“Tomàs Nevinson” di Javier Marìas

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I crocevia morali di un agente segreto. “Tomás Nevinson” di Javier Marías, Ed. Einaudi

@ Agata Motta, 21-07-2022

E adesso tocca a lui, all’ineffabile agente segreto dalla vita blindata, all’uomo dalle mille identità, al personaggio già conosciuto in Berta Isla al quale il lettore si era legato a doppio filo in una sorta di spiazzante rapporto di attrazione/repulsione.
Con Tomàs Nevinson Javier Marías si conferma narratore raffinatissimo e colto, conoscitore profondo dell’animo umano, conduttore spericolato nei meandri della filosofia morale, maestro indiscusso di tecniche narrative sofisticate e coinvolgenti. La copertina del poderoso volume, edito come il precedente da Einaudi, sorprende l’uomo, del quale possiamo finalmente ipotizzare il viso, in un momento di stanca riflessione, sigaretta alla mano e un filo di fumo che lo avvolge, quasi un pendant visivo della copertina di Berta Isla. Anche il secco titolo, costituito da un nome e un cognome, crea un’ulteriore risonanza nei due volumi che, come lo stesso autore afferma nei ringraziamenti finali, creano una coppia.
Tomàs e Berta sono stati infatti una coppia, prima fidanzati ligi al conformismo della loro epoca, poi coniugi divisi dall’ingombrante lavoro di lui che lo porta a vivere molte altre vite sotto copertura non condivisibili con la compagna di una soltanto di quelle molteplici esistenze.
Se è evidente che Tomàs Nevinson costituisce una continuazione, in termini cronologici, di Berta Isla, è anche vero che i due romanzi godono di vita propria e di una pienezza e compiutezza narrativa che non comporta la necessità di leggerli entrambi, sebbene non farlo sarebbe quasi delittuoso.
Nel primo romanzo Marías ha mostrato la metà oscura di quel rapporto colto dallo sguardo femminile, l’attesa come fulcro esistenziale, l’ovvia curiosità e la necessaria rinuncia alla conoscenza come cifre incandescenti di anni che si snodano avvolti da un manto di cieca e fiduciosa comprensione reciproca, di separazioni che non possono non incidere sui sentimenti e sui percorsi individuali.
Adesso è invece Tomàs che finalmente si svela al lettore, non sarà comunque possibile rivelarsi alla moglie che, con una manovra perfettamente simmetrica al primo romanzo, resterà parzialmente in ombra. La donna lo ha creduto morto per molti anni – questo le era stato riferito dall’ineffabile Bertram Tupra, machiavellico burattinaio dei servizi segreti britannici – ma ritrovarsi sulla soglia di casa, dopo dieci anni, quell’uomo molto amato e mai conosciuto veramente non riuscirà a sconvolgere l’impostazione di una vita in cui da sola ha dovuto andare avanti come donna e come madre.
Berta resterà presente tra le pagine del romanzo come monito amaro per Tomàs, come paradigma di una normalità impossibile e probabilmente mai davvero desiderata. Spetta al lettore, e solo a lui, il privilegio di un varco prospettico dal quale osservare il travaglio interiore di un uomo che si era immaginato monolitico e senza incrinature, le sue battaglie etiche, le sconfitte, gli incidenti di percorso, le parziali vittorie, perché dev’essere subito chiaro che in quel tipo di attività vincere significa guadagnarsi la fiducia o addirittura l’amore di qualcuno per consegnarlo alla discutibile giustizia dei servizi segreti o alla morte.
Ed è proprio questo il nocciolo duro del romanzo, quello che a tratti – specie nella parte iniziale – gli conferisce un sapore saggistico, quello che ne fa una spettacolare riflessione sull’opportunità o addirittura sulla necessità del male per impedire che avvenga altro male.
Bisogna quindi partire dai lunghi aneddoti, un vero e proprio smisurato prologo che, attingendo alla finzione filmica e alla realtà, detta il tema di tutta la narrazione. Uccidere Hitler prima che arrivasse alla follia dell’olocausto sarebbe stata un’azione meritoria di portata universale o sempre e comunque un ignobile delitto?

