“Fame d’aria” di Daniele Mencarelli

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L’agonia che non passa. “Fame d’aria” di Daniele Mencarelli, Mondadori ed.

@ Agata Motta, 19 agosto 2023

Se non si può più vivere la propria vita, se bisogna accudire momento per momento il proprio figlio, se non è neanche ipotizzabile tornare indietro all’epoca in cui tutto era fattibile e semplice, è scontato sentirsi senza ossigeno, agonizzanti, affamati d’aria per via di un macigno posato sul petto a pressare senza misericordia, bisognosi, e magari desiderosi, di un pietoso colpo di grazia per interrompere una sofferenza che ha il sapore dell’ineluttabilità e dell’eternità del nostro tempo sulla terra. “Ha da passà ‘a nuttata” diceva Eduardo, ma ci sono certe notti che non passano mai, che offrono solo incerti spicchi di luna da osservare da lontano con la consapevolezza che l’algido bagliore non apparterrà mai a chi guarda la vita dal di fuori, una vita che scorre per gli altri e non più per se stessi in un altrove irraggiungibile.
In Fame d’aria di Daniele Mencarelli, Mondadori editore, la percezione del dolore muto e insostenibile legato alla gestione di un figlio disabile (autismo a bassissimo rendimento) lacera come un vetro aguzzo e scava nella carne con la rabbia impotente di un padre che si interroga sulla propria sorte e che riversa il proprio insopportabile malessere sul ragazzo, tanto bello quanto inconsapevole dello sfascio prodotto nella coppia che lo ha generato. La beffa atroce dell’autismo è quella di non manifestarsi subito, di lasciare ai genitori il tempo di gioire, di illudersi, di progettare, fino ai giorni amari dei dubbi, della percezione di una diversità evidente, dello sgomento di una diagnosi che non lascia alcuno spazio alla speranza ma solo ad incessanti tentativi di terapie volte ad alzare di pochi millimetri l’asticella del rendimento e di una impossibile autonomia. E saranno i giorni “della tenebra più fitta della notte”, quelli dell’invidia per il miracolo di un figlio normale. La ferita narcisistica e l’autocommiserazione (Possibile io? Perché proprio a me?) diventano compagne inseparabili e se almeno in sogno affiorano brandelli di normalità, il risveglio, dopo pochi attimi di nebbiosa sospensione, riconsegna l’impatto con una realtà senza scampo scandita da cure igieniche e istruzioni alimentari. Il rimpianto di un’altra vita possibile, senza quel figlio o con un figlio come gli altri, trafigge il cuore come un inattingibile raggio di luce. Lo sguardo vuoto del ragazzo è lo specchio dell’impotenza paterna, di un sentimento che somiglia all’odio e che invece è soltanto un amore frustrato, tanto disperato quanto inutile.
Pietro viaggia su una vecchia Golf con il figlio Jacopo diretto in Puglia, a Marina di Ginosa, là dove tutto è cominciato, là dove un incontro di sguardi ha fatto conoscere l’amore a Pietro e a Bianca. Un guasto alla frizione costringe Pietro a fermarsi a Sant’Anna del Sannio, un minuscolo paese in pietra bianca, in cerca di aiuto. Le solite occhiate su Jacopo – ci vuol poco a coglierne la diversità, bastano gli occhi privi di qualsiasi scintilla e i movimenti stereotipati – la solita risposta brusca e spiazzante a chi chiede chiarimenti per pietà o per morbosa curiosità, il solito finto interesse per “qualsiasi tema che riguarda l’esistenza”. Il rischio dell’asfissia emotiva è dietro l’angolo, l’aria come elemento vitale viene a mancare e porta alla morte spirituale.

