data di uscita: 09/03/2019
Ufficio StampaLo Scrittoio

Con:
Gorild Mauseth (Anna Karenina)
Liam Neeson (Leo Tolstoj)
Sonia Bergamasco (Se stessa)
Valentin Zaporozhets (Vronsky)
Fekla Tolstoy (Se stessa)
Evgeny Veigel (Karenin)
Vladislav Yaskin (Levin)
Kristina Babchenko (Kitty)
Denis Nedelko (Stephan)
Yana Myalk (Dasha)

Soggetto:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Sceneggiatura:
Tommaso Mottola
Gorild Mauseth

Musiche:
Philip Glass
Michael Nyman
Lars Ardal

Montaggio:
Michal Leszczylowski

Fotografia:
Andreas Ausland
Tommaso Mottola
Gleb Teleshov

Produttore:
Gorild Mauseth
Liam Neeson

Voce Narrante:
Liam Neeson

“Preludio alla follia” di Daniela Di Benedetto

Saggistica breve. Letteratura

Distorsioni percettive di una scrittrice. ‘Preludio alla follia’ di Daniela Di Benedetto, Pietro Vittorietti Edizioni

”Tutto andava come doveva andare”. E’ l’incipit spiazzante del romanzo Preludio alla follia di Daniela Di Benedetto, autrice palermitana alla sua ventesima pubblicazione, edito da Pietro Vittorietti. E’ spiazzante perché la rassegnata quiete che vi si avverte o, come si capirà subito dopo, la presa di coscienza di una vita nuova che comincia a cinquantacinque anni per la protagonista Lisa, avviene nel giorno del funerale della propria madre. La morte della madre, a qualunque età avvenga e in qualsiasi condizione, dovrebbe sempre rappresentare un evento traumatico perché va a recidere le radici, sia che esse siano state immerse in torba scadente senza principi nutritivi vitali sia che abbiano tratto linfa corroborante da un terreno fertile. In Lisa, invece, nessuna lacerazione visibile e quelle lacrime che tutti si aspettano non hanno nessuna voglia di sgorgare.

Il lutto in lei si è già compiuto molto tempo addietro, quando la coscienza della propria “diversità” – racchiusa in un altissimo quoziente intellettivo accompagnato da una sostanziale incapacità empatica e da un fastidio epidermico per situazioni ai limiti della normalità – le ha consegnato la capacità di vedere oltre la superficie delle cose e la consapevolezza di una vita destinata ad essere difficile e in permanente urto con le convenzioni e i doveri sociali. Un dono e una condanna, a seconda dei punti di vista, ma il primo si perderà tra i rivoli di un’esistenza in cui le passioni dovranno farsi spazio a spallate per sopravvivere e per restituire senso a ciò che ai suoi occhi appare incomprensibile e assurdo. Quali passioni, dunque, bruceranno senza fine nell’animo della bella, ombrosa e ferocemente sarcastica Lisa? Quella per un uomo, al quale resterà fedele come amante quasi casta fino alla morte di lui, e quella per la scrittura, alla quale si aggrapperà in un’operazione salvifica di scavo e di recupero memoriale o di immaginazione sbrigliata nella quale costruire con vulcanica energia altri mondi percorribili dai personaggi usciti dalla sua penna.

Senza tanti giri di parole la Di Benedetto instaura subito una relazione ben precisa tra se stessa e la protagonista, definita alter ego, che talvolta si esprime in prima persona (in un evidente corsivo) mettendo a nudo sensazioni, riflessioni e commenti, mentre per la maggior parte della storia compare dietro un narratore eterodiegetico che, attraverso la focalizzazione interna, ne restituisce sempre e comunque il punto di vista.

La narrazione semplice, fluida e scorrevole sotto il profilo linguistico, gioca ambiguamente con il lettore, suggerendogli in modo esplicito che quella vita sofferta è sì del personaggio chiamato Lisa ma è anche dell’autrice, in ciò seguendo una consuetudine che oggi attraversa molta produzione contemporanea, attecchita in particolare anche a Palermo, da Alajmo ad Enia giusto per citare i più recenti e notevoli esempi. Si allude al disvelamento del sé ferito come modalità terapeutica e come consegna intima e impudica della propria parte dolente al lettore che voglia accoglierla e farsene depositario. Talvolta la Di Benedetto cede ad una tentazione diaristica che smorza il respiro alle sue pagine tra le quali fanno capolino certi indugi narcisistici, mentre in più occasioni emerge una notevole capacità di autoanalisi.

Risulta particolare il metodo utilizzato per il trattamento del tempo – molto più ampio quello della storia rispetto a quello della narrazione – dettato certamente da una scelta di stile, ma la sensazione è quella di una compressione dei fatti narrati che sacrifica ampiezza e spessore per privilegiare invece l’inserimento di piccoli aneddoti ed improvvise digressioni. Anche l’uso frequentissimo dei flashback, che trasportano il personaggio con rapidi passaggi e in ordine sparso nelle diverse fasi della vita, se da una parte concede dinamicità al racconto dall’altra crea un certo disorientamento nel lettore che deve soffermarsi un momento sulle date per rientrare nei tempi giusti della storia.