Il dilemma parte da un vecchio film di Fritz Lang, girato nel 1941 quando ancora gli Stati Uniti non erano entrati nel conflitto. In esso un oscuro cacciatore interpretato da George Sanders si accosta con un fucile di precisione al luogo più sorvegliato della Germania, la villa a Berchtesgaden in cui Hitler si ritirava spesso. L’uomo lo inquadra nel mirino, spara consapevolmente un colpo a vuoto, poi lo inquadra di nuovo e potrebbe stavolta con il suo sparo raggiungere il suo obiettivo. Ma tutto questo non avviene e la Storia prende la strada della catastrofe. Stessa cosa, ma stavolta scendiamo sul piano della realtà, capita allo scrittore Friedrich Reck-Malleczewen che, nel suo Diario di un disperato, racconta come, pur avendo avuto l’occasione e la tentazione di eliminare Hitler con facilità, non lo aveva fatto, sostanzialmente perché lo aveva percepito come “un personaggio da vignetta comica”. Certo non poteva ancora sapere che lui stesso sarebbe morto in un campo di concentramento. Se gli sviluppi futuri fossero stati chiari e lampanti con congruo anticipo, anche uccidere avrebbe avuto un altro peso, un’altra morale, un altro provvidenziale spessore. È l’irreversibilità della morte a creare profonde lacerazioni interiori, l’impossibilità di tornare indietro, di rimettere tutto a posto, di cancellare persino le tracce di ciò che è avvenuto con un momentaneo atto di volontà.
Ecco, il romanzo consiste proprio in questo. Coinvolto dallo stesso Tupra, che lo aveva ingaggiato con l’inganno e che con un altro sottile inganno psicologico lo recluta nuovamente, Tomás è incaricato di scoprire quale tra le tre donne segnalate dai servizi segreti è Magdalena Orùe O’Dea, cinica e spregiudicata terrorista dell’Eta legata anche al terrorismo irlandese, inattiva da diverso tempo ma probabilmente intenta alla preparazione di altre terribili stragi.
Il primo tragico dilemma, per un uomo che ha ricevuto un’educazione all’antica per la quale le donne non si toccano nemmeno con un fiore, è legato proprio all’ordine di uccidere una donna; il secondo all’uccisione di un essere umano del quale si sospettano future azioni illecite senza averne la certezza, di una persona che, pur essendosi macchiata di atroci nefandezze, potrebbe aver scelto la strada della redenzione.
Calatosi nel panni del professore Miguel Centurión, Tomás deve entrare in confidenza con loro. Tutte vivono nella tranquilla e quasi narcotica cittadina di Ruàn, nome fittizio di un luogo del Nordovest della Spagna, e lui deve seguirne le mosse, carpire il segreto di un passato oscuro e sporco di sangue innocente e naturalmente ucciderne una, dopo averla identificata.
La vicenda procede con estenuante, avvolgente e grandiosa lentezza, ancora una volta l’attesa come vera protagonista, sia essa di un cedimento di una delle tre donne che possa portare allo smascheramento sia essa una rinuncia che possa condurre al fallimento della missione. Le ore, i giorni, i mesi sono avvolti dal crescente, colloso disagio del protagonista che, come gli verrà rimproverato da Tupra, sembra aver perso il suo intuito. Tomás annaspa nell’indagine, occupa il letto di una di loro, impartisce lezioni di inglese ai figli di un’altra, divide spazi lavorativi con la terza, collega nella stessa scuola in cui i servizi segreti lo hanno piazzato con quell’identità nuova di zecca.