Daniele Mencarelli

Cos’è rimasto di Bianca e Pietro? Cos’è rimasto del loro amore? Cosa può sopravvivere in giornate prive di qualsiasi orizzonte progettuale? E se a tutto questo si uniscono le difficoltà economiche e la solitudine nel proprio dramma, come può la vita sorridere o offrire qualche lusinga? Il bonario soccorso del meccanico Oliviero e la severa ospitalità di Agata, proprietaria di un bar che un tempo era stato anche pensione, lo trattengono in un microcosmo di riservatezza in cui i sentimenti sembrano raggelati ma pronti ad affiorare. Un refolo d’aria sembra giungere a Pietro dal sorriso di Gaia, una donna che aiuta Agata nelle faccende da sbrigare, di cui solo alla fine si scoprirà il passato, ma quell’aria, di cui il protagonista ha una fame disperata, non può posarsi sulle sue aride labbra, e sembra che il destino debba compiersi così come lui ha deciso di costruirlo attraverso quel viaggio, uno sgambetto alla malasorte, uno sberleffo che vuol trasformarsi in un abbraccio di purissimo amore. Non sarà così per quel piccolo prodigioso fenomeno che chiamiamo empatia e grazie alla piccola comunità che si stringe intorno al corpo estraneo per proteggerlo da se stesso e dai propri impulsi distruttivi.
Nella singolare e disturbante immagine di copertina si coglie l’allusione al pio Enea che regge sulle spalle il vecchio padre Anchise con un doloroso e innaturale capovolgimento. Pietro appare piccolo e per nulla rassegnato a portare la sua croce, Jacopo giganteggia con un corpo arrotolato e inerte, il volto di chi non ha percezione del proprio esagerato peso.
Mencarelli torna al proprio vissuto con un testo meno ricco e articolato rispetto al bellissimo La casa degli sguardi del suo esordio narrativo, ma più dolente ed essenziale, quasi prosciugato persino nella sintassi, e si conferma grande narratore di verità dolorose, di quelle vite assurde e spigolose che la sorte affibbia senza ritegno a chi non le merita.
“Dio è un altro” recita la dedica dell’autore, una preghiera o uno schiaffo per quel Dio che si vorrebbe sentire vicino nella disperazione e che invece non risponde perché non vuole o non può o più semplicemente perché non esiste così come l’essere umano lo concepisce, è un altro. Non è dato conoscere il perché della sofferenza, si può solo prenderne atto e continuare a soffrire.

Fame d’aria
Daniele Mencarelli
Mondadori
19,00 €

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Rubare la notte di Romana Petri

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Saint-Exupéry e l’ansia del divino. “Rubare la notte” di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta, 17 giugno 2023

Non sorprende trovare Rubare la notte di Romana Petri, Mondadori editore, nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, quello che stupisce semmai è che una talentuosa, raffinata, poliedrica scrittrice e traduttrice come lei non lo abbia già ottenuto in precedenza e che romanzi straordinari come Ovunque io sia, Le serenate del Ciclone e Figlio del lupo siano stati lasciati semplicemente al loro successo.
Come sempre quando si accosta a personaggi reali – il padre Mario Petri, Jack London ed Antoine de Saint-Exupéry in questo caso – per ricostruirne la biografia, l’autrice parte da dati oggettivi e documentati per introiettarli e poi trasferirli nell’immaginifico flusso vitale che si rovescia addosso al lettore con un tornado di emozioni vive e pulsanti. Così il lavoro certosino condotto sulle fonti (gli scritti anzitutto in quanto emanazione diretta di ogni autore) o nella propria memoria costituisce un sostrato solido ma non ravvisabile, mentre emerge la capacità dell’autrice di penetrare nella zona più intima dei protagonisti e di consegnarli alla fine come amici di vecchia data con i quali poter prendere un caffè al bar con la certezza di una consolidata confidenza.
La precisione delle informazioni e degli aneddoti si concretizzano dunque in una struttura robusta attraverso la quale raggiungere altezze vertiginose. Per l’aviatore Saint-Exupéry l’altezza è il cielo immenso nel quale perdersi per potersi ritrovare come uomo e come scrittore. E in quel blu cobalto da notturno volato e rubato (come concesso dalla lingua francese che utilizza un solo verbo per le due accezioni) si staglia lo sghembo e romantico velivolo, con tanto di pecora e di rosa quasi tatuati sull’ala e in carlinga ad omaggiare il Piccolo Principe, proposto in copertina dall’amica pittrice Rita Albertini (alla quale il romanzo è dedicato), già ispiratrice del personaggio scomodo di Luciana Albertini in Pranzi di famiglia e La rappresentazione e quindi elemento di continuità con gli scritti precedenti, quasi anello di congiunzione tra gli affetti veri e quelli letterari della Petri.

