“Agata del vento” di Francesca Maccani

“Agata del vento” di Francesca Maccani

@ Agata Motta, 13 ottobre 2024

Un’isola incantevole e una bellissima ragazza sono le protagoniste di Agata del vento, l’ultimo romanzo di Francesca Maccani, edito da Rizzoli e ambientato all’inizio del secolo scorso. Lipari ventosa e aspra si materializza subito agli occhi del lettore con il suo mare che conforta e infuria, con la povera gente che fatica per portare a casa il necessario, con il suo piccolo mondo arcaico in cui tradizioni e credenze si intrecciano senza stupori o ricerche di spiegazioni razionali.

Nata sulla spiaggia e marchiata sulla pelle da un segno che si rivelerà un destino ineludibile, la giovanissima Agata cresce laboriosa e onesta tra pesca notturna e lavoro diurno nei campi, indipendente e fiera come le altre donne dell’isola, assai diverse da altri contesti dell’epoca segnati da passive accettazioni. E sorprende come in luoghi così isolati la funzione sociale delle donne sia stata tanto forte e definita, non confinata esclusivamente alla cura della casa e dei figli, come se il lavoro sulle barche in mare e sui campi da coltivare venisse svolto non solo come contributo alle necessità familiari ma anche come opportunità di autodeterminazione.

La famiglia, come tante all’epoca, è stata sconvolta dal massiccio fenomeno dell’emigrazione che ha portato via l’amato padre alla ricerca di fortuna in America, e la madre, inacidita dall’abbandono e da una colpa antica che la consuma, nulla concede ad Agata se non un’attenzione vessatoria e sgarbata. Gli unici punti saldi di riferimento sono il fratello Rosario, perché il maggiore, Salvatore, è troppo occupato nel suo ruolo di capo famiglia e di custode della virtù della sorella in sboccio, e la Za’ Teresa, la levatrice e majara che l’ha accolta quando è venuta al mondo.

Nella notte del suo quindicesimo compleanno qualcosa di inaudito e misterioso sconvolge l’esistenza della ragazza e inquina le sue certezze: Agata riceve il dono del vento, rarissima capacità di curare malattie e dominare gli elementi concessa solo a coloro che sono stati “pigghiati da Eolo”; dono che può essere tramandato alle generazioni successive. L’amorevole nonna di Agata, Minica, morta quando lei era ancora bambina, era solo una delle tante donne guaritrici che agivano sui malanni lievi attraverso ‘raziuni, formule da mandare a memoria e da recitare accanto all’infermo di turno, ma non aveva il dono del vento, quindi la ragazza non ha potuto ereditarlo da lei. Agata sarà sconvolta dall’evento e tenterà di mettere a servizio degli altri quel dono che sull’isola possiede anche lo spigoloso Zu’ Bastiano, restìo ad accogliere la richiesta di chiarimenti della confusa ragazza.

Cosa si fa se ci si accorge di avere un potere immenso che può modificare le vite altrui? Sembrerebbe un privilegio invece può rivelarsi una condizione scomoda e non richiesta, un cruccio insistente, un’insidia da tenere a bada, una virtù che sconfina nella stregoneria e che pertanto può insospettire i potenti e gli uomini di scienza.

Le giornate di Agata cominceranno dunque a svolgersi sul doppio binario del segreto e della disponibilità all’aiuto, ma l’amore giunge a sparigliare le carte, a mettere a tacere il sofferto dono per spalancare le porte alla passione e poi al disinganno.

Un indiscutibile elemento di fascino nella narrativa della Maccani è costituito dalla scelta di argomenti e tematiche inusuali che affondano le radici in una realtà indagata e ricostruita con l’ausilio di fonti pazientemente consultate. Preziosi in tal senso i testi dell’antropologa Macrina Marilena Maffei (autrice di riferimento anche per Evelina Santangelo che ne fa esplicito riferimento nel suo Il sentimento del mare), una vera e propria bussola per chi voglia orientarsi in quei luoghi; testi che l’immaginazione dell’autrice feconda attraverso la costruzione di personaggi di esatta consistenza e meccaniche seduttive nella manipolazione dell’intreccio.

Di forte interesse storico e ben inserita nel contesto la descrizione delle condizioni di vita dei “coatti”, malfattori o semplicemente personaggi scomodi, relegati in condizioni disumane sull’isola, ma lo sguardo dell’autrice ne segue in particolare soltanto uno, importante per certi snodi della vicenda familiare. Anche la cronaca trova spazio tra le pagine con un femminicidio, realmente avvenuto nel 1904 e testimoniato dalle fonti dell’epoca, che, più delle disillusioni amorose e delle rivelazioni sulle proprie origini, spingerà Agata a scelte definitive e potenzialmente risarcitorie.

