L’estate del ’78 di Roberto Alajmo

La messa a fuoco della disfatta. ‘L’estate del ‘78’ di Roberto Alajmo, ed. Sellerio

 

Luglio 1978. Via Stesicoro, Mondello. Tempo e luogo in apertura come in una sceneggiatura cinematografica. Sono il tempo e il luogo decisivi, quelli dell’ultimo incontro con la madre, ma il ragazzo,  tutto preso dagli esami di maturità, dagli amici e dalla prospettiva allettante di un gelato, non può saperlo.

Nel romanzo L’estate del ’78, edito da Sellerio e vincitore del Premio Letterario Alassio Cento Libri, lo scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo, direttore del Teatro Biondo dal 2013, racconta la tragedia personale del suicidio materno, ancora carico di interrogativi irrisolti, con una sorprendente capacità di coinvolgimento che nasce dall’uso originale di una scrittura che con superbo andamento ossimorico si rivela filtrata e sanguinante allo stesso tempo. La distanza offerta dal tempo trascorso e la capacità di avvicinare l’oggetto dell’indagine con precisione entomologica procedono saldamente avvinghiate, mentre il passaggio di ruolo da figlio a padre interviene a sorreggere la narrazione sostanziandola di un passato più recente e fresco e a correggere percezioni e punti di vista. Correggere nel vero senso della parola, perché l’età matura possiede forse quest’unico privilegio: la capacità di tornare sul vissuto e di correggerne le deformazioni nel ricordo per donare luce nuova anche al presente.

L’incontro è diluito e procrastinato sin dalle prime pagine, l’autore non lo racconta in un unico segmento, procede per piccole tappe, avvicinandone l’epilogo con una lenta zoomata. Diversi episodi, considerazioni, ricostruzioni della memoria, che costituiscono in concreto sia l’ossatura che la polpa del testo, vengono inseriti prima della scena successiva che si apre sulla stessa data, sempre in corsivo, e sul punto esatto in cui si era conclusa la precedente, perché una volta consumato, con tutto il suo carico di imbarazzante banalità, quell’ultimo incontro manterrà intatto il suo enorme e sprecato potenziale, il suo pesante fardello di amarezza inestinguibile, ma sarà finalmente messo a fuoco con lucidità, maneggiato con cura e devozione.

Non è semplice per un figlio essere oggettivo nei confronti della propria madre, ma Alajmo, a suo modo, riesce nell’impresa, forse aiutato dalla distanza già scavata inesorabilmente dall’uso dei barbiturici che allontanano la donna isolandola in un territorio invalicabile e intricato.

Conosciamo così Elena Parrino in tutta la sua voracità di vita e di indipendenza destinata alla disfatta, in una bellezza coltivata anche nei momenti di maggiore abbandono, in una modernità di pensiero e di azioni – dall’applicazione degli insegnamenti di Don Milani nella didattica alla richiesta di divorzio in tempi in cui la separazione era ancora circondata da un alone di scandalo – che ne fanno una donna combattuta e affascinante, nell’estremo tentativo di rendere la pittura “lo scopo” della propria vita. Tentativo vano che non riuscirà a sottrarla alla deriva finale, allo scacco matto subìto a soli quarantadue anni e raccontato in pagine di rara bellezza, asciutte, distillate, perfette.

Ma è una morte davvero voluta? Gli indizi convergono in questa direzione, mentre nel figlio resta un varco aperto o forse è solo una ferita dai margini troppo larghi su cui i batteri continuano a proliferare e ad indurre dolore. La triste eredità della vocazione al suicidio, quella che appariva come il lascito più evidente e devastante, è superata grazie alla nascita del figlio Arturo, al quale Alajmo dedica pagine pensose, tenere e rabbiose, come quelle sulle condivisioni cinematografiche e musicali o quelle gustosissime della beata incoscienza del ragazzo nel post Bataclan.

Roberto Alajmo

Di Elena, insomma, restano tracce evidenti nella calligrafia, prima imitata e poi acquisita come propria, e certi lati di carattere come genetica comanda. E resta quell’affetto palpabile eppur lontano, porto ai suoi due figli con discrezione, quasi con vergogna, perché una madre prova sempre un senso di inettitudine travolgente quando non riesce ad abbandonarsi all’abnegazione imposta dal copione sociale.

Alcuni dei momenti più felici sul piano narrativo sono quelli in cui l’autore dà voce alle percezioni collettive, al sentire comune innalzandolo a filosofia del quotidiano con un linguaggio che fa della leggerezza la sua consistenza maggiore. Si va dalle riflessioni sulla vecchiaia prorogata all’estremo con tutto il suo corredo di indignitosa sofferenza all’ipocrisia del dolore incondizionato per la morte di chi in realtà si è già perso nel momento in cui la malattia vi ha piazzato sopra il proprio vittorioso vessillo, dal valore terapeutico del pianto per finzione insegnato al proprio figlio alle diverse declinazioni della felicità sempre e comunque inafferrabile o tardivamente riconosciuta, dalla percezione del momento in cui si acquista la consapevolezza della perdita dell’infanzia a quella traumatica e dolorosa dell’esistenza gelida di un “mai più” che giunge come un avvoltoio a cibarsi della carogna dei nostri affetti perduti. E per il lettore è un continuo riconoscersi in esse: è vero, l’ho provato anch’io, mi è successa la stessa cosa ma non trovavo le parole giuste per dirlo.