Saint-Exupéry

Tonio bambino e Tonio adulto, due figure che si fondono in un unico personaggio, perché il piccolo Tonio ha pensieri e sogni adulti e il grande Tonio ha sensazioni e nostalgie bambine. L’infanzia felice abita il difficile presente e lo nutre con l’amore materno paziente e discreto, proietta la sua ombra lunga sulle pagine dello scrittore e sulle impennate aeree verso un cielo più ospitale della terra, capace di accogliere nell’azzurro la sproporzione di un corpo troppo massiccio e la parentesi mai chiusa di una condizione di perenne stupore.
Le fluviali lettere alle madre, che la Petri immagina e utilizza come contenitore di emozioni e come fresa per scarificare l’anima, costituiscono il filo conduttore di un romanzo che attraversa le tante stagioni di un uomo complesso – quella letteraria, quella del pilotaggio, quella bellica e quella amorosa – che amava porgersi in maniera leggera, che usava l’arguzia e la capacità oratoria per persuadere e raggiungere i suoi scopi, che annegava dilemmi e ansie in pantagrueliche mangiate e abbondanti bevute, che travasava le proprie esperienze di volo in pagine capaci di accendere l’entusiasmo dei lettori, che indugiava tra mondanità e isolamento, che cercava la tenerezza e la dedizione di tante donne per ottenere almeno un pallido riflesso di un’idea d’amore che non avrebbe mai trovato piena realizzazione in nessuna di esse.
Le lettere erano d’altronde l’unico strumento concesso dall’epoca alla comunicazione più intima e Saint-Exupéry, che nella narrativa amava scrivere per sottrazione, se ne servì senza risparmiarsi facendole viaggiare da un continente all’altro quasi identiche, con piccoli aggiustamenti per destinatarie diverse, dall’ostinato e inscalfibile amore giovanile alle amiche particolari cui sottoporre le opere in fieri, dalla capricciosa e bellissima moglie Consuelo alle amanti occasionali, quasi tutte inizialmente concepite per la madre, unica “riserva di pace”. E in ogni lettera comunque parlare di se stesso significava per Tonio porgere alle sue donne un dono amoroso, offrire un narcisistico momento di condivisione per il quale essergli grate.
Dall’altro lato l’universo maschile, fatto di amicizie importanti, grazie alle quali entrare nel circuito letterario o mantenere la possibilità di volare oltre ogni ragionevole limite d’età, e di rari contatti fraterni e duraturi per i quali nutrire nostalgie e rimpianti, come quello con il vecchio pilota Gavoille cui verrà consegnata la borsa in pelle di cinghiale contenente il manoscritto de La cittadella.

In filigrana compaiono le guerre – per una beffa anagrafica (Saint-Exupéry nacque nel 1900) mai pienamente combattute ad esclusione di quella civile spagnola – che lo infiammano di amor patrio. E per amore dell’amatissima Francia l’ormai osannato scrittore andrà negli Stati Uniti a caldeggiare un intervento americano, ma la manifesta ostilità per De Gaulle gli varrà l’accusa, sempre respinta con amarezza, di collaborazionismo.
Poi l’ultima semplice missione nel ’44 e la scomparsa nel cielo, l’uomo viene inghiottito dal suo elemento naturale per diventare leggenda. Antoine de Saint-Exupéry è tuttora uno degli autori più letti al mondo.
La compattezza della storia non viene scalfita dai tanti salti temporali nei quali la perfezione dell’impalcatura orienta con la precisione di una bussola. Il pensiero corre a briglie sciolte tra cielo e terra, in volo un taccuino su cui appuntare la vita con schizzi e frasi brevi, al suolo un’ansia del divino che insegue l’ipotesi di un Dio personale e silenzioso o di un intero olimpo da mantenere in vita pena la morte.
La memoria livella e riplasma traumi lontanissimi – la morte del padre, uno sconosciuto di cui ritrova le tracce nella materna giovinezza appassita e nel taglio dei propri enormi occhi, e quella del fratello adolescente – e sconfitte recenti, prima tra tutte quella legata ad un rapporto coniugale travolgente e complicatissimo. La stessa memoria restituisce all’occorrenza lo sguardo di un amico scomparso o le sensazioni legate a quell’infanzia paradossale in cui la felicità non era avvertita come tale sul momento, ma era destinata a divenire tangibile e abbagliante nel ricordo. Poi, nel tempo, subentrano l’angustia per i malesseri fisici e l’ipocondria, per cui la questione pressante e mai risolta dell’imparare a morire diviene ineludibile per il pilota che, sempre più spesso, gioca al rialzo e ama durante le missioni “sfiorare la catastrofe e lasciare tutti senza fiato”.

