L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/11/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

“Appunti per un naufragio”di Davide Enia

Saggistica breve

 

LE STORIE CHE TI VENGONO INCONTRO

Davide Enia a “Una marina di libri”

*

Sì, è vero, Davide Enia nel suo ultimo romanzo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio e giunto in libreria lo scorso maggio, ci propone ancora storie di migranti e di sbarchi dopo la sbornia di spettacoli teatrali, seminari, romanzi e documentari sul tema. Sì, è vero, più si parla di qualcosa più l’argomento diventa trito e familiare e si corre il rischio di assuefazione. Sì, è vero, per dar forma e luce e concretezza a certi eventi mancano le parole: esse sguisciano via perché inadatte, talvolta vergognose oppure stanche e usurate. E allora bisogna lavorare di fino per far sì che certe immagini tradotte da parole apparentemente insufficienti rimangano impresse nelle mente come fotogrammi, come moniti, come promesse. E bisogna avere talento perché questo accada, quel talento che, senza mai tradire le aspettative, possiede Davide Enia, al quale niente è impossibile perché lui i miracoli con le parole è  sempre stato capace di compierli.

Questo romanzo, umilmente e giustamente definito “appunti”, non mira ad aggiungere informazioni a un quadro già abbastanza ampio e ricco o a fornire ulteriori dettagli che déstino compassione; l’ambizione sottesa è più alta, è la necessità di fornire e affinare strumenti utili ad affrontare la Storia, questa che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che da decenni ormai non è più soltanto cronaca ma ha cominciato a farsi memoria. La compassione e la pietas sono naturalmente presenti, ma come attitudine, come prerequisito ineludibile in qualunque essere umano. Quella dell’autore, che ha di recente presentato il suo  romanzo a Una marina di libri, l’attesissimo appuntamento palermitano con la piccola e media editoria, non è la saggia acquisizione dello storico o l’urgenza del giornalista – sebbene a tratti si possano attribuire al suo lavoro caratteristiche di entrambe le categorie – la sua è un’esigenza tutta interiore, quasi intima, perché tra le storie dei migranti emerge prepotente e bellissima la propria storia personale, quella del quarantenne Davide che si confronta con i propri affetti reali, con il non detto e con i silenzi che sempre costellano le relazioni familiari, specie quelle più intense e vere.

Così abbiamo da una parte lo sguardo attonito sui salvataggi, con il loro carico di sgomento, fatica, rabbia, sudore, svenimenti, cadaveri galleggianti alla ricerca di un camposanto, gravidanze che sono per lo più il frutto di stupri sistematici e continuativi, dall’altra l’opera indefessa della Guardia Costiera con i recuperi mirabolanti e misericordiosi, l’azione dei volontari che porgono aiuto materiale, frasi di accoglienza, calore umano, e degli stessi isolani che offrono cibo e vestiario, che prendono atto della trasformazione del loro luogo d’appartenenza, prima solo eden turistico e adesso lembo estremo d’Italia con i riflettori puntati addosso a partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013, spartiacque tra un prima (comunque presente e drammatico) e un dopo trasformato in occasione di commemorazione.

Ma tra le pagine, indissolubilmente intrecciate a costituire un unico blocco narrativo, emergono il padre, cardiologo in pensione con l’hobby nascente della fotografia attraverso il quale continuare a posare uno sguardo diagnostico su oggetti e persone; lo zio Beppe, medico anche lui e pertanto terribilmente consapevole dell’avanzata di un linfoma che ne divora le carni ma non la voglia di lottare e Silvia, la paziente compagna che sa sorridere e porgere una carezza mentre solleva gli occhi da una poesia di Rilke, saldo approdo per l’autore che, grato, le dedica il romanzo. E poi, preziosi e levigati dagli anni trascorsi, svettano i ricordi d’infanzia, quelli più limpidi e puri: un padre che insegna a nuotare al proprio fiducioso bambino reprimendo l’impulso di sottrarlo alle bracciate frenetiche e alle sorsate di acqua salata; una zio che scivola tra i sassi dopo aver raccomandato ai piccoli di fare attenzione sul sentiero impervio o che impartisce perle di saggezza come quella relativa al “momento del polpo”, scaturita durante una mitica battuta di caccia alll’animale. Lo zio Beppe spiega al bambino deluso per non essere riuscito ad acchiappare il polpo a lui vicinissimo che “una storia, se vuole, ti viene incontro, e non c’è bisogno di trafiggerla o di scagliarcisi contro”.

Nulla di più illuminante per il bambino inconsapevole Davide che sarebbe diventato scrittore. E gli spiega anche, durante un’epica partita di calcio in cui i piedi goffi e impreparati dello zio castigano quelli generalmente portentosi del nipote, che si può perdere ma non per questo risultare meno uomini.

Chiunque abbia seguito e amato il percorso fertile e trasversale di Davide Enia, fatto di teatro, programmi radio, romanzi, non può non notare un’incrinatura, una ferita aperta, una sofferenza che, se trattenuta, avrebbe potuto implodere e devastare. Si era già notata la stessa crepa in Così in terra, ma qui appare più profonda, perché la realtà  guardata e raccontata rivendica una porzione maggiore di dolore, un pedaggio altissimo da pagare: lo scavo interiore nella propria vita in un momento critico incontra il recupero corale di tante altre storie che cominciano a scorrergli accanto, la commozione e la pietà per i propri morti si sostanziano della commozione e della pietà per altri morti che appartengono a tutti proprio perché non possono essere più restituiti a nessuno.