L’autrice si ispira ad una storia vera piegandola alle proprie necessità narrative, non giudica e non commenta, lascia che i suoi attanti si svelino da soli soprattutto attraverso i gesti e le azioni, mentre i dialoghi, asciutti ed essenziali, aderiscono a personaggi del popolo che non potrebbero indugiare, per assenza di strumenti culturali, su discorsi articolati e complessi.

In Agata del vento ritroviamo alcune costanti ideologiche e stilistiche dell’autrice già presenti nel precedente Le donne dell’Acquasanta, come l’attenzione per la condizione femminile e la cura particolare riservata alle sequenze descrittive atte a creare atmosfere credibili e palpabili con efficaci metafore di grande delicatezza, mentre viene ridotto al minimo indispensabile per la restituzione del colore locale l’uso del dialetto, “semplificato e misto all’italiano”, come precisa la stessa Maccani nelle note finali, per renderlo comprensibile anche ai non siciliani.

Sincera e pertanto ben focalizzata l’attenzione riservata a quegli aspetti magici e ancestrali per i quali la gente era portata a provare un misto di invidia e di ammirazione e a nutrire il rispetto dovuto all’irrazionale che irrompe nel quotidiano, a ciò che la mente non può comprendere ma intuire. Solo chi appartiene alle vecchie generazioni cresciute nei piccoli paesi ricorda rituali e formule che alcuni anziani praticavano con spontanea innocenza e che davano conforto al cuore più che al corpo, superstizioni che oggi farebbero storcere il naso ma che rappresentano invece un patrimonio collettivo destinato a disperdersi. Ben vengano quindi i testi che ne riaccendono la memoria e il complesso valore sociale e antropologico.

Agata del vento

di Francesca Maccani

Rizzoli editore

17.00 €

pp.302

https://www.scriptandbooks.it/2024/10/12/agata-del-vento-di-francesca-maccani/

anche su Articolo21

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“Il sentimento del mare” di Evelina Santangelo

Il sentimento del mare di Evelina Santangelo

@Agata Motta, 26 agosto 2024

Essere sopravvissuti, o almeno percepirsi come tali, determina mutazioni incontrollabili, spesso repentine e radicali. Si comprende come ciò che si è vissuto sia destinato a incancrenirsi senza possibilità di guarigione, ma si può anche scoprire il fascino dell’incerto futuro, scrutato con apprensione come se fosse pronto a volatilizzarsi con un semplice gesto della mano. Si può accettare lo scorcio di una diversa angolazione attraverso cui guardare al passato e lasciarsi sorprendere dalla constatazione di quanto il patrimonio condiviso con gli altri sia stato prezioso e determinante per la propria crescita e di come i solchi profondi e non più colmabili possano essere aggirati con semplici deviazioni.
Evelina Santangelo nel suo ultimo libro – definirlo romanzo forse sarebbe fuorviante – Il sentimento del mare, edito da Einaudi, segue il filo conduttore della propria sopravvivenza, legata a devastanti condizioni fisiche ed emotive, e si lascia sedurre dalle tante storie raccolte da amici o da occasionali interlocutori che hanno per oggetto il mare con i suoi richiami irresistibili, con i suoi pericoli sempre in agguato, con la sua spossante dolcezza, con i suoi abissi assassini e la sua mitologia e vi intreccia i propri ricordi e una sete di sapere finalmente riaccesa dopo una lunga e penosa apatia. L’autrice vuole spingersi verso l’ignoto e contemporaneamente riacciuffare i nodi irrisolti del passato, come il mistero sulla fine di un giovane cugino sommozzatore del quale ad ogni costo vuole scoprire “il modo in cui si è visto morire”.
Come una curiosa giornalista porge domande, sonda terreni inesplorati, porta a galla pezzi di storie che meritano di essere conosciute. Ne scaturiscono pagine che contengono una gran mole di informazioni sulle mattanze dei tonni, sulle donne pescatrici e contadine dell’isola di Lipari (argomento che torna nelle più recenti pubblicazioni – Francesca Maccani le racconta in Agata del vento – come a fare ammenda di un lungo oblìo), sul cimitero degli sconosciuti di Zarzis, sui diciotto pescatori mazaresi sequestrati dalla Guardia costiera libica, su bizzarri personaggi che hanno affrontato con granitica determinazioni imprese per altri incomprensibili, come il giro del mondo in barca a vela senza scali o la ricostruzione dello scheletro di un giovane capodoglio straziato dall’uomo e dalla natura.
Dati, osservazioni, curiosità e commenti accompagnati da un piccolo concerto di riferimenti letterari e cinematografici – La Perla di Steinbeck, Moby Dick di Melville, Manoscritto ritrovato in una bottiglia di Poe, Le onde del destino di Lars von Trier, The perfect Storm di Wolfgang Petersen, J’accuse di Abel Grance, Gran Bleu di Luc Besson, La lunga rotta di Bernard Moitessier – una colonna sonora prodotta da associazioni mentali estremamente soggettive, perché le opere d’arte parlano ad ognuno con voce diversa e risuonano in momenti e luoghi imprevedibili.
E proprio quando sembra che la narrazione stia per inaridirsi nella sovrabbondanza di dettagli tecnici e di divagazioni, giunge il calore dell’umanità di incontri con amici o con sconosciuti, scatta la molla dell’empatia e con essa il desiderio di affidare il proprio dolore a chi è disposto ad accoglierlo, sorge la commozione provata sulla costa normanna del D-day e, pian piano, si fa strada una ricognizione interiore che viene consegnata al lettore a piccoli sorsi e in chiaroscuro, perché al bisogno di urlare il proprio strazio si accompagna una sorta di pudore protettivo sui sentimenti più forti, specie quelli riguardanti il ragazzo dagli occhi azzurri che è stato l’amore di una vita e che forse continuerà ad esserlo anche nel gelo della fine.

