“Tesnota” di K. Balagov

Saggistica breve. Cinema

Prigionie reali e narrative di una famiglia. ‘Tesnota’ di Kantemir Balagov, al cinema dal 1° agosto

 di Agata Motta 28-07-2019

Kantemir Balagov, giovane regista russo del Caucaso del Nord, studi di Economia e Legge messi da parte per inseguire prima la passione per la fotografia e poi quella per il cinema, con Tesnota (premiato a Cannes nel 2017 con il premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard e, l’anno successivo, al Festival Premiers Plans d’Angers) è al suo primo lungometraggio, ma dimostra già di avere idee chiare in fatto di stile. Formatosi presso la scuola di cinema di Alexander Sokurov – Leone d’oro a Venezia, nel 2010, per Faust ma già noto per la Trilogia sul potere – Balagov racconta la storia (sceneggiatura scritta a quattro mani con Anton Yarush), in gran parte vera perché ispirata ad un fatto di cronaca, del rapimento di una giovanissima coppia di fidanzati prossimi alle nozze e dei risvolti affettivi ed emotivi prodotti sulle famiglie, e solo marginalmente sui rapiti, chiamate a pagare un riscatto proibitivo per le reali condizioni economiche delle classi sociali di appartenenza.

Tempo e luogo sono immediatamente dichiarati nelle didascalie iniziali – 1998, Nalchik, Caucaso del Nord, Russia – per consentire la corretta contestualizzazione di una vicenda che riprende il filo mai interrotto della diaspora ebraica e della convivenza di etnie, lingue e religioni diverse su territori ambiguamente stretti tra un passato di sottomissione e un presente di autonomia e pericolosamente vicini alle aree interessate dai conflitti ceceni. Le famiglie in questione appartengono alla comunità ebraica che predilige una condivisione collettiva di ciò che accade ai propri membri e uno spirito di appartenenza tanto forte da apparire all’esterno esclusivo e fatalmente chiuso e iperprotettivo. Emerge subito con evidenza la decisione di non coinvolgere la polizia, decisione non condivisa da Ilana, sorella maggiore del rapito David e vera protagonista del film, e di procedere con una raccolta di denaro volta al raggiungimento della somma richiesta. Naturalmente l’adesione alla proposta del rabbino non è unanime, in pochi sono disposti a mettere mano alla scarsella e i soldi raccolti bastano a soddisfare metà della richiesta, per cui si effettua la scelta difficile di liberare intanto la ragazza, che non ha alle spalle una famiglia allargata in grado di sostenerla. Cos’altro bisognerà fare per ottenere la salvezza di entrambi? E cosa invece non si è disposti a fare?

Eccoci dunque al nucleo sul quale l’autore ha scelto di scavare non tanto con lo strumento immediato delle parole, distillate ed essenziali, ma con quello più sofisticato e paradossalmente più semplice dell’uso degli strumenti tecnici a sua disposizione. Ognuno soffre a suo modo, questa verità è esposta con efficacia nelle scarne battute dei dialoghi e soprattutto nei volti, sui quali i primissimi piani indugiano alla ricerca delle minime variazioni espressive: dalle emozioni rabbiose ma mai urlate di Ileana – una sorprendente Darya Zhovner che si rivela giusta, spontanea e a tratti magnetica nella caparbia determinazione, purtroppo fallimentare, a non lasciarsi sopraffare e distruggere dalle circostanze – a quelle compresse ma non domate superbamente restituite da Olga Dragunova, mater dolorosa che impone al marito e alla figlia il prezzo altissimo del suo amore per David.

I personaggi sono chiusi in una trappola che sembra senza uscita, braccati dalla macchina da presa che li costringe in “inquadrature limite” – accentuate dalla definizione del quadro in rapporto 4:3 (1,33) – dentro le quali non rientrano interamente, dai cui margini debordano, come se l’evasione dalla prigionia narrativa comportasse di conseguenza l’uscita dalla porzione di spazio rappresentato. Se si escludono gli indugi sugli esterni desolati e bui, esposti agli occhi dello spettatore attraverso il mix delle luci dei lampioni e di quelle del fascio dei fari della macchina, il ricorso frequente agli stacchi, magari per semplici cambi di angolazioni, e quello raro al récadrage limitano i movimenti della macchina da presa, mentre la concessione ad un tempo di lettura delle immagini più lungo, quasi a voler rallentare anche il ritmo della narrazione, consente la possibilità di un tempo di riflessione che non produce empatia ma distacco oggettivo. Nella gestione personale del montaggio, che talvolta trasmette il nervosismo e le lacerazioni di Ilana e altre la lentezza esasperante delle azioni che devono essere compiute, Balagov può definire e sigillare le proprie scelte stilistiche per le quali si dichiara debitore alla Nouvelle Vague e al cinema russo del disgelo, almeno per ciò che concerne stimoli e sollecitazioni.

