“Il sentimento del mare” di Evelina Santangelo

Il sentimento del mare di Evelina Santangelo

@Agata Motta, 26 agosto 2024

Essere sopravvissuti, o almeno percepirsi come tali, determina mutazioni incontrollabili, spesso repentine e radicali. Si comprende come ciò che si è vissuto sia destinato a incancrenirsi senza possibilità di guarigione, ma si può anche scoprire il fascino dell’incerto futuro, scrutato con apprensione come se fosse pronto a volatilizzarsi con un semplice gesto della mano. Si può accettare lo scorcio di una diversa angolazione attraverso cui guardare al passato e lasciarsi sorprendere dalla constatazione di quanto il patrimonio condiviso con gli altri sia stato prezioso e determinante per la propria crescita e di come i solchi profondi e non più colmabili possano essere aggirati con semplici deviazioni.
Evelina Santangelo nel suo ultimo libro – definirlo romanzo forse sarebbe fuorviante – Il sentimento del mare, edito da Einaudi, segue il filo conduttore della propria sopravvivenza, legata a devastanti condizioni fisiche ed emotive, e si lascia sedurre dalle tante storie raccolte da amici o da occasionali interlocutori che hanno per oggetto il mare con i suoi richiami irresistibili, con i suoi pericoli sempre in agguato, con la sua spossante dolcezza, con i suoi abissi assassini e la sua mitologia e vi intreccia i propri ricordi e una sete di sapere finalmente riaccesa dopo una lunga e penosa apatia. L’autrice vuole spingersi verso l’ignoto e contemporaneamente riacciuffare i nodi irrisolti del passato, come il mistero sulla fine di un giovane cugino sommozzatore del quale ad ogni costo vuole scoprire “il modo in cui si è visto morire”.
Come una curiosa giornalista porge domande, sonda terreni inesplorati, porta a galla pezzi di storie che meritano di essere conosciute. Ne scaturiscono pagine che contengono una gran mole di informazioni sulle mattanze dei tonni, sulle donne pescatrici e contadine dell’isola di Lipari (argomento che torna nelle più recenti pubblicazioni – Francesca Maccani le racconta in Agata del vento – come a fare ammenda di un lungo oblìo), sul cimitero degli sconosciuti di Zarzis, sui diciotto pescatori mazaresi sequestrati dalla Guardia costiera libica, su bizzarri personaggi che hanno affrontato con granitica determinazioni imprese per altri incomprensibili, come il giro del mondo in barca a vela senza scali o la ricostruzione dello scheletro di un giovane capodoglio straziato dall’uomo e dalla natura.
Dati, osservazioni, curiosità e commenti accompagnati da un piccolo concerto di riferimenti letterari e cinematografici – La Perla di Steinbeck, Moby Dick di Melville, Manoscritto ritrovato in una bottiglia di Poe, Le onde del destino di Lars von Trier, The perfect Storm di Wolfgang Petersen, J’accuse di Abel Grance, Gran Bleu di Luc Besson, La lunga rotta di Bernard Moitessier – una colonna sonora prodotta da associazioni mentali estremamente soggettive, perché le opere d’arte parlano ad ognuno con voce diversa e risuonano in momenti e luoghi imprevedibili.
E proprio quando sembra che la narrazione stia per inaridirsi nella sovrabbondanza di dettagli tecnici e di divagazioni, giunge il calore dell’umanità di incontri con amici o con sconosciuti, scatta la molla dell’empatia e con essa il desiderio di affidare il proprio dolore a chi è disposto ad accoglierlo, sorge la commozione provata sulla costa normanna del D-day e, pian piano, si fa strada una ricognizione interiore che viene consegnata al lettore a piccoli sorsi e in chiaroscuro, perché al bisogno di urlare il proprio strazio si accompagna una sorta di pudore protettivo sui sentimenti più forti, specie quelli riguardanti il ragazzo dagli occhi azzurri che è stato l’amore di una vita e che forse continuerà ad esserlo anche nel gelo della fine.