Credits Rino Bianchi

E poi esplode l’infanzia solare, l’unico periodo della vita sgargiante di avventure, di ferite e di cadute, di sale e di sudore, trascorso con l’adorato zio pescatore, che tutto le ha insegnato come un mentore affettuoso, o con la nonna paterna, vissuta in un paese di mare senza mai riconoscere all’immensa distesa azzurra un valore diverso da quello paesaggistico. E da quell’infanzia di “immortalità e gioia pura” l’autrice lascia riaffiorare il senso di sfrenata libertà provato in campagna e al mare, realtà diversissime eppure affini nelle sensazioni suscitate. A dimostrarne il legame, un oggetto simbolo – un semplice coltello – indispensabile su entrambi gli scenari, punto di raccordo tra le due anime e le due infanzie, quella di terra e quella di mare.
In un localino seminascosto di Marina Corta, a Lipari, davanti ad un bicchiere di vino rosso, arrivano finalmente le parole, il groviglio esistenziale comincia a srotolarsi e a prendere forma. E dunque eccolo straripare il sentimento del mare, vero protagonista della narrazione, perché attraverso il mare e la sua bellezza l’autrice riscopre se stessa, dialoga con la sopravvissuta che nel mare continua a riconoscersi. Ecco tutta l’intensità delle emozioni da esso prodotte restituite in una gamma multiforme di passioni e di contraddizioni, sciolte infine nell’abbraccio di un bagno invernale che dona brividi e benessere, che accoglie come un grembo capiente, che consegna all’anima inquieta il segreto dell’abbandono.
“Adesso desideravo liquefarmi nell’acqua, essere quella purezza lì senza peccato… L’importante è non fermarsi, muoversi, nuotare”.

Evelina Santangelo
Il sentimento del mare
Einaudi editore
pp.152
17,50 €

https://www.scriptandbooks.it/2024/08/24/il-sentimento-del-mare-di-evelina-santangelo/

“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi

“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi per Barta Edizioni

@ Agata Motta, 27 luglio 2024

Codici per accedere al presente e a ciò che siamo stati, per individuare nel proprio personalissimo archivio emotivo quei momenti, esplosi come bengala in cieli oscuri, atti a condizionare lo svolgimento della vita: sono queste Le parole d’ordine di Andrea Dei Castaldi, intrigante e riservato autore che pubblica il suo quarto romanzo sempre per Barta edizioni.

Come il precedente Anime brevi, che nasceva durante una lunga parentesi sudamericana, anche quest’ultimo romanzo si colloca dentro un’esperienza personale destinata a lasciare impronte profonde: la malattia e la morte del padre vissute dapprima come guerra e sofferenza e infine come atto di fede nei confronti della vita e dei suoi immancabili orizzonti di luce. Non siamo di fronte a romanzi autobiografici ma a lavori che sgorgano da circostanze forti che scuotono e costringono allo spossante abbandono ad una scrittura risarcitoria.