Romana Petri

Esiste una indubbia somiglianza tra la vita di Antoine de Saint-Exupéry e quella di Jack London (protagonista di Figlio del lupo), entrambi sono uomini d’azione e visionari sognatori, entrambi vivono le relazioni con le donne in maniera totalizzante ed entrambi sono fortemente segnati da madri sotto certi aspetti ingombranti ma amatissime, entrambi agognano una paternità che il destino nega loro, entrambi provano un’ansia di movimento che convive con quella della ricerca del porto sicuro, entrambi hanno un rapporto anomalo con il denaro, lo inseguono per sperperarlo, entrambi bruciano in quattro decenni una vita così ricca di eventi da poter equiparare almeno dieci vite comuni. Uomini dalla sensibilità diversa accomunati da un modo particolare di stare nella vita e di uscirne fuori sbattendo la porta, come a dire ne ho abbastanza, sono sazio, ne ho fatto indigestione. E se la scelta della Petri è andata per ben tre volte (se si considera anche il romanzo dedicato al padre) su queste personalità, dev’esserci un’affinità spirituale, un trasporto, un’ossessione che trovano identiche radici, un’inquietudine esistenziale persecutoria che può sublimarsi solo nella scrittura (o nell’arte per il Ciclone) e in quel mondo astratto, ma per certi versi ancora più autentico, che l’immaginazione crea a propria immagine e somiglianza.
La Petri porge la materia narrata con una prosa elegante, corposa, curata, in perfetta simbiosi con contenuti che dalla ricchezza lessicale e dal periodare cesellato ricavano sostanza e spessore. La tentazione della semplificazione, anzi della banalizzazione del linguaggio, che sempre più spesso viene spacciata per scelta stilistica, non l’ha mai sfiorata, non può interessare a chi possiede storie sempre nuove da raccontare e il dominio perfetto di una tecnica di scrittura mai disgiunta dal talento visionario. Nelle sue pagine questi elementi si fondono in maniera spontanea, non se ne avvertono i confini e l’unica percezione ricavabile è quella di una limpidezza di pensiero che si traduce in frasi spesso bellissime. Chi ha l’abitudine di sottolineare, si ritroverà alla fine con un libro fittamente segnato, vissuto rigo per rigo, magnificamente massacrato.
Sono felice di non essere cambiato troppo. Sono ancora convinto che gli uomini siano tutti abitanti dello stesso pianeta, passeggeri della stessa nave.