Javier Marías

Tra un’occupazione e l’altra, Berta si infila nei suoi pensieri, richiamo irresistibile, e non mancheranno brevi pause in cui incontrarla e in cui fingere – la finzione regna sovrana in ogni anfratto di questo prodigioso romanzo – di essere una coppia normale che pianifica gli incontri con i figli, che cena scambiando quattro chiacchiere. Come sempre solo lei, Berta, ha capito, ha colto la sua sofferenza e il suo strazio, ma mantiene il consueto ruolo di muta testimone, di sostanziale estranea al viluppo venefico delle attività dell’antico coniuge.
Sotto il profilo stilistico, al di là del sapiente uso delle strutture sintattiche e del lessico, la vera novità è costituita dalle pagine vorticose e affascinanti in cui Marías realizza un repentino passaggio di focalizzazione da Tomás a Miguel e viceversa, passaggio fluido, accattivante, spiazzante, spontaneo. Sembra quasi che il protagonista si osservi dall’esterno, constati la distanza che lo separa dal nuovo Io, ma vi si cali dentro adottandone parole e punto di vista. Essere due vite contemporaneamente, essere due sguardi, due corpi, due personalità fino a scoprirne infine la sostanziale coincidenza attraverso uno strappo brusco, uno strattone della coscienza non del tutto sopita. E come se non bastasse anche la voce narrante passa dalla prima alla terza persona, a seconda del punto di osservazione, la vicenda da intima e personale si apre all’oggettività fino a spalancarsi sull’universalità delle questioni etiche, sui princìpi essenziali, sulle scelte incontrovertibili, sulle brucianti responsabilità, sui possibili orizzonti.
Sono tanti i personaggi che incrociano il cammino di Tomás verso la verità più probabile e tutti risultano vivi e verosimili, dal politico volgarotto e ruffiano al giornalista ammanicato e ghiotto di piccoli scandali, dal maneggione e abile costruttore allo spacciatore pavido che rifornisce di coca i notabili del paese, ci vuol poco a ritagliarsi un’aura di importanza in un luogo tanto asfittico e ordinario. E naturalmente loro, le tre donne dal passato impenetrabile e dalle personalità diversissime, materia viva dentro cui scavare. Una soltanto è stata una spietata terrorista, ma quale? “La scienza, con tutti i suoi progressi e le sue scoperte, non ha ancora trovato un metodo infallibile per capire quando una persona è sincera e quando mente […] perché il pensiero è ondivago, contraddittorio, sfuggente, e non si stabilizza mai né sta fermo, come le raffiche di un vento vorticoso”.
Della meravigliosa instabilità del pensiero Marías possiede le chiavi e le maneggia con compiaciuta voluttà. Al lettore non resta che l’avido desiderio di tornare ai suoi testi, alle sue parole, alle sue pagine in cui echeggiano i versi del Bardo come un passaggio di testimone da un classico all’altro, perché, tra i classici contemporanei, Marías senza dubbio va collocato.

Tomás Nevinson

Javier Marías
Einaudi
pp.590
22,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2022/07/21/i-crocevia-morali-di-un-agente-segreto-tomas-nevinson-di-javier-marias-ed-einaudi/

“Fedeltà” di M. Missiroli

L’infedeltà necessaria di Marco Missiroli

di Agata Motta 16-06-2019

Si può essere consapevolmente fedeli solo dopo essere stati consapevolmente infedeli. Alla resa dei conti sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo e vedremo perché) questo il messaggio che arriva forte e chiaro dalle pagine di Fedeltà, discusso romanzo di Marco Missiroli giunto, come da previsione, alla cinquina finalista del Premio Strega 2019.

“Che parola sbagliata tradimento – pensa Carlo, uno dei protagonisti del romanzo – cosa toglieva consumarsi con un’altra ragazza, accaparrandosi una gioia momentanea e dando, possibilmente, una gioia momentanea”. La liturgia del matrimonio resterebbe intatta, su un binario parallelo destinato dunque a non incrociarsi e a non sovrapporsi con l’altro. Che sia illusione consolatoria che mette al riparo dai sensi di colpa o realtà poco importa.