Nella disperata ricerca di una soluzione, c’è chi approfitta della situazione per compiere un’azione di sciacallaggio ed acquistare a prezzo stracciato l’officina che dà lavoro e sostentamento alla famiglia del ragazzo e che si configura come luogo di realizzazione professionale e umana per Ilana, che vi coltiva la passione per i motori e la fiduciosa vicinanza con il padre. In questa della vendita, che si porge come una delle scene chiave, si conferma la capacità del regista di usare le luci come vero e proprio vettore di senso: gli occhi in ombra ed il resto del viso rischiarato dalla luce spiovente dell’abat-jour. Questo tipo di illuminazione, che crea effetti di chiaroscuro giocato sulle contrapposizioni, è già presente sin dalle prime sequenze, diviene cifra stilistica e contribuisce ad accentuare la drammaticità delle decisioni che i personaggi sono chiamati di volta in volta a prendere.

Il rapporto di Ilana con i membri della sua famiglia è sviscerato attraverso dense sequenze, da quello con la madre, raffreddato dalla rigidità e dall’intransigenza materna e soprattutto dallo squilibrio affettivo per il figlio minore, a quello con il padre tenero e comprensivo (Artem Tsypin, perfetto nel difficile ruolo di un uomo che, pur amando entrambi i figli, sente di dover assecondare la volontà della moglie che in qualche modo si trasforma in legge morale), da quello con il fratello (Veniamin Kats, attore non professionista che punta sugli aspetti più infantili del suo personaggio) posto immediatamente sul piano di una complicità che si esplica nella condivisione di piccole trasgressioni e intime confidenze, a quello con Zelim (un Nazir Zhukov un po’ opaco rispetto agli altri interpreti ) nel ruolo di un ragazzo cabardo lontano dalle esaltazioni politiche di alcuni dei suoi amici e diffidente nei confronti dell’estremismo musulmano, mostrato in un lungo e atroce frammento di documentario, girato in un villaggio del Daghestan, davvero indigesto e difficile da reggere. Il personaggio di Zelim appare quindi più funzionale alla comprensione complessiva della storia che necessario, sia perché porterà la ragazza a rifiutare un matrimonio combinato e risolutivo sul piano della somma da consegnare ai sequestratori, sia per ciò che significa la possibilità di sfuggire alle convenzioni e ai dettami morali in quel lembo di terra in cui, a detta dello stesso regista, ad accomunare ebrei e cabardi sono il senso dell’onore e il rispetto delle tradizioni.

La luce quasi suggerita nel film, come suggerite appaiono le voci in presa diretta, vira velocemente verso cromatismi accentuati di impronta pittorica nelle scene finali, girate in esterno e impregnate in successione del verde e del giallo filtrato dai finestrini dell’automobile e dell’azzurro implacabile del cielo che domina assorto sulle periferie di Nalchik e sulle aguzze cime caucasiche mostrate attraverso una soggettiva corale in coincidenza con lo sguardo degli esuli.

La nuova diaspora conduce via il nucleo familiare monco di una parte essenziale, David, il figlio amato che sceglie di restare con la futura moglie. Non può esserci futuro per chi ha infranto i codici d’onore. Il sangue della verginità di Ilana, ceduta al ragazzo amato nella luce rossastra di un magazzino senza alcuna poesia e trasporto, tributo necessario alla negazione di un matrimonio imposto, ha precluso la possibilità di un nuovo inizio nella stessa terra. Allora si va via, come sono andati via i padri e i padri dei padri, ma Ilana, la forte, la ribelle, non accetterà il ruolo di vittima sacrificale e neanche quello di sostituta nell’affetto materno e una nuova, stanca pietà sembra affacciarsi nel suo cuore, perché infine anche lei, come la madre, ha perso l’oggetto del suo amore.

