“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi

“Le parole d’ordine” di Andrea Dei Castaldi per Barta Edizioni

@ Agata Motta, 27 luglio 2024

Codici per accedere al presente e a ciò che siamo stati, per individuare nel proprio personalissimo archivio emotivo quei momenti, esplosi come bengala in cieli oscuri, atti a condizionare lo svolgimento della vita: sono queste Le parole d’ordine di Andrea Dei Castaldi, intrigante e riservato autore che pubblica il suo quarto romanzo sempre per Barta edizioni.

Come il precedente Anime brevi, che nasceva durante una lunga parentesi sudamericana, anche quest’ultimo romanzo si colloca dentro un’esperienza personale destinata a lasciare impronte profonde: la malattia e la morte del padre vissute dapprima come guerra e sofferenza e infine come atto di fede nei confronti della vita e dei suoi immancabili orizzonti di luce. Non siamo di fronte a romanzi autobiografici ma a lavori che sgorgano da circostanze forti che scuotono e costringono allo spossante abbandono ad una scrittura risarcitoria.

Oreste, Stefano, Domenico e John si ritrovano dopo trentasette anni. Sono stati convocati e riuniti dalla giovane Olga, nipote del primo. L’occasione è quella della consegna di una medaglia al valore per l’eroico coraggio dimostrato durante la campagna d’Africa allo zio Oreste, ormai molto fiaccato dalle malattie. Medaglia che giunge, per affanni burocratici, dopo tanto di quel tempo e di quegli accadimenti, compresa la militanza di Oreste nelle truppe partigiane, da non avere più senso per chi dovrebbe riceverla. E infatti il destinatario vi rinuncerà ma il ritrovarsi dei quattro uomini sarà, in modi diversi per ciascuno di loro, un’opportunità che potrebbe trasformarsi in atto catartico. Ad accomunarli, infatti, è la tragica esperienza bellica e il casuale intreccio delle loro esistenze in condizioni estreme. A ben guardare, anche questi personaggi sono “anime brevi” nella maniera intesa da Dei Castaldi, cioè esseri umani sopravvissuti dopo la perdita della parte più preziosa di sé, che sia essa un mancato amore giovanile, un pezzo del proprio corpo martoriato, la fede che vacilla di fronte all’insensatezza della guerra o il senso dell’onore militare e del dovere nei confronti della patria poco importa. Vivere comporta anche questo, lasciare lungo il tragitto parti di sé e proseguire il cammino, ma senza fuggire da se stessi, senza mai rinnegare un passato che tanto riemergerebbe comunque, violento e doloroso, anche a distanza di molto tempo.

Tra tutti Oreste è il personaggio più enigmatico, chiuso nel proprio buio dal momento in cui, ancora bambino, per salvare il fratello minore dall’annegamento, si ritrova a tu per tu con la morte. Continuerà a camminarle accanto senza temerla, pur incontrandola e respirandone il fiato più e più volte nel corso della vita. Non si farà donare il cavallo più veloce che c’è come il soldato di Roberto Vecchioni, Oreste sa di non poter sfuggire alla propria Samarcanda, sa che quando la nera signora vorrà prenderlo con sé non potrà fare altro che abbandonarsi ad essa. Come nelle tragedie greche il Fato non è eludibile. Di Oreste sapremo sempre poco e quel buio, vivificato da un’incrollabile attaccamento alla vita, resterà fitto e conturbante, ma lui è il perno intorno al quale l’autore ricostruisce i ricordi di tutti gli altri – un medico inglese, un giovane cappellano, un capitano – che in simmetrica alternanza, con una precisa scelta nell’impianto narrativo, consegnano al lettore le loro vicende legate ad un contesto bellico, e qui sentiamo gli echi di altre canzoni, come La guerra di Piero di De Andrè, o di altra letteratura, come Remarque e Ungaretti, per il quale si fatica a trovare una qualsiasi logica o uno straccio di giustificazione.

Il presente, non più vicinissimo, della storia è il 1978, anno preso in prestito per immettervi le vicende altrettanto enigmatiche e insolute del brevissimo pontificato di Albino Luciani.