Romana Petri
Rubare la notte
Mondadori
pp.264
19,00 €

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“La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli

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Viaggio di sola andata. “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli

@ Agata Motta, 8 maggio 2023

La morte di un bambino è una bestemmia che non ha giustificazione alcuna, è una violenza inaudita alla quale Dio non si oppone, quel Dio che dovrebbe chiedere perdono per il dolore che consente sulla Terra. Il tema del male inflitto agli innocenti, vissuto come scandalo insostenibile, emerge prepotente dalle pagine di autori che non smettono di interrogarsi su laceranti questioni morali ed è presente nel romanzo d’esordio La casa degli sguardi (Premio Severino Cesari Opera Prima, Premio Volponi e Premio John Fante Opera Prima), edito da Mondadori, del poeta romano Daniele Mencarelli che consegna alla scrittura la propria dura esperienza di vita, un candido fiore del male che profuma di verità e sofferenza.
Come il Cristo in croce che implora gli uomini di perdonare il Padre “perché non sa quello che fa”, come Caino consapevole di essere soltanto uno strumento per la realizzazione del progetto divino – entrambi superbamente rappresentati dalla potenza visionaria di Josè Saramago – anche il giovane Daniele, stritolato dall’angoscia, inizialmente si ribella all’idea di un Dio sordo o addirittura compiacente, ma nell’eterno conflitto tra il bene e il male lascia aperto un varco salvifico. Da quelle morti di cui è tormentato spettatore nell’ospedale pediatrico del Bambino Gesù, da quei piccoli martiri incolpevoli, da quegli sguardi muti carichi di vita negata Daniele Mencarelli ha ricevuto il dono della redenzione dopo una giovinezza di eccessi autodistruttivi causati da una carica empatica devastante, dallo spontaneo istinto di reggere sulle proprie spalle tutte le croci del mondo.
Nel romanzo Daniele ha venticinque anni (tolto il velo della finzione letteraria, di se stesso in sostanza parla l’autore), ha spazzato via gli ultimi quattro con determinazione e con l’unico obiettivo di spazzare via tutti gli altri ancora da soffrire. Perché per Daniele vivere equivale a questo, soffrire passo dopo passo nella certezza di non essere malato ma semplicemente “vivo oltremisura”. Capita dunque di incespicare nelle droghe e infine nell’alcol alla ricerca permanente di uno stato di dimenticanza che appanni la percezione della propria miseria e della devastazione prodotta nella famiglia che tenta di accudirlo. I sensi di colpa nei confronti dei genitori, in particolare della madre che dorme sui gradini davanti la stanza in attesa del suo risveglio, mordono la carne ma non bastano a farlo smettere di bere, è più semplice continuare a farlo e sprofondare nuovamente nella dimenticanza. Poi un amico poeta gli procurerà un contratto di lavoro con una cooperativa che agisce nell’ospedale pediatrico del Bambino Gesù di Roma. Sarà lo snodo, il punto di svolta in un crescendo di cadute e risalite.
La consapevolezza del peso abnorme di una sensibilità acutissima vissuta come una dannazione porta l’autore alla ricerca di risposte perentorie sul destino dell’uomo e sul suo viaggio in una terra che porge le lusinghe della natura da una parte e la disperazione della solitudine dall’altra. Le risposte arriveranno proprio attraverso la capacità di sporcarsi per comprendere l’ipotesi del bene e attraverso il furto improvviso di brandelli di bellezza nel mite capolavoro del creato. E saranno risposte pregne di speranza, perché si può ricominciare a vivere dopo aver attraversato l’inferno, portando sulla pelle cicatrici e ustioni che non potranno rimarginarsi e guarire perché saranno necessarie per continuare a ricordare ciò che si è visto, ciò che si è patito. Immergersi nel dolore, percorrerlo in apnea, testimoniarlo e poi restituirlo sotto forma di poesia darà al giovane Mencarelli la seconda possibilità, quella di ripartire senza lasciarsi alle spalle gli anni tossici delle dipendenze ma facendone materia incandescente e oggetto di riflessione. E alle esperienze vissute in momenti diversi del proprio calvario Mencarelli è tornato con Tutto chiede salvezza e Sempre tornare. La salvezza agganciata alle parole come sempre avviene in chi vive e si nutre di scrittura.