Tesnota (Closeness in inglese o Vicinanza in italiano) uscirà in l’Italia il primo agosto, cioè nella fase culminante delle ferie estive, mentre Cannes ha già salutato con favore il secondo lungometraggio di Balagov, Beanpole, tributandogli il premio per la regia nella sezione Un certain regard.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/07/29/prigionie-reali-e-narrative-di-una-famiglia-tesnota-di-kantemir-balagov-al-cinema-dal-1-agosto/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2019/08/prigionie-reali-e-narrative-di-una-famiglia-tesnota-di-kantemir-balagov-al-cinema-dal-1-agosto/

“Dolor y gloria” di P. Almodovar

Cinema. Saggistica breve. Festival

Impedimenti del corpo e ‘deseo’ creativo. ‘Dolor y Gloria’ di Pedro Almodóvar, Premio miglior interpretazione maschile Cannes 2019 ad Antonio Banderas

di Agata Motta 30-05-2019

Un uomo immerso totalmente in piscina, il silenzio rarefatto dell’ambiente vuoto, il dettaglio di una lunga cicatrice sulla schiena che è già un anticipo di programma. Poi l’acqua terapeutica si trasforma nel liquido amniotico di un’infanzia felice trascorsa accanto ad una madre dall’energia contagiosa e in quella delle lenzuola strizzate e stese al sole sui cespugli. Presente e passato si tendono la mano, come in tutti i film introspettivi, quelli in cui si cercano le risposte dell’oggi nelle domande di ieri.

Antonio Banderas è Salvador Mallo, un regista osannato in crisi creativa, alias Pedro Almodóvar. E’ da questo spontaneo e voluto processo di identificazione che trae origine il percorso necessario ad una piena comprensione di Dolor y gloria, ultimo film, presentato al Festival di Cannes 2019, del prolifico autore cult spagnolo, che ha affidato a questa pellicola/confessione una delle sue prove più alte e misurate.

All’attore prediletto dal regista negli anni Ottanta (da Labirinto di passioni a Légami) poi passato alle grandi produzioni americane e internazionali (Philadelphia, D’amore e d’ombra, Intervista col vampiro, Desperado, Two Much, Evita, La maschera di Zorro, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo!) e poi tornato ad occupare un posto privilegiato nel cuore e nella filmografia di Almodóvar con La pelle che abito e Gli amanti passeggeri, ad Antonio Banderas, insomma, ancora splendido pur nell’incipiente senilità, è andato il Premio per la Migliore interpretazione maschile; il suo è un ruolo assorto e malinconico, tutto giocato sul piano delicatissimo delle sfumature (non sempre perfettamente restituite in fase di doppiaggio), sul lavoro effettuato sul corpo, da sempre privilegiato oggetto d’indagine per il regista che questa volta però sceglie un punto d’osservazione inconsueto. Non si tratta più dei corpi trasformati dei transessuali né di quelli ricostruiti (come in Tutto su mia madre o La pelle che abito, giusto per citare alcuni dei titoli più noti), l’attenzione adesso è rivolta al proprio corpo mal funzionante, un corpo rivelato attraverso raffiche di refertazioni mediche e immagini radiodiagnostiche che ne mostrano i meccanismi interni alterati in un turbinio quasi voluttuoso di malattie accuratamente elencate e descritte nella loro sintomatologia dolorosa.

Si fa presto a dire “dolore”, tutti lo conoscono e lo hanno provato almeno qualche volta, ma esiste una forma di dolore, quello cronico, che si installa dentro il corpo in permanenza come un parassita o un ospite sgradito, che rosica ogni pulsione vitalistica, che imprime una direzione obbligatoria alle scelte individuali, che strema nella consapevolezza dell’incompiuto, che terrorizza nella proiezione di se stessi in un futuro in cui non sarà più possibile continuare a svolgere le attività che si amano e che aiutano a sentirsi vivi, perché la partita si giocherà con la capacità di convivere con esso. Almodóvar lo descrive con la lucidità dettata dalla conoscenza diretta e ad esso attribuisce parte della sua crisi “creativa”, che è appunto la crisi di Salvador Mallo che, a sua volta, è il personaggio della rinascita di Banderas come attore finalmente restituito come merita ai grandi ruoli che segnano la carriera.