L’autore inserisce in tal modo un nucleo narrativo di grande impatto speculativo apparentemente divergente rispetto al filo conduttore, ma in piena sintonia con la crisi spirituale dell’ex cappellano Stefano Casadei e, più in generale, di una parte del mondo cattolico che in quel momento storico non si identificava più con i vertici ecclesiastici. Stefano incontra Fausto, un compagno di seminario poi perso di vista divenuto insegnante di storia e filosofia, dedito alla stesura di un saggio, intitolato Le origini del male, in cui identifica l’Anticristo nella Chiesa di Roma, colpevole di avere agito nel corso della storia contro l’affermazione dell’autentico messaggio cristiano di cui Gesù era stato portatore. Fausto confessa all’amico di essere rimasto in contatto con Albino Luciani, definito “il loro comune amico” e di aver ricevuto persino una telefonata dopo l’elezione al pontificato in cui si dichiarava “agnello in mezzo ai lupi”. In Fausto, insomma, si era accesa la speranza di un cambiamento epocale in seno alla Chiesa, qualcosa di rivoluzionario che avrebbe potuto riportare il baraccone al messaggio originale di Cristo, teoria riconducibile a certe eresie medievali sradicate violentemente dal potere ufficiale. Ma la Storia, come sappiamo, ha seguito un percorso diverso e l’alone di dubbio che ha avvolto l’improvvisa e inaspettata morte del pontefice non si è mai dissipato del tutto. I capitoli del romanzo dedicati a Luciani accendono nuovamente i riflettori su una figura marginale perché incompiuta in questi delicati anni in cui il pontificato di Francesco suscita sconcerto in certe frange tradizionaliste della Chiesa.

Ritrovare il proprio ordine interiore non sarà facile per i quattro personaggi, ma ognuno muoverà i propri incerti passi incontro al nuovo, fortificato dal recupero di eventi rimossi o accantonati. Per alcuni i passi si muoveranno a ritroso per riannodare fili separati dalla sorte, per altri sarà la fine di un sogno di rinnovamento spirituale o il ritorno al gorgo oscuro delle origini.

Al di là della trama e dei suoi tanti accattivanti snodi, è un piacere ritrovare il linguaggio ricercato di Dei Castaldi, le parole centellinate e scelte con cura, avvertire la meditazione su una scrittura che non scivola via veloce e distratta ma che si spende generosamente alla ricerca del periodo giusto ed esatto.

Una lettura intensa che può giovare a quanti annaspano tra un passato irrisolto ma non modificabile e un futuro denso di incognite allettanti, una presa d’atto della lotta incessante tra il Bene e il Male in una partita da sempre in corso e mai conclusa.

Agata Motta

Andrea Dei Castaldi

Le parole d’ordine

Barta edizioni

pp.177

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I romanzi di Andrea Dei Castaldi

Ambiguità del riflesso. Due romanzi di Andrea Dei Castaldi, ed. Barta

 

Gli autori che si scoprono per caso, al di fuori dei grandi circuiti pubblicitari, talvolta possono sorprendere piacevolmente e spingerci magari a tornare sullo stesso editore che ha voluto scommettere su quel nome. Andrea Dei Castaldi è tra questi. Dei suoi due romanzi, Finistère e La cesura, entrambi editi dalla casa editrice toscana Barta con sobrie e raffinate copertine, colpisce il tentativo, portato a termine attraverso percorsi tortuosi e sofferti, di arrivare al nocciolo dei grandi misteri dell’anima, di indagare sulle ragioni di malesseri interiori indotti da eventi traumatici esterni – la morte del fratello gemello nel primo e il trasferimento delle spoglie di un padre sconosciuto nel secondo – da colpe vere o presunte, da oscillazioni affettive che possono determinare grandi passioni e intermittenti solitudini.

Finistère è l’ambizioso romanzo d’esordio di Dei Castaldi, racchiuso in una cornice narrativa di ambientazione settecentesca che fornisce la chiave interpretativa di una storia contemporanea in cui Eros e Thanatos governano i tanti personaggi e si presentano più che come pulsioni da governare come forze da contrastare. Il bisogno intimo di chiarezza del giovane Giona si trasforma nell’inseguimento fisico dell’ex fidanzata del defunto fratello, girovaga in cerca di espiazione e di guarigione, correttamente ritenuta depositaria di verità non rivelate, e in un coinvolgimento sentimentale volto all’impossibile identificazione con la parte morta di se stesso. Un’eclissi solare nella ventosa punta estrema della Bretagna – ognuno possiede una propria personalissima finis terrae intesa come limite invalicabile e confine dell’anima – e, sotto il grande cono d’ombra della stella offuscata, una bambina precocemente adulta e dalla fantasia vorticosa scioglie inconsapevolmente il rebus.

E questo avviene proprio quando Giona si accorge che di quella soluzione avrebbe potuto anche fare a meno, che non ha avuto importanza l’approdo ma il viaggio in quanto tale, l’attraversamento di un dolore che bisognava bere e respirare perché potesse donare il beneficio della cicatrizzazione. La vertigine che risucchia verso l’abisso, fisico ed esistenziale, è spazzata via dal vento implacabile e da uno sguardo che è il riconoscimento di un identico dolore. Il ritorno alla normalità, ovviamente non quella anteriore alla tragedia, trova tutti i personaggi diversi ma finalmente di nuovo padroni dei propri eventuali sbagli e delle proprie scelte. Se nei momenti di grande crisi, quei momenti in cui le passioni tumultuose obnubilano la capacità di razionalizzare e soprattutto di attendere, ci si potesse vedere proiettati nel futuro, con il grande vantaggio del tempo ormai trascorso, stregone e guaritore, forse non si imboccherebbero le vie che portano alla sciagura. Una morale che può assomigliare ad un luogo comune ma che possiede invece la forza di una dirompente saggezza.