Daniele Mencarelli

La prosa di Mencarelli scandaglia il proprio malessere esistenziale e la sofferenza gratuita e incomprensibile dei bambini e li osserva da vicino con immagini vivissime e laceranti, eppure ne emerge nitida e pulita e, in ogni pagina, si avvertono il cesello lessicale del poeta e il riverbero sonoro delle parole. La consuetudine con le sceneggiature traspare invece nei dialoghi con i colleghi e con i familiari nei quali subentra il dialetto per restituire atmosfere genuine e reali, battute che sembrano quasi registrare il parlato nel suo apparire sulle labbra dei personaggi.
Se la dimenticanza alcolica avrebbe dovuto condurre alla divina indifferenza, è nella lucidità riconquistata che l’autore incontra la gialla ginestra leopardiana e la oltrepassa. Nei compagni di lavoro ha scoperto l’appartenenza, il riconoscimento e la fratellanza, nelle parole di una suora una visione dell’esistere che oltrepassa il contingente, negli occhi curiosi dei bambini malati e in quelli spenti dei loro genitori la compassione. La comunione con gli altri uomini scaturisce dall’essere compagni di un viaggio di sola andata, di cui non è possibile conoscere la destinazione e la durata, sotto un cielo magnificamente azzurro per chi lo sa guardare.
Sembra la prima alba del mondo […] Appoggiato alla balaustra del belvedere, mi fermo a guardare. Ogni singola particella del cosmo sembra in armonia con quello che ha intorno, nulla stride, non c’è infelicità a perdita d’occhio: Dio si palesa così, parla dentro questi momenti, l’attimo in cui il respiro si ferma.
A chiusura una poesia inedita del 2018 dedicata a Toctoc, Alfredo, uno dei bambini dell’ospedale, morto dopo un anno di degenza, con il quale il giovane Daniele aveva intrecciato un muto dialogo fatto di gesti attraverso il vetro di demarcazione tra il mondo dei sani e quello dei malati. È uno di quegli sguardi che ha continuato a trafiggere il ricordo del poeta che infine usa le proprie parole per regalargli una pagina d’immortalità.

La casa degli sguardi
Daniele Mencarelli
Mondadori 224 pagine € 12,50

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La rappresentazione di Romana Petri

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Il ritorno della famiglia Dos Santos. “La Rappresentazione”, nuovo romanzo di Romana Petri

@Agata Motta 09/09/2021

Un tempo le rappresentazioni erano sacre, con il loro corredo di significati simbolici e di intenti didattici per la moltitudine incolta, ma già la filosofia ne aveva fatto terreno privilegiato di indagine con interpretazioni fertili e continuamente plasmabili. Ma non sono le varie accezioni filosofiche ad intrigare Romana Petri nel suo recente romanzo La rappresentazione (l’ultimo della saga portoghese che comprende il magnifico Ovunque io sia e il malinconico Pranzi di famiglia), edizione Mondadori, quanto piuttosto quegli elementi in un certo senso teatrali che si biforcano in una duplice direzione: quella della rappresentazione del sé per gli altri, con quei brandelli di certezze che fungono da argine o da approdo quando la ricerca della propria identità annaspa e si frastaglia conducendo a derive esistenziali, e quella della rappresentazione del sé per sé stessi con la creazione di un’immagine rassicurante che possa placare ansie e dubbi e contemporaneamente lenire dolori antichissimi e recenti.

Per i lettori della Petri questo romanzo è un ritorno in famiglia, la famiglia Dos Santos, già seguita e amata nei due romanzi precedenti, e un ritorno nei luoghi cari all’autrice, scorci e dettagli di un Portogallo remoto, carezzevole, fascinoso, dolce ma patinato di nostalgie. Portati via dalla morte i personaggi scomodi e bizzarri (lo schizofrenico zio Humberto e il donnaiolo nonno Manuel Ramalhete), due posti in meno da occupare negli insostenibili ed imbarazzanti pranzi di famiglia ormai ridotti all’osso, la scena è tutta per i tre fratelli – i gemelli Vasco e Joana e la sorella maggiore Rita – per il loro ingombrante padre Tiago, uomo arrogante che ama esibire la propria ascesa politica ed economica,e per la nuova acquisita Luciana Albertini, moglie di Vasco e artista vicina all’apice del successo.