Ecco, l’Alajmo scrittore trova sempre le parole giuste e le trova semplici, limpide e belle; l’Alajmo uomo invece le individua con meticoloso scavo, con un disvelamento a tratti impudico ma mai compiaciuto.

Il testo non avrebbe perso la sua efficacia affabulatoria e la sua forza documentaristica anche senza l’ampio corredo di fonti iconografiche e scritte che lo accompagnano; persone e personaggi – tra cui i tanti parenti ben definiti – sembrano convivere in perfetta coincidenza ed è quasi impossibile distinguere il vero dalla finzione, ammesso che essa sia presente, ma autore ed editore scelgono di rendere il patto narrativo ancora più forte per accrescere il gradimento nei confronti di una vicenda personale per la quale l’identificazione è in permanente agguato, per negare spazio a qualsiasi tentativo di sottrazione.

Il dubbio che attraverso la pubblicazione di questa storia il prezzo più alto lo stia pagando proprio sua madre coglie infine l’autore, che forse in tal senso non si sbaglia. Non è dato sapere se e quanto quella nudità di atti e sentimenti, quell’esposizione sotto i riflettori del proprio calvario avrebbe potuto risultare per lei accettabile.

Comunque sia, l’autore ha ritenuto che l’indagine su quella morte andasse fatta e la procedura da seguire, maturata lentamente, avrebbe potuto soltanto essere quella adottata dall’adulto sin dall’ingresso nell’età del sorpasso, quella in cui il figlio può cominciare a conteggiare più anni di quelli materni. Un’indagine attraverso la quale l’uomo ha tentato di restituire una qualsiasi necessaria verità al se stesso orfano. E’ probabile che non sia giunta la catarsi, magari neanche cercata, ma Roberto Alajmo consegna uno dei suoi romanzi migliori, autentico e dolente, ironico e tenero, con la sua consueta scrittura piana e priva di fronzoli, una scrittura che pattina veloce aggirando gli ostacoli e lasciandosi dietro un senso di appagante pienezza.

Autore: Agata Motta

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“Dopo il diluvio” di Leonardo Malaguti

                                                                              Il mestiere del critico. Letteratura

L’attesa del nemico che non c’è. Dopo il diluvio, l’esordio narrativo di Leonardo Malaguti

Il diluvio, si sa, è catastrofe e punizione ma anche preludio di rinascita e rinnovamento spirituale e materiale. Cosa accadrà dunque nel paesetto “costruito dentro una vera e propria scodella” non appena l’ira divina si sarà placata? Leonardo Malaguti nel suo primo romanzo Dopo il diluvio, finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2017, edito da ἑxòrma, si inserisce nel solco bizzarro e molto apprezzato di certa produzione contemporanea (Daniel Pennac, Gianni Celati, Massimo Roscia) che, scollandosi apparentemente dalla realtà, esplora le pulsioni più sinistre ed inquietanti di uomini senza più coordinate – siano esse spazio-temporali o affettive o politiche o sociali – per farne oggetto di dissacrante ironia senza mai perdere di vista l’aspetto ludico della scrittura, l’atto del narrare in sé e per sé. Lo stesso Malaguti rivela alcune delle influenze letterarie subìte, come il Woyzeck di Büchner e Il tamburo di latta di Gunter Grass, ma insiste molto su echi cinematografici e soprattutto di arte figurativa con specifico riferimento al caos brulicante che popola i quadri del fiammingo Bruegel.http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/07/09/lattesa-del-nemico-che-non-ce-dopo-il-diluvio-lesordio-narrativo-di-leonardo-malaguti/

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Recensione “Lo spreco” su Scenario

Il sudario delle aspirazioni. “Lo spreco” di Agata Motta

Non c’è richiesta del corpo che possa essere ascoltata. Neppure la sete che forma ragnatele nella gola. Perché lui è lì sul letto, con l’abito della sua ultima festa dentro il quale piano piano si avvizzisce mentre il viso diventa un mucchietto di ossa e ombre. E annega nell’isolamento. Si sentirà smarrito? Si sentirà solo, estreaneo a se stesso, abbandonato, impotente? Avrà freddo? E’ il primo pensiero che passa per la testa: lì dov’è adesso avrà freddo? Gli ebrei pensano che l’aldilà sia un luogo buio e triste, lontano da dio, un posto vuoto. Sarà così? » Read more

Liolà al Biondo

Il burattinaio gretto di Moni Ovadia. ‘Liolà’ al Teatro Biondo di Palermo

Con Liolà, spettacolo di solido impianto e di magnetiche atmosfere che risucchiano in un caleidoscopio di luci, colori, voci e movimenti, si chiude la stagione del teatro Biondo che ha prodotto, in collaborazione con il teatro Garibaldi di Enna e del Teatro Regina Margherita di Caltanissetta, quest’originale e riuscitissima operazione artistica diretta magistralmente da Moni Ovadia e Mario Incudine.