Frutto di una lunga gestazione, durante la quale l’autore rielabora e definisce un lungo racconto del periodo universitario, il romanzo appare frammentario e risente di una certa discontinuità di tempra narrativa. I tanti intriganti brandelli di storie parallele che si abbarbicano su quella di Giona talvolta sembrano inseriti di peso, giusto perché sono belli da raccontare. Il romanzo comunque avvince e tiene in bilico il lettore che trova infine conferma alle congetture scaturite dai tanti indizi disseminati nelle pagine.

Ne La cesura troviamo invece una scrittura matura e stilisticamente compatta. Il protagonista, Leo, è stato un promotore finanziario che ha goduto di una privilegiata condizione economica alla quale è arrivato senza particolari scrupoli, ma lo conosciamo in un presente in cui è pesantemente minacciato da una crisi incalzante. Tornato, dopo una lunga assenza nei luoghi del passato, riprende i contatti con le persone dell’infanzia, con quelle che credeva dimenticate e con quelle di cui ha conservato ricordi vivi e preziosi. Una strana lettera lo coinvolge, suo malgrado, in un fastidioso intoppo burocratico che comporta la necessaria risoluzione di un mistero sepolto nella memoria compromessa della madre. Il padre, Ernesto Cacciavento, e un altrettanto sconosciuto individuo che porta il nome di Andrea Balla, sono morti insieme trent’anni prima folgorati da un fulmine (almeno così pare) e insieme sono stati sepolti. Chi è Andrea Balla e perché gli è stato concesso il riposo eterno accanto al padre? La modalità della loro morte ha il vago sentore di una punizione divina o di una irriverente beffa del destino. Pian piano Leo è indotto ad un’imprevista esplorazione di sé, alla scoperta di aspetti caratteriali sconosciuti o messi a tacere e di una vulnerabilità affettiva che credeva di non possedere o comunque di poter dominare.

La riappropriazione delle proprie origini e delle proprie radici genetiche porta sempre uno scombussolamento interiore ed è la strada maestra per una revisione che non può esimersi dal divenire messa in discussione delle certezze acquisite. Lo specchio impietoso sul quale si sporge a guardare sembra capovolgere l’immagine riflessa rendendola ambigua e non troppo rassicurante. Così, se da una parte ferisce chi da sempre lo ha amato ed aspettato o chi ripone fiducia nelle sue parole e nelle sue azioni, dall’altro subisce il fascino magnetico di una donna che forse potrebbe aprirgli le porte al sentimento vero. Come nel precedente romanzo è lo spostamento fisico ad innescare il processo di revisione della propria vita, il distacco da condizioni stagnanti che compromettono l’istinto di autoconservazione. Dev’esserci un motivo se avviene qualcosa e in questa ricerca di senso devono essere indirizzati i passi verso un nuovo inizio. Risultano perfettamente tratteggiati e persino necessari gli altri personaggi: Ignazio, il gigante buono consumato dal dolore per la mancata paternità, la grigia Costanza, spenta e avvilita da un sentimento amoroso destinato alla frustrazione, Roland, il tassista dalle magiche intuizioni, Alma, la madre dalla memoria cancellata da un incidente stradale, Arezu, la persiana dalla pelle color sabbia, il grasso e azzimato Covacich preoccupato a difendere l’efficienza del suo lavoro cimiteriale. Se è vero che si può vivere senza essere felici, è altrettanto vero che non bisogna lasciarsi sfuggire la possibilità di esserlo senza compiere neanche un tentativo in quella direzione.

Tutto torna in questo romanzo ben congegnato, scritto con grande cura lessicale e con uno sguardo garbato e assorto.

In entrambi i testi Andrea Dei Castaldi manifesta un’attenzione costante e quasi ossessiva per gli ambienti e i paesaggi. I personaggi che vi agiscono ne sono fortemente segnati sul piano emotivo, ne colgono echi e vibrazioni e non potrebbe essere diversamente per un autore che vive in un borgo trevigiano amandone ogni piega e anfratto. Pare di sentire il rumore dei passi sulla terra compatta, il fruscio delle foglie, i gridi dei gabbiani, le folate di vento, l’urlo rauco della tempesta e di vedere le chiome logore degli alberi e il colore opaco del cielo. La Bretagna e Trieste si impongono come luoghi lontani dai romanticismi da cartolina e si offrono inquiete, misteriose e vibranti.

Con curiosità e impazienza si aspetta l’appuntamento con il prossimo libro che non dovrebbe essere lontano.

Autore: Agata Motta

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