Oreste, Stefano, Domenico e John si ritrovano dopo trentasette anni. Sono stati convocati e riuniti dalla giovane Olga, nipote del primo. L’occasione è quella della consegna di una medaglia al valore per l’eroico coraggio dimostrato durante la campagna d’Africa allo zio Oreste, ormai molto fiaccato dalle malattie. Medaglia che giunge, per affanni burocratici, dopo tanto di quel tempo e di quegli accadimenti, compresa la militanza di Oreste nelle truppe partigiane, da non avere più senso per chi dovrebbe riceverla. E infatti il destinatario vi rinuncerà ma il ritrovarsi dei quattro uomini sarà, in modi diversi per ciascuno di loro, un’opportunità che potrebbe trasformarsi in atto catartico. Ad accomunarli, infatti, è la tragica esperienza bellica e il casuale intreccio delle loro esistenze in condizioni estreme. A ben guardare, anche questi personaggi sono “anime brevi” nella maniera intesa da Dei Castaldi, cioè esseri umani sopravvissuti dopo la perdita della parte più preziosa di sé, che sia essa un mancato amore giovanile, un pezzo del proprio corpo martoriato, la fede che vacilla di fronte all’insensatezza della guerra o il senso dell’onore militare e del dovere nei confronti della patria poco importa. Vivere comporta anche questo, lasciare lungo il tragitto parti di sé e proseguire il cammino, ma senza fuggire da se stessi, senza mai rinnegare un passato che tanto riemergerebbe comunque, violento e doloroso, anche a distanza di molto tempo.

Tra tutti Oreste è il personaggio più enigmatico, chiuso nel proprio buio dal momento in cui, ancora bambino, per salvare il fratello minore dall’annegamento, si ritrova a tu per tu con la morte. Continuerà a camminarle accanto senza temerla, pur incontrandola e respirandone il fiato più e più volte nel corso della vita. Non si farà donare il cavallo più veloce che c’è come il soldato di Roberto Vecchioni, Oreste sa di non poter sfuggire alla propria Samarcanda, sa che quando la nera signora vorrà prenderlo con sé non potrà fare altro che abbandonarsi ad essa. Come nelle tragedie greche il Fato non è eludibile. Di Oreste sapremo sempre poco e quel buio, vivificato da un’incrollabile attaccamento alla vita, resterà fitto e conturbante, ma lui è il perno intorno al quale l’autore ricostruisce i ricordi di tutti gli altri – un medico inglese, un giovane cappellano, un capitano – che in simmetrica alternanza, con una precisa scelta nell’impianto narrativo, consegnano al lettore le loro vicende legate ad un contesto bellico, e qui sentiamo gli echi di altre canzoni, come La guerra di Piero di De Andrè, o di altra letteratura, come Remarque e Ungaretti, per il quale si fatica a trovare una qualsiasi logica o uno straccio di giustificazione.

Il presente, non più vicinissimo, della storia è il 1978, anno preso in prestito per immettervi le vicende altrettanto enigmatiche e insolute del brevissimo pontificato di Albino Luciani.

L’autore inserisce in tal modo un nucleo narrativo di grande impatto speculativo apparentemente divergente rispetto al filo conduttore, ma in piena sintonia con la crisi spirituale dell’ex cappellano Stefano Casadei e, più in generale, di una parte del mondo cattolico che in quel momento storico non si identificava più con i vertici ecclesiastici. Stefano incontra Fausto, un compagno di seminario poi perso di vista divenuto insegnante di storia e filosofia, dedito alla stesura di un saggio, intitolato Le origini del male, in cui identifica l’Anticristo nella Chiesa di Roma, colpevole di avere agito nel corso della storia contro l’affermazione dell’autentico messaggio cristiano di cui Gesù era stato portatore. Fausto confessa all’amico di essere rimasto in contatto con Albino Luciani, definito “il loro comune amico” e di aver ricevuto persino una telefonata dopo l’elezione al pontificato in cui si dichiarava “agnello in mezzo ai lupi”. In Fausto, insomma, si era accesa la speranza di un cambiamento epocale in seno alla Chiesa, qualcosa di rivoluzionario che avrebbe potuto riportare il baraccone al messaggio originale di Cristo, teoria riconducibile a certe eresie medievali sradicate violentemente dal potere ufficiale. Ma la Storia, come sappiamo, ha seguito un percorso diverso e l’alone di dubbio che ha avvolto l’improvvisa e inaspettata morte del pontefice non si è mai dissipato del tutto. I capitoli del romanzo dedicati a Luciani accendono nuovamente i riflettori su una figura marginale perché incompiuta in questi delicati anni in cui il pontificato di Francesco suscita sconcerto in certe frange tradizionaliste della Chiesa.