Credits Rino Bianchi

E poi esplode l’infanzia solare, l’unico periodo della vita sgargiante di avventure, di ferite e di cadute, di sale e di sudore, trascorso con l’adorato zio pescatore, che tutto le ha insegnato come un mentore affettuoso, o con la nonna paterna, vissuta in un paese di mare senza mai riconoscere all’immensa distesa azzurra un valore diverso da quello paesaggistico. E da quell’infanzia di “immortalità e gioia pura” l’autrice lascia riaffiorare il senso di sfrenata libertà provato in campagna e al mare, realtà diversissime eppure affini nelle sensazioni suscitate. A dimostrarne il legame, un oggetto simbolo – un semplice coltello – indispensabile su entrambi gli scenari, punto di raccordo tra le due anime e le due infanzie, quella di terra e quella di mare.
In un localino seminascosto di Marina Corta, a Lipari, davanti ad un bicchiere di vino rosso, arrivano finalmente le parole, il groviglio esistenziale comincia a srotolarsi e a prendere forma. E dunque eccolo straripare il sentimento del mare, vero protagonista della narrazione, perché attraverso il mare e la sua bellezza l’autrice riscopre se stessa, dialoga con la sopravvissuta che nel mare continua a riconoscersi. Ecco tutta l’intensità delle emozioni da esso prodotte restituite in una gamma multiforme di passioni e di contraddizioni, sciolte infine nell’abbraccio di un bagno invernale che dona brividi e benessere, che accoglie come un grembo capiente, che consegna all’anima inquieta il segreto dell’abbandono.
“Adesso desideravo liquefarmi nell’acqua, essere quella purezza lì senza peccato… L’importante è non fermarsi, muoversi, nuotare”.

Evelina Santangelo
Il sentimento del mare
Einaudi editore
pp.152
17,50 €

https://www.scriptandbooks.it/2024/08/24/il-sentimento-del-mare-di-evelina-santangelo/

“Baumgartner” di Paul Auster

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Le onde lunghe del dolore. Baumgartner di Paul Auster per Einaudi Editore

@ Agata Motta, 7 aprile 2024

Il dolore, anche quello più lacerante e profondo, non uccide, mantiene chi lo ha provato in una zona di confine tra la tentazione dell’autodistruzione e la pulsione alla vita. Una vita monca, imperfetta – ma la vita lo è sempre anche nelle migliori condizioni – inaridita, piena di buche come una strada male asfaltata, costellata di piccole vertigini e continui vacillamenti, ma pur sempre una vita che continua malgrado tutto. Di questo dolore e delle sue infinite mutazioni si occupa l’ultimo romanzo di Paul Auster, Baumgartner, Einaudi editore, che torna alla perdita della persona amata, già presente in precedenti romanzi come Uomo nel buio o Il libro delle illusioni, ma vi aggiunge una consapevolezza nuova, una maggiore saggezza nutrita da un bilancio filosofico ed esistenziale condensato in poco più di 150 pagine attraversate da innumerevoli forze centrifughe che vengono con pazienza disciplinate e ricondotte al nucleo centrale.
L’autore racconta una fase particolare della vita del professore Seymour Baumgartner, filosofo e saggista giunto al decimo anno della propria desolata vedovanza, con il consueto stile rassicurante che si snoda in un’elegante e sinuosa ipotassi che talvolta precipita in frasi brevi e lapidarie. Il protagonista viene inizialmente presentato attraverso piccoli contrattempi quotidiani ‒ un pentolino bruciato e la conseguente scottatura della mano, una rovinosa caduta dalle scale, un dialogo strampalato con il logorroico letturista dell’azienda elettrica ‒ tra i quali si destreggia a fatica. Anziano, distratto e brontolone Baumgartner cerca il proprio benessere anzitutto nella casa-mondo in cui si muove, uno spazio che deve garantirgli la quiete, quasi a compensazione di ciò che gli è stato sottratto, ma l’ironia che avvolge le pagine iniziali, e che continua a affiorare nel corso della narrazione, lascerà pian piano spazio ad una profonda riflessione sul lutto e sulle sue ripercussioni emotive e soprattutto sul senso della vita che, in realtà, continua a sfuggire al protagonista tanto quanto all’autore.
Auster si affida a un narratore esterno per guardare con maggiore obiettività dentro le giornate poco sensazionali e il triste grigiore di chi si avvia a passi incerti verso una vecchiaia da reinventare o forse per prendere pacatamente le distanze dalle tempeste interiori dell’anziano professore, che si sono ormai trasformate in onde lunghe che aggrediscono la battigia come una carezza pregna di solitudine e malinconia. Ma è una scelta dalla quale scantona più volte con incursioni nel territorio del metaromanzo e con la cessione della voce alla moglie assente che parla attraverso i suoi scritti. Ancora una volta Auster sceglie un protagonista scrittore, dunque un alter ego, ed è proprio l’attività dello scrivere ad essere scandagliata e a divenire oggetto di indagine e di narrazione, come in certi romanzi di Pascal Mercier o di Graham Greene.
Il saggio sulla “sindrome dell’arto mancante” nel quale Baumgartner si immerge rende perfettamente l’idea di quanto la parte mancante del corpo, o nel suo caso la parte mancante dell’anima, possa ancora essere fonte di un dolore indescrivibile e indegno. L’uomo, che razionalmente ha ripreso quasi subito a insegnare, a scrivere, a produrre, a interessarsi all’universo femminile dopo quarant’anni di assoluta dedizione alla moglie, sa di essere tuttora pericolosamente vicino alla zona rossa della follia dentro la quale, nei mesi successivi al lutto, stava per precipitare. E si meraviglia, come sanno fare gli anziani che hanno molto visto e ascoltato, di essere in grado di emozionarsi ancora, pur comprendendo che si tratta delle fredde e precarie emozioni di chi avverte di essere intimamente morto. La porzione di vita che aveva avuto il privilegio di vivere con la persona amata si è esaurita all’improvviso per un tragico incidente in mare, il mare che lei affrontava come l’abbraccio voluttuoso di un amante, lo spazio sconfinato che coincideva con il suo naturale bisogno di libertà. Ciò che è rimasto del tempo è divenuto per l’uomo il prima e il dopo, quando lei non era ancora comparsa nel suo orizzonte e quando lei in quell’incolpevole pomeriggio è tramontata. Le tracce della presenza di Anna, quelle incancellabili, perché costituite da avvii della memoria legati a oggetti, odori, musiche, situazioni, continuano a palpitare e si trasformano in persecuzioni, in larvati sensi di colpa o in dolcissime nostalgie. E in rapidi fotogrammi appaiono gesti, sguardi, parole di quella donna sconosciuta al lettore che si svela nei modi in cui l’assente bussa alla vigile attenzione di chi resta, più nelle piccole cose che in quelle importanti, l’ordinarietà che cementa il quotidiano di una coppia in sintonia.