L’autore torna ad esplorare, con modalità diverse e con una scrittura più meditata, costruita, furba e sofisticata rispetto al precedente Atti osceni in luogo privato, il concetto di libertà attraverso il corpo, le sue esperienze e i suoi appetiti. Missiroli passa dal romanzo di formazione su lungo periodo ad un’analisi puntuale di due fasi della vita – la distanza tra l’una e l’altra è di nove anni, un tempo ragionevole per osservare le evoluzioni dei rapporti e le conseguenze delle scelte – dei suoi personaggi: la solida coppia costituita da Carlo e Margherita e i due giovani oggetti del loro desiderio, la studentessa Sofia e il fisioterapista Andrea, intorno ai quali ruotano i membri delle rispettive famiglie, tra cui spicca Anna, madre amata da Margherita e suocera venerata da Carlo, che invece è afflitto da genitori borghesissimi e tradizionalisti dei quali, storcendo un po’ il naso, fanno comodo le raccomandazioni per posti di lavoro più remunerativi e gratificanti e la disponibilità economica necessaria per prendere parte al banchetto immobiliare della Milano che conta.

Carlo e Margherita sono raccontati nella fase del ”malinteso”(il rispettabile professore Carlo Pentecoste è stato sorpreso in bagno con una studentessa in atteggiamenti equivoci che trovano subito un’indignata giustificazione da spendere pubblicamente) e poi in quella dell’assestamento (l’acquisto della Casa con tanta luce e infiniti gradini da salire e l’arrivo di un Figlio taciturno e ipersensibile); si sono traditi, ma non si sono mai allontanati emotivamente e fisicamente. L’uno non ha saputo prendere pienamente il corpo della sua studentessa Sofia, aspirante scrittrice imprigionata nel ricordo della madre morta, ma si è buttato con soddisfazione su altri surrogati di quel desiderio incompiuto; l’altra è riuscita a farsi possedere un’unica volta da Andrea, il fisioterapista gay che consuma in segreto una carica di rabbia e di violenza veicolata sui cani da combattimento e sul ring. Lentamente Anna acquista spazio e spessore nel racconto e diviene quasi un mastice possente in grado di tenere assieme le parti scomposte di chi le si accosta con fiducia. Possiede precisi guizzi intuitivi, in ciò aiutata da una veggente che le spilla soldi in cambio di laconiche parole, e una saggezza ricavata dall’uso di ago e filo, come se cucire indumenti sia stato il modo per tenere assemblati gli scampoli sfuggenti della vita. Anna si astiene da qualsiasi intromissione, pur mantenendo altissima l’attenzione su chi ama, e attorno a lei si coagula un nucleo di affetti sinceri e disinteressati. Per lei si avverte una carica empatica – quella riservata alle simpatiche vecchine di certi film che puntano al cuore – che non suscitano invece gli altri personaggi, chiusi in ossessioni che vorrebbero essere la strada maestra per quella libertà inseguita che invece possiede un ambiguo retrogusto.

Anche Anna ha vissuto la sua trasgressione, il furto di un trancio di tonno al supermercato, e ne ha subìto il castigo e l’espiazione con una vergogna che non ha mai smesso di bruciare, tanto da riviverla nel pesciolino disegnato dal nipote sull’ingessatura della sua gamba.

La precisa topografia dei luoghi, attraversati fisicamente dai personaggi e percorsi con una tale esattezza da avvertire quasi i rumori dei passi, guida la mappa mentale del lettore tra Milano (città sulla quale aleggia la presenza/fantasma di Buzzati) e Rimini – la prima indocile e dicotomica tra periferie in cui si consumano scommesse clandestine e appartamenti costosissimi ambiti come status symbol irrinunciabile, la seconda quasi romantica, dimessa e nostalgica, lontanissima dagli stereotipi goderecci di cui nutrire il turista e vicina probabilmente ai ricordi d’infanzia dell’autore – e si fa essa stessa materia narrativa sulla quale innestare impulsi improvvisi e improvvisi ripensamenti.

L’autore si interroga – ed è forse questo l’aspetto più interessante – sulle dinamiche relazioni che comportano una maturazione, uno scarto netto tra giovinezza ed età adulta. Sì, perché spesso il processo che sembrerebbe frutto di chissà quali lente trasformazioni si rivela invece legato ad un momento, una circostanza, un gesto, un ostacolo, un bisogno, una mancanza ed in essi si insinua il tempo inquieto che scardina certezze e consuetudini, un tempo raccontato in un fluire sciolto e molto visivo.