Il regista si lascia alle spalle le accattivanti trame scabrose e grottesche e le opulenze narrative che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione. Dolor y gloria è un film essenziale e, proprio per questo preciso intento di condensazione tematica e prosciugamento verbale, estremamente struggente, un sussurro straziante sui due aspetti solo apparentemente antitetici della vita di un artista: il dolore, fisico e interiore, e la gloria, disperatamente cercata anche quando si pensa di poterne fare a meno. Alla domanda su cosa possa fare un regista se non scrive e non gira Mallo risponde “vivere”, ma è una bugia clamorosa alla quale nessuno crede, né l’autore né gli spettatori, già il nostro Pirandello ci aveva confidato che “la vita o si scrive o si vive” e la sostanza delle cose non è affatto cambiata. La necessità di continuare a svolgere un lavoro molto fisico come quello del regista, in netto conflitto con le bizze di un corpo dolorante, non è messa in dubbio neanche quando la parola vorrebbe negarla per creare illusioni consolatorie.

E infatti sul dolore e su quanto esso possa dettare la sua legge a chi vi si trova sottomesso ruota il plot, apparentemente molto semplice e lineare. Sono semplici e magnetici persino i titoli d’apertura, incastonati dentro una cornice di disegni astratti computerizzati che fluiscono in cangianti e accesi cromatismi, ma si tratta di una semplicità che non coincide affatto con la povertà inventiva. Almodóvar non può fare a meno di sorprendere sempre e comunque anche quando l’impronta generale appare squisitamente posata ed equilibrata.

Sulla gloria ad Almodóvar non importa indugiare, essa è tanto ingombrante e comprimaria nel titolo quanto tacitamente assodata nel film, è una grossa fetta d’esistenza sulla quale è inutile soffermarsi se non nella riesumazione della fase iniziale di una carriera in continua ascesa che fornisce il pretesto alla narrazione: la proiezione di un vecchio film restaurato, Sabor, durante la quale dovrebbero presentarsi il regista e il protagonista Alberto Crespo (nell’efficace, brusca e sofferta interpretazione di Asier Etxeandìa) che, dai tempi delle riprese, non si sono più visti né parlati. Dopo una fase di paludoso stallo, il protagonista riemergerà alla vita grazie ad una serie di piccoli eventi che riannodano la corda tesa dei ricordi, tra i quali giganteggia l’anziana madre interpretata da Julieta Serrano, attrice icona di Almodóvar, che si porge con scanzonata e tenera serietà, aggrappata alla coroncina del Rosario e alle sue ataviche certezze, a dare ulteriore spessore al personaggio che, nei flashback, appartiene all’altra icona del regista spagnolo, Penélope Cruz. Il senso di colpa di Mallo per averla delusa nelle sue aspettative è sempre in agguato, specie per non aver potuto mantenere fede alla promessa di farla morire nel paese amato, e ad esso, forse, nella realtà si aggiunge quello dell’uomo Almodóvar per aver parlato di lei al grande pubblico pur sapendo che ciò non le sarebbe piaciuto.

La riconciliazione con Alberto, tramite il dono di un monologo teatrale autobiografico, La dipendenza, trascina nel territorio ancora immacolato dell’incanto del cinema avvertito come luogo di ogni possibilità e di ogni sogno, porta dentro la magia dei film proiettati sul muro bianco sotto il quale i ragazzini urinavano, con una manovra che ricorda l’analogo incanto del bambino Totò di Nuovo Cinema Paradiso, film di Giuseppe Tornatore con il quale Dolor y gloria condivide il tema del “ritorno” del regista ormai affermato – fisico o memoriale non importa – ai luoghi e alle passioni dell’infanzia. In quel monologo, che per Alberto Crespo diventa arma di riscatto professionale, è contenuta anche la doppia dipendenza, dalla scrittura e dalla droga, dei due giovani amanti che ne sono protagonisti, Salvador e Federico, quest’ultimo interpretato da un Leonardo Sbaraglia che dona il giusto mix di timidezza e determinazione al suo fragile personaggio. Ma all’antico amante Federico, ritrovato proprio grazie a quello spettacolo in cui si riconosce, Mallo nega, con la saggezza della maturità, un nostalgico rapporto sessuale. Intanto, complice l’affettuoso interesse dell’assistente Mercedes (Nora Navas nel ruolo indovinato e calzante della chioccia accudente), maturano in Mallo le decisioni che potrebbero rimettere ordine e speranza nella sua paralisi esistenziale: affidarsi ad un centro di terapia del dolore per liberarsi dall’eroina, utilizzata a scopi antalgici, cui l’aveva appena iniziato con un pizzico di astiosa e forse vendicativa noncuranza Alberto, e sottoporsi ad un intervento chirurgico per risolvere la disfagia, uno dei tanti supplizi quotidiani.