Le relazioni interne della famiglia, già guastatesi con la morte di Maria do Ceu, inarrivabile madre coraggiosa e struggente del primo romanzo, si spezzano quasi del tutto dopo la mostra della Albertini in cui i membri della famiglia del marito vengono ridicolizzati e i freschi sposi sono costretti a trasferirsi nella Roma della Garbatella in cui la vorace artista va a caccia di altre aspirazioni con l’inseparabile Barabba, anziano cane quasi umano (un Osac più domestico e saggio, per i lettori de Il mio cane del Klondike) in grado di dialogare con la padrona con sguardi assai significativi e sempre complici.

Ma l’amore, più di ogni altra cosa, è esso stesso rappresentazione: come mostrarsi all’altro? Nei propri lati migliori e seducenti o in quelli più oscuri e misteriosi? E non sarebbe meglio essere sé stessi? Forse sì, ma bisognerebbe sapere con certezza chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo in futuro.

Il passato di Vasco (e in parte quello della gemella) è tutto racchiuso in un grumo corrosivo di rabbia e di rimpianto per una madre che ha fatto della cura della primogenita sfortunata Rita (nata con il volto sfigurato e costretta a subire decine di dolorosissimi interventi chirurgici) il proprio credo, fino al punto di rendere gli altri due figli invidiosi di quella deformità che assorbiva tutte le attenzioni e le energie materne; il presente è occupato da quella piccola donna geniale che è entrata nella sua vita come una folata di vento rigenerante e, in un angolino appartato della mente, dal sogno, sorgente e agonizzante, dell’apertura di una galleria di travolgente successo; il futuro è ovviamente un’incognita per tutti, ma su Vasco è semplice effettuare previsioni, perché nel pantano stagnante in cui si muove con indolenza gli unici sassi gettati ad incrinarne la superficie sono quelli di un cucciolo di gatto di cui innamorarsi perdutamente (la versione felina e giovane del vecchio Barabba su cui regnare da sovrano incontrastato) o quello costituito dalla voce da sirena della sorella gemella, amata in maniera morbosa, che lo calamita a sé con la speranza di spezzare lo scomodo legame con la moglie italiana che ha infangato la famiglia e con quella di ottenere finalmente l’attenzione e la gratitudine paterna.

L’amore, dunque, si diceva, l’amore dall’aperto sipario in cui recitare per sé stessi e per l’altro.

Così mentre la Albertini (quasi sempre chiamata per cognome dalla voce narrante in un sopravanzo di rappresentazione) indossa il suo cliché artistico con leggerezza e convinzione interpretandolo fino a farlo suonare falso e istrionico, il bellissimo Vasco dalla malconcia dentatura (che non mostra mai per non appannare la propria alta considerazione estetica) studia diversi copioni alla ricerca di un ruolo da protagonista senza trovarne nessuno adatto alle proprie esigenze di vita comoda e lussuosa a ridottissimo dispendio di energie. Il richiamo della terra d’origine è sempre più forte, come quello della gemella Joana, che ha dovuto subire l’onta del tradimento del marito (presto restituita al mittente) nonostante la perfetta bellezza, e dell’odiato padre Tiago, detto il “Dinosauro” per il suo autoritario conformismo, che possiede l’innegabile pregio di un portafoglio sempre gonfio di denaro e di carte di credito cui poter attingere dopo essersi umiliati a dovere.

Tra tutti i personaggi scolpiti dalla Petri svetta, per puntualità di analisi e capacità introspettiva, Vasco, riconducibile alla moltitudine di inetti della letteratura primonovecentesca (o, se vogliamo andare più lontano, il riferimento d’obbligo è Oblomov del russo Ivan Aleksandrovič Gončarov) fratello nel “sentire” la vita e le sue lusinghe di Mattia Pascal e parente stretto nella percezione delle proprie inadempienze di Zeno Cosini, un mix irresistibile di narcisismo e autocommiserazione in costante lotta con le schiaccianti figure del padre (ed ecco fare capolino ancora Italo Svevo e un po’ di Franz Kafka) e della moglie che rappresenta il porto materno da una parte e la fonte perenne di invidia mal repressa dall’altra.