Fedeltà possiede infatti alcuni tratti del romanzo filmico sin dalla tecnica di montaggio delle sequenze che sconfinano l’una nell’altra come dissolvenze incrociate e non stupirebbe vederne a breve una trasposizione cinematografica, operazione potenzialmente azzardata sia per la scelta del “cosa mostrare e come” sia per la difficoltà di restituire compiutamente le parentesi riflessive. Con perizia Missiroli utilizza la “ripresa” (con focalizzazione variabile) nel passaggio da un gesto o da uno sguardo ad analogo gesto o sguardo di altre mani e altri occhi, per cui l’abbraccio stanco e disilluso tra Carlo e Margherita diventa quello rapido e imbarazzato tra Andrea e la propria madre; lo sguardo alla finestra di Andrea sulla neve appena caduta diventa quello di Carlo e Margherita che vi leggono un buon auspicio per un colloquio di lavoro; le mani del padre di Sofia, “rattrappite una nell’altra quasi a racchiudere un’improvvisa contentezza”, sono le mani di Anna che in esse raccoglie una gioiosa speranza di guarigione. Così in una narrazione che incastra tra loro personaggi e sentimenti e traghetta nel tempo e nello spazio senza disorientare, l’autore registra piccoli slittamenti che fessurano un quotidiano denso di normalità ma ribollente sotto la superficie soltanto un po’ increspata da parole sempre avare e da silenzi che racchiudono dubbi da non palesare. Troppo alta la posta in gioco, troppo rischioso scoprire le proprie carte, meglio ipotizzare e magari illudersi che l’altro o l’altra non sappia o, forse, che finga di non sapere. E’ il solito vecchio gioco delle parti, ognuno la propria e così si va avanti.

L’autore ha voluto solleticare le insoddisfazioni, l’instabilità e le tentazioni che attraversano l’uomo contemporaneo riuscendoci solo in parte. La distanza tra narrazione e personaggi da una parte (per molti dei quali è stato necessario costruire un vissuto accattivante senza riuscire comunque a renderli più veri) e lettore dall’altra rimane fortissima, solo a tratti ci si immerge ma per realizzare subito dopo che si tratta di finzione e che il patto narrativo non è stato firmato da tutti i contraenti.

Lo sforzo di Anna di ingoiare e persino metabolizzare il tradimento subìto e scoperto solo dopo la morte del coniuge conserva una patina di romanticismo retrò per cui le sue emozioni più credibili sono quelle che le suggeriscono un commiato rapido al fine di non creare disturbo; il movimento fisico che più affascina di Carlo è quello che lo spinge a Rimini per compiere finalmente ciò che non era stato capace di fare nove anni prima e che lo porta invece a maturare la capacità di congedarsi da un’ossessione che si tramuta in tenero rimpianto; i gesti più autentici di Margherita sono quelli compiuti sul corpo materno immobile e umiliato dalle feci; le immagini più vere dell’evanescente Sofia sono legate al quieto respiro nella ferramenta paterna; la sofferenza più acuta di Andrea si sostanzia nella scia di sangue e di violenza che attraversa le sue serate; insomma tutti quei momenti, talvolta persino marginali, che dischiudono nuove capacità di amare o di imporre l’amore nei confronti della propria imperfezione sono quelli che si apprezzano maggiormente. La coppia protagonista, impantanata nella ricerca di spazi di libertà e di autenticità, risulta irrimediabilmente sbiadita – soprattutto lei, Margherita, pratica, efficiente, falsamente magnanima, disinibita quel tanto che basta per dimostrare a se stessa di esserne capace – e avrà poche probabilità di ancorarsi nei ricordi del lettore.