Ritrovare il proprio ordine interiore non sarà facile per i quattro personaggi, ma ognuno muoverà i propri incerti passi incontro al nuovo, fortificato dal recupero di eventi rimossi o accantonati. Per alcuni i passi si muoveranno a ritroso per riannodare fili separati dalla sorte, per altri sarà la fine di un sogno di rinnovamento spirituale o il ritorno al gorgo oscuro delle origini.

Al di là della trama e dei suoi tanti accattivanti snodi, è un piacere ritrovare il linguaggio ricercato di Dei Castaldi, le parole centellinate e scelte con cura, avvertire la meditazione su una scrittura che non scivola via veloce e distratta ma che si spende generosamente alla ricerca del periodo giusto ed esatto.

Una lettura intensa che può giovare a quanti annaspano tra un passato irrisolto ma non modificabile e un futuro denso di incognite allettanti, una presa d’atto della lotta incessante tra il Bene e il Male in una partita da sempre in corso e mai conclusa.

Agata Motta

Andrea Dei Castaldi

Le parole d’ordine

Barta edizioni

pp.177

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“Cuore nero” di Silvia Avallone

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La nuova lucentezza dei dannati. “Cuore nero” di Silvia Avallone per Rizzoli Edizioni

@ Agata Motta, 14 maggio 2024

Un uomo elegante e una giovane donna dai capelli rossi e scarmigliati percorrono un sentiero in salita. Si sente la fatica, il fiato grosso, i muscoli dolenti ma si avvertono anzitutto la determinazione, l’imbarazzo, il bisogno di arrivare, l’altalena di avvicinamenti e prese di distanza, perché la confidenza che dovrebbe esistere tra padre e figlia è stata alterata da quindici anni di reclusione durante i quali lei ha scontato una pena per una colpa grave e irredimibile.

Silvia Avallone in Cuore nero, edito da Rizzoli, mostra subito Emilia, la protagonista di questa bellissima e trascinante storia, nei suoi guasti e nelle sue asprezze. La vediamo muoversi come un animale braccato, spinta dalla necessità di approdare ad un altro nascondiglio, Sassaia, luogo della sua infanzia ormai quasi disabitato, nel quale continuare ad esistere dopo l’uscita dal carcere. Di esistere nonostante il male fatto, che non si è ridotto di intensità durante il periodo detentivo e che le cammina accanto come un’ombra e tracima nel sangue che sgorga dai tagli che si pratica sulle braccia quando il dolore è insopportabile. Suo padre, architetto affermato, innocente e già straziato dalla perdita della moglie, l’ha guidata a distanza come Virgilio attraverso l’Inferno, ma il viaggio negli inferi di Emilia non è stato voluto dalla grazia divina e lei non sembra destinata a riveder le stelle. Le sue sono fiamme interiori che lambiscono l’anima più che il corpo, dalla colpa non si viene fuori se non a patto di nominarla e di accettarla senza negazioni o rimozioni, ma questo processo è bloccato, inceppato nella convinzione che solo tacendo il male esso possa respirare quieto in angolo di cuore, quasi inoffensivo eppure pronto a divampare alla minima sollecitazione.

A raccontare di Emilia è Bruno, altro sepolto vivo di Sassaia, rimasto orfano da bambino per un tragico incidente in funivia dal quale lui e la sorella si salvano per uno assurdo scherzo del destino. La sua vita è irrimediabilmente segnata da una doppia assenza che non è riuscito mai ad elaborare e solo il lavoro con i pochissimi alunni del borgo più vicino riesce ad impartire un ordine alle sue giornate e sbiaditi colori alla solitudine eletta a fedele compagna.