Il personaggio o se vogliamo l’autrice – basta scegliere a quale affezionarsi di più – analizza sin dalle prime pagine i traumi che l’hanno depositata, stanca ed avvilita, sul ciglio di una vita dentro la quale sembra muoversi da estranea, così come da ospite si è mossa nella grande casa dei genitori: una stenosi del collo uterino che rende il ciclo mestruale simile ad un incubo, rumori condominiali che le impediscono di dormire, un lavoro da insegnante che trova avvilente e frustrante, un tumore alla tiroide da stress, la morte degli unici uomini che abbia mai amato incondizionatamente – il padre amorevole e premuroso e il brillante amante già sposato con un’altra donna (un po’ padre anche lui, per via dei tanti anni in più, in un evidente complesso edipico) – la convivenza con una madre ostile e insopportabile, le disavventure mediche e ospedaliere, quest’ultime duri atti di accusa nei confronti di un sistema sanitario, pubblico e privato, che non si occupa minimamente del benessere dei pazienti e che dispensa farmaci in maniera dissennata come panacee buone per tutte le stagioni. Ma quella vita che avverte con prepotenza e che le ruggisce dentro ancora incompiuta la rende vestale della scrittura, unica divinità cui votare ogni scelta ed ogni sforzo, nonostante i capricci e le lungaggini degli editori. Così, niente marito, come si auspicherebbe la madre angosciata da un patrimonio destinato a restare senza eredi, niente figli, che ruberebbero tutto il tempo libero, e uno sguardo livido – spesso baciato da guizzi di ironia – da posare sul mondo che le appare capovolto nei valori e nei più banali meccanismi di funzionamento. In compenso qualche amicizia sincera, l’affetto di una zia e di una cugina prematuramente scomparsa, un adorato Dolcepapà e un gatto, fulcro esistenziale e coprotagonista che condizionerà azioni e decisioni senza che questo venga avvertito come un sacrificio.

A ben guardare nulla di veramente eclatante se rapportato alla soglia di tolleranza comune, in fondo tutti sono attraversati da piccole e grandi gioie e da piccoli e grandi dolori, ma la visione della protagonista apre una finestra sulla depressione e sulla distorsione operata da una patologia neurologica di base (una larvata sindrome di Asperger) che trasfigura situazioni e percezioni collocandole in un’atmosfera di eccezionalità che non sempre il lettore può riconoscere come tale. Un percorso per certi versi simile a quello compiuto da Gail Honeyman in Eleanor Oliphant sta benissimo con il quale Preludio alla follia condivide la difficoltà di leggere certe dinamiche relazionali e la presenza di una madre ingombrante che in qualche modo altera la percezione di sé.

Il processo di identificazione appare allora più immediato in certe pulsioni inesprimibili che la maschera sociale impone di controllare e di reprimere, in certe sensazioni che albergano nell’animo umano come patrimonio comune al quale non è possibile aprire un varco liberatorio.

Non mancano le situazioni leggere in questo romanzo breve, anzi se ne trovano parecchie nel continuo ondeggiare tra presente e passato che ricostruisce i tasselli fondamentali dell’infanzia e della giovinezza, epoche in cui le possibilità di sopravvivenza sembravano infinite e praticabili, e quelli dell’età matura, in cui la disillusione e la stanchezza assumono le sembianze di una pericolosa depressione, malattia di proporzioni sempre più ampie sulla quale l’autrice si sofferma come se volesse mettere in guardia il lettore per fornirgli strumenti utili al suo riconoscimento e al suo devastante potenziale.

Che prima o poi si scatenerà l’uragano della follia è chiaro sin dal titolo, ma l’evento è continuamente procrastinato, perché il lettore deve sentire l’esasperazione della protagonista giungere all’apice e frattanto congetturare su chi ne resterà vittima e per quale motivo, quindi ovviamente non staremo qui a fare rivelazioni inopportune.

Sarebbe bello alla fine immaginare di sentire la risatina lieve dell’autrice che strizza un occhio e sussurra: “Ci hai creduto? Era tutto un gioco!”, ma di certo l’epilogo vuole invece mantenere un carattere di assoluta drammaticità attraverso una riflessione su quanto la follia non sia affatto straordinaria e immediatamente percepibile, riflessione che l’autrice aveva già effettuato nel recente Tre gesti di ordinaria follia edito da Tabula Fati.

E la madre tiranna? Alla fine è soltanto una vecchietta affetta da demenza con la quale l’autrice e la protagonista, dopo la morte, possono riappacificarsi, senza rancore.

Daniela Di Benedetto

Preludio alla follia

Pietro Vittorietti Edizioni

pp.184, € 12.00

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