“L’aviatore” di Evgenij Vodolazkin

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L’enigma dell’esistenza ne ‘L’aviatore’ di Evgenij Vodolazkin, ed. Brioschi

@Agata Motta, 10-12-2021

Sono duri, spietati, tristi i romanzi di Evgenij Vodolazkin eppure di una bellezza gelida e assoluta che non concede tregua. Leggere le pagine di questo straordinario autore russo, noto in Italia soprattutto per Lauro, si rivela un’esperienza edificante che non lascia addosso l’argento ossidato dell’inquietudine ma una leggera patina di consapevole nitore esistenziale. Le sue storie grondano amore e passione, assorta contemplazione e commosso stupore di fronte ad ogni piega della vita, nonostante la lucida distanza che la voce narrante, spesso sfrangiata in una pluralità di punti di vista appartenenti a diversi personaggi, mette tra sé e il mondo descritto.

Da filologo e studioso di medievalistica in Lauro (di cui ci siamo già occupati in queste pagine) Vodolazkin aveva fatto della Russia del XV secolo lo scenario in cui far muovere Arsenio, orfano cresciuto con il nonno, guaritore, folle in Cristo, monaco, immenso personaggio spinto dal senso di colpa a raggiungere i vertici più alti della propria ricerca spirituale.

Con L’aviatore, scritto nel 2016 ma giunto in Italia nel 2019 grazie all’editore Brioschi, l’autore sposta la sua indagine storica ed umana al secolo breve. Si concentra in particolare sui primi decenni, quelli attraversati dalla rivoluzione bolscevica, con la sua valenza di utopia imposta con la violenza, e dalla stabilizzazione staliniana, nella sua accezione totalitaria, per passare poi con un brusco salto all’anno finale, il 1999, scelta sicuramente simbolica in quanto voce ormai esangue di un millennio in agonia. Nell’ampia porzione di secolo omessa, il protagonista, Innokentij Petrovic Platonov, non c’era o sarebbe più corretto dire non ha vissuto. Platonov nasce all’inizio del secolo e si ritrova ancora giovane alla fine. È stato congelato e si risveglia dopo più di mezzo secolo. Elucubrazioni fantascientifiche si potrebbe subito obiettare. Sì, impossibile negarlo, il presupposto è oggettivamente fantascientifico, ma il romanzo si dispiega con un realismo impeccabile e, a ben guardare, l’apparente forzatura dell’ibernazione è solo un’ipotesi scientifica non ancora realizzata, una seducente frontiera che in tanti cercano di raggiungere con gran dispendio di risorse economiche e intellettive.

Al risveglio in un ospedale di Pietroburgo, il malconcio eroe di un’atroce sperimentazione avviata in epoca staliniana nei gulag delle remote isole Solovki (luogo adesso di spettrale bellezza per gli intrepidi visitatori), si ritrova senza memoria e quindi senza quelle coordinate indispensabili alla ripresa della vita quotidiana. Il dottor Geiger e una presunta infermiera lo aiutano con trepidante apprensione a riprendere contatto con la realtà senza rivelargli nulla della sua agghiacciante esperienza ma porgendo indizi atti ad accendere barlumi di coscienza.

Sulle acque morte della sua memoria cominciano a galleggiare immagini dell’infanzia e dell’adolescenza, volti, odori, nomi, sensazioni e soprattutto il sentimento amoroso nei confronti di una ragazza, Anastasija, vittima come tanti di una dittatura che faceva della delazione uno strumento di potere e della cieca obbedienza al sistema un obbligo ineludibile. Il ritrovamento di Anastasija, ormai vecchissima e demente, consente ad Innokentij di riappropriarsi di un sentimento, grottesco per la differenza di età e ovviamente privo di qualsiasi prospettiva futura, necessario nel proprio personale percorso di riappropriazione della vita.

Quale vita, ci si potrebbe chiedere, quella antecedente la grande frattura fisica e interiore del congelamento o quella successiva al risveglio? In entrambe Innokentij è un naufrago come il Robinson Crusoe più volte citato, in nessuna sembra trovare una collocazione soddisfacente. L’identità sfugge e si modifica, sollecitata da ricordi filtrati dalla distanza temporale ed emotiva e dalla nuova prospettiva aperta dall’essere divenuto un caso mediatico, un fenomeno da osservare, intervistare, sfruttare anche sul piano pubblicitario con appetibili contratti, tra cui quello paradossale che lo vuole testimonial di un’azienda di surgelati.