Il linguaggio cinematografico è terso e pulito senza alcuna prodigiosa ostentazione nei movimenti di macchina, le inquadrature sono prevalentemente statiche – alcune proprio teatrali – e girate in interni con uno sguardo intimo e privilegiato alla casa del protagonista, che è una ricostruzione di quella dell’autore, un piccolo museo consacrato alla bellezza da godere in solitudine.

La Madrid mostrata in brevi sequenze è quella delle strade dello spaccio, mentre la poesia e l’incanto negati alla capitale sono regalati a Paterna, luogo di un’infanzia poverissima e mitica in cui si schiudono la passione per lo studio, forzatamente condotto in collegio (inevitabile l’accostamento a La mala educaciòn e al carico di livore da sempre manifestato nei confronti di un cattolicesimo bigotto e limitante) e il sorgere del primo desiderio, legato ad Eduardo, il giovane imbianchino con una spiccata inclinazione per la pittura che gli schiude inconsapevolmente l’orizzonte dell’omosessualità.

Con una leggera forzatura potremmo dire che la stanchezza che pervade lo sguardo del protagonista diventa quasi una cifra stilistica e si posa su oggetti e persone, sui movimenti rallentati e ingoffiti dai malanni, sulle percezioni dilatate dall’eroina, sul presente che ha subìto una battuta d’arresto contrapposto all’esuberanza di un passato che emerge a ondate riportandolo all’infanzia illuminata dalla prorompente e mai scalfita vitalità della giovane madre, una Penélope Cruz in cui la bellezza è solo un dettaglio, e nemmeno il più significativo, tra le tante doti espressive.

Ma ecco che questi flashback, che si portano dentro la necessità della riappropriazione del passato per ottenere la pacificazione con il presente, diventano qualcos’altro, ecco che l’apparente semplicità narrativa cui si accennava, con un rapido guizzo, si sostanzia di un espediente tecnico, a sua volta semplice, che riporta al set, quello addomesticato e intimo della rinascita artistica e umana che prelude ad altra gloria, quello de El primero deseo, divenuto film nel film (El Deseo è guarda caso anche il nome della casa di produzione), e dell’infanzia magica in cui tutto era ancora da compiere e da immaginare.

Non ci dice nulla di nuovo Almodóvar nel rivelare che la sua salvezza è stata determinata dal cinema e che nel cinema – nel suo complesso processo di creazione fatto di scrittura e di riprese – ha trovato il suo dio e la sua forza. Si limita insomma a ribadire il concetto (sarà un caso che il suo protagonista si chiami Salvador?), quasi per ricordarlo a se stesso, perché in fondo questo è il destino di tutti gli artisti. Ecco perché questo film, probabilmente, non riceverà unanimi consensi, bisogna sentirlo sulla propria pelle per assorbirne ogni immagine e ogni parola, bisogna essere dolenti e creativi, anche senza essere stati baciati dalla perfida gloria.

Per chi ha amato l’Almodóvar degli eccessi e della provocazione, sarà comunque singolare e piacevole constatare come si possa sostanzialmente restare fedeli a se stessi pur nella declinazione di nuclei tematici e accenti stilistici pacati e introspettivi. Mutare pelle più volte pur restando riconoscibilissimi, anche questo, in fondo, fa parte della grandezza di un autore.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/05/30/impedimenti-del-corpo-e-deseo-creativo-dolor-y-gloria-di-pedro-almodovar/

pubblicato anche su Articolo21.org

https://www.articolo21.org/2019/05/impedimenti-del-corpo-e-deseo-creativo-dolor-y-gloria-di-pedro-almodovar/