Scritta in una delle fasi più feconde e felici della produzione pirandelliana, Liolà è una commedia campestre in cui moduli narrativi e stilemi verghiani, ben presenti nei tipici motivi della roba e della coralità, cominciano ad incrinarsi per accogliere le riflessioni sull’animo umano e le sue più intime pulsioni e quelle su un ordine sociale retto da convenzioni e da apparenze apparentemente infrangibili. In piena guerra mondiale e con il figlio Stefano prigioniero degli austriaci, Pirandello si butta a capofitto nel lavoro traendone quelle soddisfazioni che il privato gli nega e in quest’opera, che lui stesso definisce la più “fresca e viva”, recupera la trama del IV capitolo de Il fu Mattia Pascal inserendovi alcuni tratti caratteriali e il nome del protagonista della novella La mosca.http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/05/22/il-burattinaio-gretto-di-moni-ovadia-liola-al-teatro-biondo-di-palermo/ » Read more

Intervista a Osac, il cane del Klondike

Intervista a Osac, il cane del Klondike

 

Se siete tra quelli che pensano che ai cani manchi solo la parola, non ditelo a Romana Petri, potrebbe irritarsi ed interrompere subito ogni approccio comunicativo. Per la Petri i cani la parola ce l’hanno eccome, basta semplicemente saperla ascoltare e decodificare. Nel suo ultimo romanzo Il mio cane del Klondike, edito da Neri Pozza, la Petri racconta una storia bella e semplice in cui il dialogo tra essere umano ed animale è perfettamente possibile e praticabile. Non c’è dubbio che si tratti di una storia d’amore in piena regola, con tanto di languidi sguardi, di carezze date e ricevute, di abbandono e di sofferenza, di gioia e di promesse infrante. Quella tra Osac, cane di indomita bellezza e incontenibile forza, e la sua padrona, insegnante che vive una delicata fase di passaggio della propria vicenda umana, è una burrascosa passione e la donna appare subito disposta a lasciare che le proprie giornate vengano riplasmate da una presenza caotica, terribilmente affascinante, immediatamente indispensabile. » Read more

“Fratelli” di C. Collovà

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Coabitazione dentro la gabbia della Malattia. “Fratelli” di Claudio Collovà al Teatro Biondo di Palermo – PRIMA NAZIONALE

Con la volontà di stornare l’attenzione dall’autobiografismo del suo Fratelli, subito accolto con grande favore di pubblico e di critica, Carmelo Samonà aveva definito le tematiche affrontate dal romanzo “nell’ostacolo della comunicazione linguistica e nella tensione che caratterizza, comunque, ogni rapporto umano”. La malattia mentale, che nel romanzo tiene avvinghiati eppur distanti il fratello sano e quello malato, può senz’altro assurgere a metafora espressiva, sia essa corporea che verbale, ma lasciarvi intatta anche la dimensione del vissuto fugacemente rubato, dello strazio che incrosta il quotidiano, dei gesti sempre uguali per significati che si vorrebbero sempre diversi può solo accrescerne il fascino e l’impatto emotivo.

Ed è proprio attingendo ad entrambe queste chiavi di lettura che Claudio Collovà, a distanza di quasi vent’anni, torna a dirigere un nuovo allestimento di Fratelli in prima nazionale alla sala Strehler del Biondo. In scena Sergio Basile e Nicolas Zappa, ormai da tempo compagni d’avventura ricettivi e sensibilissimi nell’accogliere, captare e assorbire le drammaturgie che Collovà propone loro con la certezza che ne saranno a loro volta risucchiati divenendo parte attiva del processo creativo. Lo spettacolo può dunque nascere, prima dal silenzio rotto da un continuo e fastidioso brusio esterno (il mondo fuori che preme restando indecifrabile e lontano), poi dai movimenti stereotipati del fragile e minuto fratello malato, poi dalla voce chiara di chi affila le armi della logica per mettere ordine attraverso la parola scritta o pronunciata a ciò che per sua stessa natura non può che sfuggire al rigore di una catalogazione che non sia puramente numerica.

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“Il figlio sospeso” di Egidio Termine

IL FIGLIO SOSPESO

scritto e diretto da Egidio Termine

 

Se esiste una caratteristica comune nell’essere madri, essa sta nella difficoltà di accettare la propria creatura come “altra da sé”, come essere diverso che non appartiene più al corpo che lo ha generato. E quando il figlio non è il prodotto dei propri ovociti e della propria gestazione, come cambia questo senso del possesso? E se per volontà o per destino le madri diventassero due?

Il figlio sospeso, film scritto e diretto da Egidio Termine al suo secondo lungometraggio, mette in campo due madri per un unico figlio inconsapevolmente sospeso, quasi strattonato da un eccesso di amore da una parte e dall’obbligo all’oblìo dall’altra.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/12/06/due-ritratti-di-madri-fra-sensi-di-colpa-e-argini-simbolici/

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