Che sia sogno o visione diurna non importa, Baumgartner riuscirà a parlare con lei e capirà che deve lasciarla andare, che i morti non devono essere trattenuti nel luogo dal quale si sono distaccati, che non appartengono più ai vivi, che il riverbero del loro amore non deve trasformarsi in un cono d’ombra protettivo sotto il quale crogiolarsi in attesa che il dolore cessi di far male.
Ecco, il romanzo porge momenti altissimi proprio in tutto questo scavare nel dolore presente e passato, in tutte quelle piccole riflessioni, buttate lì come un inciampo sulla pagina, che davvero restituiscono in perfetta simbiosi malessere e lucidità, ragione e sentimento, e rappresentano l’espressione perfetta e tersa di quanto poco la morte possa tradursi in assenza. I ricordi, dai più banali e apparentemente insignificanti a quelli fulgidi di momentanee felicità, sostengono l’ordito così come le piccole vibrazioni del presente. Il giovane Baumgartner era già ben conscio del valore del momento in corso, della bellezza di un sorriso baciato dal sole, di quanto un giorno lo avrebbe rivissuto con lo strazio delle cose perdute.
Elementi autobiografici compaiono nelle dettagliate ricostruzioni delle rispettive famiglie d’origine. Si comprende che portare alla luce quei reperti accarezzati dall’affetto corrisponde all’intima necessità dell’autore di un ancoraggio alle proprie radici, ma nel contesto si collocano come piccole forzature e inutili distrazioni. Anche il tentativo, non riuscito, di Baumgartner di contrarre un nuovo matrimonio con una donna dalle caratteristiche opposte a quelle che erano appartenute ad Anna risulta puramente funzionale al dispiegarsi dello stupore per la rinnovata capacità di amare dell’uomo, nonostante la vita umana non sia altro che un carosello di auto impazzite “sulle autostrade della solitudine e della morte possibile”, come recita un altro saggio sul quale il professore ha lavorato.
La prospettiva di dare luce e visibilità alla produzione poetica della moglie, rimasta sempre volutamente una questione privata non destinata al pubblico, potrebbe determinare un nuovo approccio con la memoria della perdita e con la vita, la sopravvivenza forse potrebbe trasformarsi in altro anche in tarda età, ma il condizionale è d’obbligo perché il finale resta aperto e lascia nel lettore un leggero fastidio o una larvata delusione.
Da sempre sedotto dalla logica della casualità e dal trambusto delle tragedie scagliate sulla Terra come fulmini divini, Auster tronca all’improvviso quello che probabilmente sarà il suo ultimo romanzo, non senza aver disseminato indizi di non univoca interpretazione. Possiamo leggervi vitalità e speranza o forse un tortuoso tragitto verso l’autodistruzione o forse, molto semplicemente, la malattia non ha permesso all’autore di continuare il lavoro.
Scrivere di un’assenza per confermare la propria presenza: questo l’esito più alto di questo breve, denso, potente romanzo.