Il tradimento non appare, sotto il profilo esistenziale e narrativo, seduttivo e/o risolutivo, ma di certo questo non era neanche nelle intenzioni dell’autore, che lo pone nei termini della necessità finalizzata. La fedeltà del titolo, dunque, non è quella verso il partner. Lo sconfinamento in altri corpi, l’esplorazione dei propri confini fisici, il cedimento alle pulsioni improvvise e irrazionali sono necessari per la piena comprensione di se stessi, sono atti dovuti per non tradire la propria essenza, sono occasioni per ritrovarsi, per concretizzare “l’altra felicità” senza ipotecare quella vicina e a portata di mano, quella assodata da proteggere e coltivare con devozione senza che possa risultarne offesa o semplicemente diminuita.

La fedeltà insomma è quella verso la propria natura e magari – vorremmo aggiungere – anche verso le parti più nobili di essa. Teoria che mette al riparo dal rischio di banalizzare un romanzo che ha diversi livelli di lettura e che, anche per questo, non possiede il respiro universale dei grandi romanzi.

Marco Missiroli

Fedeltà

Einaudi

p.224, € 19

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/06/19/linfedelta-necessaria-di-marco-missiroli/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2019/06/linfedelta-necessaria-di-marco-missiroli/

“Berta Isla” di Javier Marìas

 

Vite che si sciolgono nell’oscurità. ‘Berta Isla’ di Javier Marìas, editore Einaudi

 

Berta Isla è un nome di donna, una parentesi aperta e mai più richiusa, una speranza di normalità inseguita con ostinazione.

Berta Isla possiamo immaginarla con le fattezze della bella donna ritratta in copertina. Fuma appoggiata ad una ringhiera e il fumo le nasconde parte del volto. L’immagine svela subito gli elementi fondanti della narrazione – sebbene il lettore non sia ancora in grado di coglierli e decifrarli – e li racchiude in quello sguardo assorto, nella miriade di punti interrogativi che hanno riempito i giorni di una vita sospesa tra l’ansia di sapere e il bisogno di ignorare ciò che potrebbe sconvolgere certezze caparbiamente edificate. E’ solo un richiamo seduttivo che ancora non oltrepassa quello puramente estetico, mentre alla fine si tornerà a fissare quello sguardo con complice amarezza.

Con Berta Isla, ponderoso e bellissimo romanzo pubblicato da Einaudi, lo spagnolo Javier Marìas, che già in Italia era stato apprezzato per il pregevole ma non esaltante Domani nella battaglia pensa a me, raggiunge livelli di scavo psicologico, al maschile e al femminile con identica intensità (cosa non facile o almeno non a tali altezze), che inchiodano il lettore alle pagine con il desiderio rabbioso di rivelare ai due protagonisti, Berta e Tom, ciò che uno non sa dell’altro e viceversa.

Berta e Tom si sono innamorati quasi bambini, in quello sbocciare dell’adolescenza che rende l’amore assoluto e immortale, privo di incrinature, ottuso e irragionevole. Si promettono l’un l’altra senza riserve, in una Spagna su cui incombono le milizie franchiste ma nella quale si accendono le prime fiamme della ribellione, nel mitico 1969 in cui le mode che percorrevano i giovani e l’Europa erano sostanzialmente riconducibili alla politica e al sesso. Studiano in luoghi diversi, Madrid lei e Oxford lui, coltivano grandi ambizioni e possiedono una visione precisa del loro futuro insieme che la lontananza non può intaccare, nemmeno quando concedono le loro rispettive verginità a compagni occasionali. Si amano certo, ma si rispettano sessualmente, come è giusto che sia in una giovane coppia di fidanzati della buona borghesia. Ancora non sanno che la distanza sarebbe stata “la cifra di gran parte della loro vita insieme…insieme ma dandosi le spalle”.

Tom ha una spettacolare capacità di assimilare le lingue straniere e di riprodurre accenti e cadenze dialettali, una dote istrionica che, oltre a provocare il divertimento collettivo degli amici, susciterà l’interesse dei suoi docenti e dei servizi segreti della Corona inglese. Un giovane così non può essere sprecato all’interno dell’ambasciata, un giovane così deve essere reclutato nonostante il suo rifiuto, anche a costo della più abietta menzogna e del più sporco inganno.