La voce narrante di Bruno accompagna il lettore creando una specie di complicità, perché la sua ricerca della verità sul passato di Emilia (che lui racconta da spettatore partecipe o, come l’autrice precisa in più punti, dopo averla da lei appresa) coincide con la sete di sapere di chi legge, mentre si fanno strada il bisogno di esplorazione dei suoi sentimenti, risvegliatisi dopo un lungo, voluttuoso torpore, e una timida consapevolezza di sé e di quanto del proprio passato possa ancora essere recuperato, come il rapporto sbilenco e usurato con la sorella. Lui non ha colpe, ha subìto un danno, ha sofferto senza aver provocato sofferenza; è naturale affezionarsi alla sua mitezza, al suo candore, alla sua capacità di abbandonarsi ad un sentimento nuovo e travolgente senza desiderare in cambio nient’altro che la verità; è facile apprezzare il suo sacrificio, cioè la rinuncia a sapere, se fare luce sul buio di quella creatura selvatica e spigolosa che la pietrosa Sassaia gli ha donato può comportarne l’allontanamento.

Scaturiscono pian piano, tra continui slittamenti temporali, i tanti elementi presenti nel romanzo, scritto con un linguaggio crudo, talvolta sporcato da un lessico rabbioso e volgare, che sa anche costruire periodi dolci come carezze, inserire dialoghi spontanei e densi e indugiare su pensieri che restano in mente con la potenza degli aforismi.

Ed ecco la dislessia, che da una parte condanna Emilia a comprendere il mondo prevalentemente per immagini e dall’altra le offre la possibilità di ricostruirsi come essere umano proprio per mezzo dell’amore per quelle immagini, amore che passa attraverso l’arte del restauro (bellissima la figura del vecchio pittore Basilio, che le farà da mentore in questo percorso pur conoscendo la verità), metafora intensa per chi deve riportare alla luce ciò che resta di un tempo puro che fu e che non può essere più nemmeno ricordato o concepito. Ridare lucentezza e vita ai dannati del giudizio universale, averli “aiutati a riemergere dal nerofumo in tutta la loro sgargiante disperazione” si configura quindi come un beffardo contrappasso per chi ha conosciuto il male e la condanna.

Ecco l’amicizia tra sbandate (intensa e conturbante la figura di Marta, la capobranco indiscussa che dispensa crudeltà e dedizione), giovanissime donne considerate la feccia della terra eppure piene di pulsioni, di desideri, di sogni che non sanno nemmeno di possedere o che considerano un lusso immeritato perché la colpa ha divorato tutto, anche la possibilità di creare nella mente quelle illusioni così care e così necessarie al cuore.

Ecco i genitori di Bruno, assenti nella storia ma presenti nelle ferite infette lasciate in eredità al figlio bambino, ed ecco il padre di Emilia, sempre presente anche quando incalza la bufera, quando è chiaro che non serve coprirsi, perché si è sempre esposti e nudi di fronte alla cattiveria della gente e di fronte al dolore irreparabile di una figlia che ha distrutto se stessa e un’altra giovane vita.

Ecco la descrizione della condizione carceraria e i timidi tentativi della burbera ma illuminata direttrice pronta a comprendere che solo un percorso scolastico e l’accostamento alla cultura possono trasformare l’immobile disperazione in fiduciosa attesa e possono divenire possibilità concreta di riscatto e di reinserimento sociale. E poi l’assistente sociale e la psichiatra, figure chiave, veri e propri grimaldelli che, se usati con cuore e professionalità, possono scardinare le chiusure autodistruttive.

Infine l’amore incondizionato, quello interrotto, quello accarezzato, quello vissuto. L’amore che tutto ripara anche quando non ricompone i cocci delle vite infrante, ma si limita a raccattarli affinché messi accanto possano riconoscersi e avvicinarsi.

Forte dell’esperienza vissuta all’Istituto penale minorile maschile di Bologna, dove ha condotto laboratori di lettura e di scrittura, Silvia Avallone consegna un romanzo bellissimo dallo stile perfetto, pregno di dolore e di speranza, senza dispensare giudizi morali e senza scivolare in facili sentimentalismi. Dopo averlo letto siamo portati quasi spontaneamente a pensare che davvero dal male possa nascere il bene e magari ad illuderci che ciò non accada solo nei romanzi.

Silvia Avallone
Cuore nero
Rizzoli editore
pp.370
20,00

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“Col fumo negli occhi” di Daniela Ginex

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Le certezze ‘di sangue’. “Col fumo negli occhi” di Daniela Ginex

@ Agata Motta, 1 maggio 2024

Un appartamento zeppo di oggetti, ninnoli di dubbio gusto o cimeli di un blasonato passato, e la sua anziana proprietaria e custode sono i protagonisti di Col fumo negli occhi di Daniela Ginex, edito da Kalòs, una vicenda tutta siciliana, per ambientazione e per mentalità, entrambe ben note all’autrice catanese.