Così l’arte lo prende ancora per mano e gli indica saggiamente la strada, gli suggerisce di affidare, naufrago anch’egli tra i tanti, la propria frustrazione da testimone impotente alla potenza catartica della scrittura. E come sempre, la scintilla che scocca tra chi scrive e chi legge si accende e brucia e diventa fuoco: gli amici Paola e Melo, proprietari di un b&b e impegnati in prima persona nell’accoglienza, diventano i nostri amici, il tragico dilemma dell’enorme sommozzatore diventa il nostro dilemma, lo strazio del samurai, Comandante della Guardia Costiera che protegge col silenzio la propria famiglia, è lo stesso di quanti, dopo aver visto, non possono più dimenticare o imprimere una direzione “normale” alla propria vita. La sofferenza da stress post-traumatico non dà tregua, l’aver visto non consente la dolcezza dell’oblio. “Se hai davanti tre persone che stanno per annegare e cinque metri più avanti una madre giovanissima con un bambino in braccio, che fai? Verso chi ti dirigi? Puoi solo calcolare, è una questione matematica: tre vite sono più di due”. Questa la scelta lancinante del sub, anzi le scelte, perché situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno. E nessuno vorrebbe trovarsi nei suoi panni.

E allora eccoci al punto iniziale. Si possono leggere statistiche e dossier, si possono vedere quintali di documentari, ma esserci è cosa diversa, esserci comporta l’obbligo di dare un senso nuovo alla propria esistenza, esserci significa semplicemente scegliere tra due reatà confinanti: la vita o la morte. Ogni questione o ogni polemica sui numeri biblici di questi esodi, sulla difficoltà di accogliere dignitosamente chi fugge, sulla possibilità reale di un’integrazione lavorativa si riducono a questo, la scelta tra concedere la vita – e quindi salvare, accogliere, accettare – o girare le spalle ad una morte che riguarda loro, gli altri, quelli dei barconi. “In un universo in cui tutto è sempre stato in movimento, dalle zolle continentali ai pianeti, si possono fermare gli essere umani?” chiede Enia al suo numeroso e attentissimo pubblico, e continua con il mito di Europa, la ragazza fenicia fuggita sul dorso di un toro bianco, un mito che è la nostra origine. “Siamo figli di una traversata in barca” conclude.

Ci sono amarezza, stupore e rabbia in questo romanzo di Enia, tante da spegnergli sul nascere la sorniona ironia che gli avevamo conosciuto negli anni in cui da ragazzo-prodigio sbancava ai botteghini, ma c’è anche la bellezza degli affetti sussurati e riconquistati, del pianto trattenuto a stento, di “parole che aprono spiragli sull’abisso”, di un obbligo morale che si spera possa scuotere l’abitudine al dolore che ormai accomuna buoni e cattivi, indignati e indifferenti.

E allora ci piace scegliere tra le proposte etimologiche suggerite dallo stesso autore per Lampedusa – l’isola che poggia sulla piattaforma africana ma che è Sicilia sotto il profilo amministrativo e culturale – e illuderci che il significato non sia lepas, lo scoglio eroso dalla furia degli elementi che scortica, quanto piuttosto lampas, la fiaccola che risplende nel buio, la luce che sconfigge lo scuro. Lo scuro delle partenze, dei distacchi, degli abbandoni, della morte.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/07/01/agata-motta-saggistica-breve-le-storie-che-ti-vengono-incontro-qappunti-per-un-naufragioq-di-d-enia-5/

Davide Enia e il progetto “Odissea”

VIAGGIO ALA RICERCA DI UN TEMPO DA RITROVARE

di Agata Motta

L’Odissea raccontata da Enia al Biondo di Palermo

Davide Enia e il progetto “Odissea” di Sergio Maifredi alla Sala Strehler del Biondo di Palermo

La parola manipolata ad arte per raggiungere un fine, la parola come conoscenza e come inganno, la parola veritiera e quella adulatoria, le parole per un racconto, anzi, per il racconto per eccellenza con il suo corredo di seduzioni narrative. Si tratta praticamente di un invito a nozze per Davide Enia che dell’uso delle parole ha fatto il suo mestiere e che, dunque, indossa Odissea. Un racconto mediterraneo – il progetto di Sergio Maifredi che realizza una narrazione a più voci del poema omerico – come il più comodo dei vestiti, come le ampie camicie che indossa sotto i riflettori.

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Intervista a Davide Enia

Di scena al Teatro Biondo di Palermo con un progetto itinerante di Sergio Maifredi

Risultati immagini per davide enia

di Agata Motta

Non è necessario sgombrare la mente dai pensieri per predisporsi all’ascolto quando si va al teatro per assistere ad uno spettacolo di Davide Enia. La sua capacità affabulatoria è un talento naturale, le sue parole calamitano l’attenzione di qualsiasi pubblico, anche quello più distratto e riottoso, i suoi gesti e il suo sguardo creano un campo magnetico che si propaga senza incontrare alcun ostacolo e il miracolo si manifesta, immancabilmente, ad ogni replica. Dal 20 gennaio Enia approderà allo Stabile palermitano con il suo Odissea. Un racconto mediterraneo. La discesa agli inferi di Odisseo Canto XI, progetto itinerante, ideato e curato da Sergio Maifredi, che affida il poema omerico alla narrazione orale di attori, scrittori e artisti di diversa esperienza. » Read more