Il destino mette sulla sua strada la giovane omonima nipote di Anastasija e, attraverso lei, il tempo, che non può riavvolgere il suo nastro, concede un nuovo inizio, un nuovo amore che si nutre del precedente e sembra da esso generato. Pian piano riaffiorerà anche la memoria legata ai campi di lavoro e alla lotta per la sopravvivenza che cederà presto il posto al desiderio della morte come unica speranza di sollievo, come unica via per far cessare i tormenti fisici e il logoramento psicologico. La possibilità di diventare un “lazzaro”, una cavia da laboratorio programmata per la resurrezione, viene colta infatti al volo, per qualche mese si sarebbe aperta una parentesi di vita simile a quella del bestiame ben pasciuto per il macello, alla boccata d’aria dell’annegato. Se Innokentij sia finito in quella lurida sacca priva di umanità da omicida, come recita l’accusa, o da calunniato, come appare, è un particolare che lentamente si svelerà alla coscienza dell’uomo sempre più affievolita dai disturbi fisici legati all’anomalia della sua condizione. “Da dove comincerò a piangere le azioni della mia vita maledetta?” Le parole del Grande canone penitenziale incontrano il pensiero dei grandi padri della letteratura russa, Puškin e Dostoevskij, così colpa e innocenza, vendetta ed espiazione cammineranno tenendosi per mano, tutto apparirà filtrato dal tempo e da una sorta di tiepido abbandono. Persino l’incontro con il decrepito aguzzino Voronin, che ribadisce la sua assenza di pentimento e manifesta solo una blanda curiosità per il prodotto di un esperimento ben riuscito, non alimenta odio nella vittima ma apre un varco in cui insinuare una semplice constatazione: quando non c’è più cattiveria né rimorso, l’anima sprofonda nel sonno.

La statuetta di Temide, che tanto aveva turbato i sogni infantili di Innokentij, sarà uno dei pochi oggetti di quell’epoca lontana ad essere ritrovato a casa della giovane Nastja. Da sempre ha la bilancia rotta, ciò che rappresenta è una giustizia guasta che non ripara nonostante la carica seduttiva che ne sprigiona. Ma la giustizia, in ogni tempo, è un affare tutto umano. Solo Dio ha il potere di cambiare l’ordine della natura, se vuole.

Dal confronto tra le due estremità opposte del XX secolo scaturiscono anche tante pagine leggere e venate di ironia in gradevole dissonanza con l’orrore narrato invece in modo asciutto e levigato.

Lo spaesamento legato all’approccio con il mondo tecnologizzato, con il linguaggio mutato dall’inserimento di neologismi (soprattutto gli anglicismi dichiaratamente poco amati dall’autore), con le diverse consuetudini sociali rende il personaggio tenero ed irresistibile, un alieno da fumetto con grandi capacità di adattamento e spiccato senso dell’umorismo.  Ed è proprio qui, nella terra di nessuno tra il prima e il dopo, che il titolo, apparentemente legato ad una poesia e, in modo esile, ad un gioco infantile condiviso con il cugino, si carica di un significato pieno e affascinante: la vita di un risorto, vicino alla scadenza come un alimento, non può che essere guardata dall’alto.

Come il compianto aviatore Frolov, Innokentij sorvola il nuovo mondo in cui si è risvegliato, dall’azzurro senza crepe del cielo il punto di osservazione cambia totalmente, la distanza si fa amica e concede saggio disincanto, mentre il dettaglio deve assolutamente essere messo a fuoco, le piccole cose insignificanti nel comune sentire devono essere recuperate e consegnate alla memoria dei posteri con un certosino lavoro di scrittura in fondo non troppo lontano dalla professione che il ragazzo Innokentij avrebbe voluto svolgere, quella del pittore. La vita si può dipingere o raccontare e l’uomo intraprende entrambe le vie per fissare ciò che scivola tra le dita senza lasciare traccia, per bloccare l’enigmatico senso dell’esistenza tramite descrizioni atte ad ancorare e a sostanziare quell’assurda combinazione di minuzie e di eventi chiamata vita. E lo fa per una figlia in arrivo che probabilmente non conoscerà mai.

Non ha senso scrivere di grandi avvenimenti, di quelli ne verrà a sapere comunque. Le mie descrizioni dovranno riguardare qualcosa che nella storia non trova posto, ma nel cuore rimane per sempre.

È questo il ruolo della memoria individuale? Non è il solo affascinante interrogativo posto dall’autore che chiama a riflettere sull’azione del singolo nella storia collettiva e su quanto un determinato contesto storico-politico possa incidere sul senso morale dell’individuo.

L’unica certezza che possiamo ricavare è che quanto di bello e di profondo accade tra gli uomini non necessita di definizioni ma soltanto di cura e di dedizione. L’unica certezza è il miracolo dell’amore in tutte le sue forme.

Evgenij Vodolazkin

L’aviatore

Brioschi Editore

20,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2021/12/10/libri-sotto-lalbero-lenigma-dellesistenza-ne-laviatore-di-evgenij-vodolazkin/

anche su Articolo21

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“Lauro” di E. Vodolazkin

La fine del mondo che non arriva. ‘Lauro’ di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni

@ Agata Motta (04-11-2019)

Letteratura. Saggistica breve.