Talvolta sembra quasi che la Albertini funzioni più come polo oppositivo del marito che come personaggio a sé stante e tutte le stravaganze compiute per “esigenze di identificazione” – calarsi nel personaggio di Teresa d’Avila, in una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij nel campo artistico, e percorrerne quasi le impronte per dipingere dei quadri sulla santa – non la rendono più autentica. E in questa direzione non aiuta neanche il proposito, ad un certo punto non più perseguibile per motivazioni superiori, di uccidere chi ha causato la morte dell’amato padre. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi punti di forza, lo sguardo candido e privo di malizia, l’amore assoluto per l’arte, l’indulgenza nei confronti del marito francamente un po’ cialtrone, la rendono quasi un’aliena, tanto che la coalizione dei Dos Santos contro di lei, che, come acutamente nota Joana, non hanno bevuto le sue “pose” artefatte ed esibite, sembra quasi un necessario (quanto immorale) atto di epurazione nei confronti del “diverso perturbante”. Ed è quasi un paradosso, perché il personaggio della Albertini ha una sua dichiarata fonte di ispirazione nell’omonima artista perugina amica dell’autrice e se da un parte ciò rende perfettamente credibili i tortuosi percorsi mentali di elaborazione dei dipinti, grazie ai quali il lettore viene risucchiato dal processo creativo, dall’altro stride l’adesione all’immagine in fondo scontata di artista un po’ matta ma geniale che si delinea senza strappi o evoluzioni. Evoluzione invece presente e ben articolata quando sotto il riflettore non è più l’artista ma la donna innamorata e poi delusa, infine pronta ad una ripartenza che contiene già in sé un’eco del perduto amore.

Superata la fase della rabbia e forte del calore ancor presente emanato dal privilegio dell’abnegazione materna, Rita invece continua a piacere e a convincere nell’affetto discreto dispensato ad una famiglia che sostanzialmente la tollera, nella gestione oculata del suo denaro, nella consapevolezza che quel poco di bene che le arriva è una concessione della vita e non un diritto, nella rinuncia a qualsiasi compenso risarcitorio nei confronti di una natura per lei tragicamente matrigna.

La limpida scrittura della Petri rende compatta la partitura narrativa che si snoda senza mai incespicare e spinge il lettore ad inoltrarsi velocemente tra le pagine. Talvolta torna su temi e motivi già esposti con piccole modulazioni, perché anche nella vita vera ciascuno possiede pensieri ricorrenti ed ossessioni che costituiscono nuclei importanti della personalità e pezzi ineliminabili di un vissuto talvolta indigesto.

A conclusione di questo lungo, avviluppante percorso nella trilogia della Petri, non ce ne vogliano gli altri personaggi, ci piace conservare la tua immagine, Maria do Ceu, che guardi e sorridi da lontano carezzando il volto martoriato della tua Rita. Ovunque tu sia.

Romana Petri
La rappresentazione
Mondadori 2021
Pagine: 408
€ 20,00

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“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

anche su Artcicolo21

https://www.articolo21.org/2020/04/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini

Lehman Trilogy

 

A iniziare dall’avventura letteraria di Stefano Massini, dalla quale Ronconi ha desunto la sua ultima regia

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Il 2008 segna il fallimento della Lehman Brothers, legato alla crisi dei mutui subprime, e avvia l’avventura letteraria di Stefano Massini, multicorde drammaturgo rappresentato con successo anche oltreoceano, che di quella catastrofe ripercorre l’affascinante storia in Qualcosa sui Lehman, edito da Mondadori. Ma come possano eventi prevalentemente economici tradursi con disinvoltura in un vortice seduttivo di calcoli numerici, di azzardi d’impresa, di teorie speculative, di giochi di borsa e quant’altro sia legato all’universo criptico degli esperti in materia è un misterioso prodigio di cui solo l’autore custodisce il segreto. Chi legge il libro può solo limitarsi a fare qualche illazione o meglio abbandonarsi al fluire della narrazione.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/05/27/agata-motta-divagazioni-sui-lehman/