Javier Marías

Ci sono vite che sembrano destinate al silenzio e quella di un agente segreto, in modo particolare, deve restare oscura a chiunque, anche alla moglie e ai figli. Il grande segno che questi  “eletti” devono lasciare nella storia dell’umanità, dietro le quinte di guerre – suscitate, deviate, impedite – o di fondamentali acquisizioni di segreti di stato, deve riempirli di un orgoglio che non potrà mai valicare i confini del proprio Io, che non potrà mai essere raccontato e condiviso. I reclutatori sanno quali corde toccare per gonfiare e saturare l’autostima sino a renderla presunzione, come trasformare l’abiezione in eroismo di cui godere in solitudine in una sorta di onanistico titanismo. Solo autori talentuosi sono in grado di affidare magistralmente la voce narrante ad entrambi i personaggi e di intervenire direttamente come narratore esterno quando il racconto deve superare la soggettività delle focalizzazioni interne. Solo grandi maestri della scrittura sanno scavare dentro gli esseri umani e i loro misteri, mantenendo in ombra ciò che non può essere detto e immergendosi in quell’oscurità per rivelare come essa possa vestire i panni del quotidiano, come possa essere plausibile muoversi nel buio con la disinvoltura dei ciechi, che della luce possono fare a meno perché l’oscurità è la loro condizione naturale e non sanno nemmeno immaginarne una diversa.

La moltiplicazione della propria identità diverrà lo status naturale di Tom, l’attesa e la rinuncia ad una parte cospicua della vita del marito sarà quello di Berta.

Ma come può una donna continuare ad amare incondizionatamente un uomo che vive ingannando  persone delle quali estorce la fiducia se non addirittura l’amore, che probabilmente ha ucciso a sangue freddo prima di indossare i panni del marito e del padre affettuoso, che resta lontano per mesi senza fornire notizie impegnato in azioni prive di qualsiasi remora morale? E come può Tom agire con fede e convinzione pur sapendo di non aver potuto scegliere la propria strada, di essere stato costretto ad entrare nell’ingranaggio, di essere stato derubato del futuro che aveva con pazienza e amore cominciato a costruire?

Sono interrogativi che pesano come macigni e infine, per questo novello Mattia Pascal non toccato dalla grazia dell’umorismo, la moglie può ipotizzare (perché le parole tra loro sono sempre state merce rara o oggetto di dissipazione) una consapevolezza  tragica, quella di appartenere “a quel tipo di persone che non sono protagoniste neppure della propria storia… che scoprono che la loro storia non meriterà di essere narrata”.

“E’ il destino delle vite, come la mia e come la sua – conclude Berta – che, come tante altre, stanno solo in attesa”.

Ed ecco che l’immagine di copertina balza adesso agli occhi del cuore: Berta aspetta, la nuvola di fumo avvolge la sua interminabile attesa di donna che intuisce e che preferisce in fondo non sapere, dentro il fumo le vite evanescenti e sulfuree dell’uomo amato, inconsistenti eppure tossiche. Ci siamo ma non ci siamo, agiamo ma è come se non avessimo agito. La filosofia incomprensibile dei servizi segreti ha preso il sopravvento anche nei residui di esistenza reale, molto denaro in cambio della dedizione alla causa e del silenzio. Non ci saranno racconti rocamboleschi da imbandire allo sguardo sorpreso dei figli, né ringraziamenti per il probabile sangue versato, né compensi per chi ha incrociato una strada senza sbocco restandone vittima.

Restano insieme Tom e Berta, sgomenti e impotenti, oltre la morte vera o presunta (meglio non rivelare all’ipotetico lettore), un uomo e una donna vicendevolmente aggrappati senza essersi mai del tutto conosciuti.

Una scrittura corposa e vertiginosamente ipotattica per uno stile intrigante che non lascia niente al caso: un gran bel libro.

Autore: Agata Motta

https://www.scriptandbooks.it/2019/01/02/vite-che-si-sciolgono-nelloscurita-berta-isla-di-javier-marias-editore-einaudi/