Paul Auster
Baumgartner
Einaudi editore
pp.153

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“Grande meraviglia” di Viola Ardone

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La “Grande Meraviglia” di Viola Ardone per Einaudi Editore

@ Agata Motta, 27 febbraio 2024

Ѐ già al suo terzo romanzo di successo e può respirare la magica atmosfera di un consenso diffuso e quasi affettuoso. Viola Ardone, giovane e talentuosa autrice, possiede la capacità di individuare tematiche di spessore attraverso le quali raggiungere la sensibilità e l’interesse di una vasta platea di lettori, costruendo con precisione microcosmi nei quali entrare in punta di piedi e dai quali uscire in qualche modo arricchiti.

In Grande meraviglia, edito da Einaudi, pur scavando nel dolore della salute mentale, nella nebbia di relazioni familiari inceppate, nelle frustrazioni e nei successi di controverse battaglie sociali e legislative, porge momenti di leggerezza e di incanto, grazie all’ironia lieve dei due protagonisti – la piccola Elba e il dottor Meraviglia – che sono anche le voci narranti delle quattro parti del romanzo. Due prospettive diverse e due vissuti complessi che confluiscono in un comune percorso di crescita professionale e di resurrezione interiore.

La bambina nasce in manicomio e cresce con le tenere cure della sua “Mutti” (“madre” in tedesco, la lingua segreta e oscura della comunicazione più intima), capace di plasmare, dentro l’inferno, una realtà alternativa in cui dare spazio al gioco e alla fantasia, in cui far risuonare il canto quando gli altri insopportabili rumori squarciano il sottile velo della loro complicità. Elba uscirà da quel luogo per qualche anno, giusto il tempo di ottenere i primi rudimenti scolastici dalle “suore culone”, assai poco evangeliche e accoglienti, ma al suo ritorno non troverà più la madre. Le diranno che è morta, ma il suo cuore sa che si tratta di una menzogna e che la madre è stata semplicemente confinata nel luogo del non ritorno, dei malati ingestibili, delle creature dal cervello bruciato dagli elettroshock. Sceglierà dunque di restarle accanto, pur senza vederla, per proteggerne almeno il passato e tutta la “grande meraviglia” che aveva saputo creare per lei. Uscita dall’adolescenza e infranto il sogno di ricongiungersi alla madre, la cui morte reale arriva il giorno fatidico del crollo del muro di Berlino (la riunificazione dell’amata terra d’origine, la Germania, non produrrà purtroppo quella delle tante schegge impazzite della sua psiche), Elba potrebbe vivere la sua seconda possibilità, ma possiede il carattere del fiume sontuoso di cui porta il nome, il semplice fluire degli eventi non le si addice e le ferite del passato continuano a pressare e a dettare le proprie leggi.

Ad affiancare Elba, in un arco temporale che va dai primi tentativi di applicazione della legge Basaglia ai giorni nostri, troviamo il dottor Fausto Meraviglia (dal nome oltremodo simbolico) idealista e affamato di vita, che sceglie di salvare Elba e di farne la figlia “d’elezione”, dopo aver mantenuto una relazione distratta e superficiale con la famiglia – una bellissima moglie e due figli – in costante ricerca di attenzione.