Un percorso di conoscenza attraversato da un afflato universale e dalla stupefacente forza della fede, questo, e molto di più, è Lauro, Elliot Edizioni, romanzo pluripremiato ambientato nella metà del XV secolo, scritto da Evgenij Vodolazkin, uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco. Lauro segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete del suo tempo. Vodolazkin ricostruisce con aggraziata finezza e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla straordinaria morte, e la organizza in tappe: libro della conoscenza, libro dell’abnegazione, libro del cammino e libro della pace.

La narrazione, piana e scorrevole, è impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche elargite con tono colloquiale o attraverso complesse elaborazioni, a seconda che appartengano a gente umile e illuminata o a menti più raffinate e socialmente elevate. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile ed una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e di singolare aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con cui, durante una lunga parentesi della sua vita, condividerà abitudini e bizzarrie, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Uno degli aspetti più intriganti del romanzo è costituito proprio dalla messa a fuoco del fenomeno dei “folli in Cristo”, figure di mistici che hanno caratterizzato quell’epoca e quella terra lasciando un’impronta profonda nella cultura locale. E’ lo stesso autore, filologo e specialista di letteratura russa medievale, a spiegarne le caratteristiche peculiari in un’intervista: il folle in Cristo è un individuo che sceglie di rompere con la società, che si esalta fuggendo la gloria dell’uomo, che trascura e mortifica il corpo, che si sposta da un luogo all’altro senza mai appartenere a nessuno di essi. La stravaganza dei comportamenti e l’eccentricità sono “aspetti di una santità che non vuole essere riconosciuta e quindi indossa la maschera della follia”. Un fenomeno, dunque, che, nella sua diversità rispetto all’eremitaggio tipico del monachesimo orientale, suscita curiosità e stupore nel mondo occidentale abituato alle caratteristiche del cenobitismo.

Winter Morning by Igor Grabar

Invaghirsi di Arsenio sin dall’inizio del romanzo è spontaneo, quasi obbligatorio. Dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un folle in Cristo, prendendo il nome di Ustino (come se continuasse a vivere per la donna amata, come se le prestasse il proprio corpo per prolungarne la breve esistenza), poi tornerà ad essere Arsenio, quindi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria del caro amico defunto), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna.

Tanti nomi che corrispondono a tante vite. Certo non è il cambio del nome a determinare la moltiplicazione, ma quella intensa trasformazione interiore che spesso accompagna le persone dotate di particolare sensibilità, quel passaggio radicale da uno stato ad un altro che la materia sottoposta a variazioni subìsce, in base al quale non muta la sostanza ma il modo in cui essa si manifesta. Basterebbe semplicemente stare ad ascoltarsi per comprendere la potenziale molteplicità dell’Io e la sua sorprendente capacità di rinascita, per aprirsi “nuovi e disponibili” alla vita, tante volte quante il caso o la determinazione riescano ad offrire. Anche in vecchiaia, anzi soprattutto in essa, quando la visione d’insieme è completa, quando il tempo cessa di fluire in modo orizzontale per piegarsi e inginocchiarsi ad una circolarità che evoca mondi lontanissimi soltanto immaginati.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo. Scelte convergenti, dunque, all’insegna di quella che si configura come la duplice storia d’amore che occupa l’animo inquieto di Arsenio, quella per Ustina, con la quale manterrà un dialogo ininterrotto in attesa di risposte che ovviamente non potranno giungere, e quella per Dio, nel quale si vorrebbe annullare e nel quale trovare il senso del suo tortuoso percorso umano di espiazione.

Venezia nel XV secolo

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti: il freddo rabbioso della Russia flagellata dalla peste, il fascino magnetico dei palazzi della Repubblica veneziana, il Mediterraneo con le sue burrascose tempeste e con i miti classici e le vicende epiche ancora aleggianti (il Labirinto del Minotauro, Troia, Paride ed Elena), i torridi sentieri polverosi del Medio Oriente attraversati durante il pellegrinaggio. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro – illustrato minuziosamente nei grandi eventi e nelle piccole folgorazioni del quotidiano – e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita in un’epoca in cui la morte era costantemente in agguato sotto forma di malattia, guerra, carestia, gratuiti assassini.

L’italiano Ambrogio morirà durante un attacco dei mamelucchi, ormai in procinto di giungere in Terra Santa per compiere in compagnia di Arsenio la missione affidata loro dal podestà di Pskov, quella di accendere una lampada votiva nel Santo Sepolcro per la defunta figlia Anna.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

https://www.scriptandbooks.it/2019/12/01/la-fine-del-mondo-che-non-arriva-lauro-di-evgenij-vodolazkin-elliot-edizioni/

anche su Articolo21

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