La storia di Matilde, bambina prodigio ancorata ad un passato tutto lustrini e applausi che si è definitivamente concluso, si snoda in un romanzo familiare, che include voci e presenze esterne, denso di illusioni, di amarezza e di sottile ironia, quest’ultima nota felicissima che connota il linguaggio dell’autrice, specie nelle scelte lessicali, e che serpeggia dissacrante nel tempio edificato ad una realtà che non è più tale e che si nutre di necessarie apparenze.

La verghiana tematica della roba e la contrapposizione tra classi sociali appaiono come il fil rouge della narrazione, ma sono i sentimenti, rapaci e dirompenti, a dominare degnamente le pagine che sono intrise a volte da una distanza asettica e oggettiva e altre da una commossa partecipazione.

I personaggi sono tratteggiati con accuratezza, tanto da risultare assolutamente credibili, specie quelli che transitano nei piani più alti della scala sociale. La galleria femminile, tranne le nuove generazioni percorse da spirito di rivalsa e da voglia di riscatto, è accomunata dal tema della sconfitta e della rassegnazione. Chi ama non è adeguatamente ricambiata, chi odia non sa concretizzare in azioni le asprezze che transitano sotto il palato. Meglio tacere, soffocare gli scandali, lasciare che tutto scorra come deve. Le donne da sempre hanno affinato l’arte del dolore, sanno confinarlo in angoli impervi del cuore, possono tirarlo fuori nella solitudine e coccolarlo come un figlio storpio che il caso ha loro affidato. Matilde si illude di scegliere la propria solitudine – nessun pretendente è adatto a lei – e la propria esile gratificazione legata alla musica e all’amore fraterno, ma la sua apparente durezza è solo il frutto di un retaggio culturale e di una categoria di valori che determina ogni passo e ogni parola e che la rende infine vulnerabile e fragile. È circondata di adulatori e di falsi amici che si riveleranno avidi sciacalli pronti ad accorrere per mettere le grinfie su ipotetiche porzioni di eredità, mentre non vede la dedizione e la fedeltà di chi umilmente le sta accanto senza nulla pretendere. E allora sarà legittimo interrogarsi sull’amicizia e sugli affetti, sugli inganni e sulle mistificazioni, su quanto siano instabili i legami e illusori i sentimenti se non si è in grado di guardare oltre il muro delle apparenze e oltre i confini di anacronistiche gerarchie sociali, se non si è capaci di conoscere realmente chi ci vive accanto, di decifrare segni, di leggere comportamenti.

Daniela Ginex

Tra gli uomini è l’affascinante Michele, fratello maggiore di Matilde da lei amato in modo cieco e viscerale, a godere di un’attenzione particolare. Assimilabile ai grandi inetti della letteratura del primo Novecento, Michele, ammantato dei falsi panni dell’eroe di guerra ma in realtà soldato canaglia che acquista un’amante bambina durante la campagna eritrea per poi svenderla per debiti di gioco, sarà condannato dalla vergognosa malattia contratta nei bordelli ad un’infinita e demente immobilità e diverrà oggetto di cura e quasi di culto nella grande casa abitata dalla virtù. Fino al suo decesso, quello che metterà in moto il meccanismo del dare e avere legato ad un asse ereditario che si rivelerà assai diverso rispetto al previsto.

La verità – quella verità in fondo già evidente ma negata e rimossa – è pronta a farsi strada anche a distanza di decenni e il gelido distacco tra servi e padroni finirà per subìre smottamenti che produrranno nuovi assetti difficili da metabolizzare. Parlare di verità nella terra di Pirandello non è cosa semplice, ma esistono certezze “di sangue” che non possono essere negate anche se produrranno accomodamenti relativi.

Per Matilde vivere con il fumo negli occhi ha rappresentato salvezza e sopravvivenza. Di fronte all’”arido vero” meglio accendere un altro sigarino nell’immenso appartamento ormai disertato da tutti, meglio guardarsi bambina felice nel grande quadro appeso alla parete come il trofeo di tutti i sogni possibili.