L’autrice gli cede spazio e voce quando è ormai vecchio e provato. Lo scintillìo della giovinezza era già arrivato al lettore attraverso le parole di Elba e torna in ampi flashback illuminati dal diverso punto di vista dell’uomo. Ritrovarsi comodamente seduto in poltrona ad ascoltare le chiacchiere di donne borghesi in difficoltà dopo aver lottato per mettere fine alle condizioni disumane in cui versavano i malati internati nei manicomi, dopo aver tentato di donare loro la dignità, dopo averne curato le piaghe in suppurazione con la psicanalisi invece che con la contenzione e l’elettroshock, produce un senso del fallimento, lascia il sapore amaro di una rinuncia alla libertà e all’amore, elementi che in lui camminavano di pari passo. Eppure di amore lui ne aveva dispensato tanto, disinteressato, gratuito, caparbio, amore per le vittime di una società che puniva gli uomini inadeguati e sofferenti e soprattutto le donne, che da altri uomini forti e rispettabili potevano essere facilmente internate per comportamenti ritenuti immorali o comunque non inquadrabili nella ferrea logica del “socialmente accettabile”. Il dottorino dai baffi rossicci era riuscito a guardare negli occhi di quanti non erano stati capaci di indossare la maschera pirandelliana delle convenzioni, era riuscito a leggere il dolore di ciascuna di quelle larve umane a costo di scontrarsi con il sistema – incarnato dal dottor Colavolpe, dispensatore di caramelle colorate in grado di sedare ogni stravaganza e di terapie violente dalle quali spera di ottenere un effetto deterrente – e di pagarne le conseguenze. La vecchiaia lo travolge naufrago e solo, con le uniche compagnie del gatto e di un amico giornalista testimone delle sue lotte idealiste, amareggiato soprattutto per l’abbandono dell’unica creatura sulla faccia della terra che abbia amato e aiutato senza risparmio, con la determinazione di chi spera che dalla salvezza del singolo possa derivare quella del mondo intero.

La speranza però filtrerà ancora nel cuore ingrigito e cupo del bizzarro dottore dei pazzi, che in fondo un po’ di pazzia ha trattenuto con sé, tramite la riappropriazione della paternità, quella che aveva sacrificato al lavoro e alla dedizione ai pazienti. Seppur in catastrofico ritardo, il dottor Meraviglia accetterà che i figli non si scelgono e non si giudicano, vivono le proprie esperienze e non quelle che i genitori desidererebbero per loro, comprenderà di aver soltanto attraversato e non vissuto la famiglia amata in controluce.

L’autrice posa uno sguardo rivelatore anche sui figli che subiscono la personalità strabordante ed eccentrica dei genitori, sulla difficoltà di intraprendere il proprio cammino senza subire troppi danni e senza assecondare l’istinto, sempre in agguato, di voler deludere il genitore inarrivabile, forse per riceverne finalmente la cura e l’accudimento.

Felici e dense di umana partecipazione risultano nel complesso le parti dedicate al manicomio con il suo corteo di anime perse e corpi disfatti, di infermiere e personale medico, tragici custodi/carcerieri di un’umanità di scarto, mentre risulta a tratti meno ispirato il racconto della tentazione suicida del vecchio Meraviglia, rimasto solo con i suoi nodi irrisolti e i suoi fantasmi.

La lingua scelta per dar voce ad Elba, zeppa di rime, ripetizioni, metafore è indubbiamente la nota più originale di questo romanzo che sa scendere negli abissi della follia con lo sguardo straniato e puro della protagonista che osserva e descrive l’unico mondo conosciuto e accessibile, il “mezzomondo”, dentro il quale anche la vita “normale” che scorre all’esterno arriva a spizzichi e bocconi con le sue lusinghe e le sue più numerose brutture. Ma una volta fuori, una volta liberi, quel mondo che ha riconquistato l’altra metà, non sarà una passeggiata su campi di papaveri. Per qualcuno sarà conferma di inadeguatezza, per altri inserimento nei rugginosi meccanismi lavorativi, per Elba una luce che non illumina ma lambisce attraverso un bacio destinato a non produrre amore e attraverso una conferma di vocazione all’ascolto dell’altrui dolore.

L’empatia come salvezza personale e come messaggio di speranza.

Viola Ardone
Grande Meraviglia
Einaudi editore
pp.299
18,00 €

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