L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

https://www.scriptandbooks.it/2020/04/30/le-avventure-oniriche-di-maria-lhotel-degli-amori-smarriti-con-chiara-mastroianni/

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L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/11/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/