Daniela Ginex
Col fumo negli occhi
Kalòs edizioni
pp.302
20,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2024/05/02/le-certezze-di-sangue-col-fumo-negli-occhi-di-daniela-ginex/

Recensione di Lucia Tempestini ad”Anime sperse” a cura di D. Ferrante

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Il ronzio della falena. “Anime sperse”, ed. Tabula Fati

@ Lucia Tempestini, 19 aprile 2024

Fa piacere che, un poco alla volta, in Italia si stia superando il giudizio negativo di Manzoni sull’uso di elementi fantastici in letteratura. Non sono mancati nel Novecento i raffinati frequentatori dei mondi che si nascondono, e si rivelano, dietro lo Specchio: Landolfi, Buzzati, Soldati, l’immensa Ortese, tutti consapevoli che la realtà – l’inesistente realtà – è soltanto un maligno, fuorviante inganno, il maldestro gioco di prestigio di qualche Sik-Sik da teatrino di paese; un fazzoletto di tessuto dozzinale gettato sul capo dello spettatore affinché non possa vedere quel misterioso squarcio nel fondale che lo condurrebbe a perdersi – e ritrovarsi – in labirinti e abissi, a scomporsi in riflessi e rivolgere la parola alla propria Ombra.

Eppure, nonostante questa nobile prosapia, il soprannaturale continua ancora oggi a non godere, alle nostre latitudini, della considerazione che meriterebbe e che gli viene tributata altrove. Così, i lettori tendono a rivolgersi alla letteratura anglo-americana per appagare l’umano bisogno di trascendenza di cui scrive Shirley Jackson in L’incubo di Hill House (ed. it. Adelphi): Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano.
Quindi, ogni iniziativa editoriale capace di arricchire la trascurata letteratura di genere è motivo di gioia, compresa l’antologia Anime sperse, curata da David Ferrante per Tabula Fati. Si tratta di racconti di fantasmi ispirati a leggende popolari d’Abruzzo e Molise, e nei testi si avverte qualche reminiscenza di Deledda e Serao.
Più in dettaglio, leggiamo di presenze che, per via di una morte violenta, improvvisa, non riescono a staccarsi dalla dimensione terrena e si aggirano in una sorta di limbo, di terra di nessuno, tornando continuamente ai luoghi e alle persone che sentono ancora propri.
Riluce fra i vari racconti, per originalità e profondità, Vuoto a perdere di Agata Motta.
All’interno di una struttura circolare abilissima e avvincente, l’autrice ci fa sentire sotto la pelle, con voce appena sorniona, il disagio crescente della protagonista, pianista di mezza età dal corpo appesantito che ha accettato un ingaggio in un paesino di pietra bianca, un nido d’aquila nel cuore del Gran Sasso: tre strade in croce rischiarate di notte dalla luce affiochita di qualche lampione. L’unica passeggiata possibile per una creatura del mare com’è la musicista è rappresentata dal sentiero che conduce a una panchina situata in prossimità dello strapiombo: un vuoto colmo di azzurrità, insidioso simulacro marino.
Intrattenere i montanini abulici che la sera pascolano ruminando all’Orso bruno non è certo di rimedio al male di vivere, al senso di inutilità e fatica, ai fantasmi che stringono d’assedio Luisa senza concederle riposo.
Fin dalle origini dell’uomo, apparizioni diafane e insanguinate si sono approssimate alla vista dei vivi per ripetere all’infinito le circostanze di una morte percepita in tutta la sua ingiustizia, spesso prematura, quasi sempre brutale. Lemuri in cerca di un’impossibile seconda occasione, più spesso una vendetta; la stessa inseguita da Lucia, morta molti anni prima in un incidente d’auto mentre alla guida si trovava la sorella Luisa.
Persegue la vendetta con un rancore ridacchiante, esibendo le ferite aperte, il viso segnato, la giovinezza interrotta, il desiderio inestinto di vivere ancora, o almeno di pareggiare i conti, finalmente.
Le sue risatine discrete appaiono moleste come lo scricchiolio della falena che turba la colazione in terrazza di Luisa, in apertura di racconto – patate bollite, capperi e fette di pomodoro piluccate di malavoglia. L’insetto finisce miseramente ucciso, almeno così pare, con due colpi di giornale. È da questo episodio – l’agonia del lepidottero sgraziato e petulante sovrapposta alla scomparsa di Lucia – che prende avvio lo smagliarsi rovinoso delle difese di Luisa, la frana della mente davanti all’impossibilità di superare il rimorso.
La falena riapparirà alla fine, durante una frugale cena di Luisa con il vicino Gianluca, per morire fra i resti del pasto con le ali spalancate e un ronzio simile alla risata sommessa di Lucia, precipitando Luisa nel panico. La donna fuggirà verso il sentiero, correndo a fatica mentre il torpore della corsa risale dalle caviglie alle anche. Via, col respiro che annaspa, verso la panchina, oltre la panchina, verso quel vuoto buio dove infine potrà dimenticarsi.

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