“Le vie dell’Eden” di Eshkol Nevo

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Le vie dell’Eden, l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza

@Agata Motta, 03-04-2022

Scritto durante la forzata reclusione della pandemia, Le vie dell’Eden, ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza, torna alla modalità narrativa già sperimentata in Tre piani e continua la ricognizione delle presunte verità che l’uomo si racconta per non soccombere e delle colpe mai confessate che rendono sanguinosa l’esplorazione dell’Io.

Tre racconti lunghi in cui le vicende di tre personaggi, giunti ad una sorta di resa dei conti con la propria natura e con le proprie scelte, corrono su binari differenti fino a convergere per brevi istanti o in incontri casuali. Persuaso dalla felice esperienza di Tre piani, l’autore segue l’impulso di assecondarne la forza ipnotica e dirompente, ma nel farlo rinuncia all’effetto novità e smussa la solidità dell’architettura della narrazione, resa esplicita e coesa dalla palazzina borghese di Tel Aviv e dal suggerimento delle tre istanze freudiane, del precedente romanzo. Qui invece è la Bolivia, che racchiude in sé i semi della morte e della rinascita, l’esile punto di contatto delle prime due storie, mentre i loro protagonisti entrano di sguincio nel terzo racconto. Freud o comunque la tentazione psicanalitica non sono lasciati fuori dalla porta perché la confessione e la scrittura di sé restano gli strumenti privilegiati di conoscenza.

Gli accadimenti, attraversati da una moderata corrente di inquietudine, sono comunque trascinanti, perché in sostanza ciò che affascina in Nevo non è l’impalcatura che di volta in volta decide di costruire nei propri testi, ma l’indagine condotta su personaggi che si siedono davanti al tribunale della propria coscienza e che, in questo caso, sono chiamati a difendersi da accuse precise e concrete che arrivano inaspettate come frustate su corpi nudi e inermi.

Omri, un giovane musicista, alto e bello come un vichingo, si ritroverà accusato di complicità in un omicidio; il dottor Asher Caro, un anziano primario vedovo e padre di due figli, dovrà difendersi da accuse di molestie sessuali; una donna, testimone della scomparsa del marito, dovrà dimostrare di non esserne la causa.

Nessuno di loro è colpevole, ma, alla luce di quanto raccontano, neanche totalmente innocente. Bisogna dunque individuare il punto di rottura dell’equilibrio, il momento in cui si capisce che niente potrà più essere come prima e lo scavo dei personaggi apparirà di conseguenza proporzionato alla gravità delle accuse.

Omri, durante un viaggio in Bolivia che rappresenta l’esigenza di assestamento interiore dopo un divorzio che gli ha lasciato ricordi agrodolci e una figlia molto amata, vive la brusca svolta durante l’incontro casuale con una coppia in luna di miele attraverso il pericoloso coinvolgimento erotico e affettivo ottenuto dalla giovane sposa divenuta subito dopo vedova; invece il dottor Caro, per comprendere l’attrazione magnetica provata per una giovane specializzanda, deve ripercorrere a ritroso la relazione con la moglie adorata e cercare l’origine di quello che lui interpretava come istinto di protezione in un atto compiuto molti anni addietro e sepolto nella sua memoria. Allo stesso modo, la donna, rimasta sola e scombussolata ad aspettare invano il ritorno del marito scomparso durante la consueta passeggiata nei frutteti, è costretta a scoperchiare ipotetiche responsabilità delle quali rispondere anche ai propri figli.

Per tutti loro il rientro alla normalità, se tale si può definire ciò che ha subito strappi e lacerazioni, potrà avvenire a costo di dolorose rinunce e di una nuova definizione di ciò che può restituire senso alla quotidianità.

La tradizione ebraica da una parte, presente nell’ultimo episodio tramite l’allusione precisa al Pardès, il giardino dell’Eden di cui si parla nel Talmud, e le istanze di diverse generazioni in bilico tra vecchio e nuovo sono vissute con intensità da un autore molto amato che sa rovistare negli agguati e nelle strettoie di pulsioni non domabili, di giustificazioni logiche atte a tacitare i sensi di colpa, di menzogne lucide indispensabili alla sopravvivenza.

Le vie per l’Eden si mostrano con il loro carico di seducenti richiami e sembrano indicare con chiarezza la strada da percorrere, ma qual è l’Eden che i personaggi di Nevo cercano, quello verso il quale tutti gli esseri umani tendono con la speranza di potervi entrare o quello che ci si è lasciati alle spalle senza averlo riconosciuto? Accade spesso di provare rammarico per le cose a portata di mano che non sono state afferrate, per le parole non pronunciate che bruciano in gola come acido corrosivo, per le fughe del cuore che sono state percepite come bisogni insopprimibili, ma se è vero che il tempo non si srotola al contrario è anche vero che prendere coscienza di ciò che non abbiamo visto o compreso aiuta a sintonizzare mente e corpo in direzione di nuove onde emotive.

Come sempre in Nevo, le parole si poggiano semplici e chiare sulle pagine ma senza ombra di banalità, i dialoghi scorrono agili senza il virgolettato, le interrogative dirette piovono fluide senza l’urgenza delle risposte. Per esse è sufficiente la complicità del lettore che determina, tramite la propria empatica adesione, la riuscita del gioco avviato dall’autore. Gioco senza vincitori, come la vita di ogni essere umano in grado di guardarvi dentro senza inganni.

Eshkol Nevo
Le vie dell’Eden
Neri Pozza editore, Vicenza, 2022
pp. 248
€ 18,00

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“Donna sulle scale” di Bernhard Schlink

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Ritratto di donna scomparsa: esce per Neri Pozza “Donna sulle scale” di Schlink

@Agata Motta, 24-01-2022

Acclamato e blandito dalla critica che lo ha definito “un filosofo-scrittore”, Bernhard Schlink ha consegnato ai suoi lettori l’ultimo romanzo Donna sulle scale, edito da Neri Pozza.

Questa volta però l’unanime consenso che gli è stato tributato non convince e non sembra pienamente condivisibile. Sarà per la disomogeneità qualitativa o per l’infelice scelta di un argomento non certo originale o per lo snodarsi di vicende che vorrebbero creare suspence e curiosità senza però riuscire nell’intento, ma in sostanza le prime vere emozioni giungono quando la narrazione sta per concludersi.

Una profonda cesura tra un prima e un dopo rispetto all’evento centrale – la scomparsa di una donna e del quadro che la ritrae – cristallizza gli eventi come se tutta la vita che ha continuato a scorrere in mezzo fosse stata soltanto un’ampia parentesi, come se dalla risoluzione di quel giallo a lungo accantonato dipendesse la riformulazione di esistenze in qualche modo spezzate o quantomeno condizionate da quelle scomparse.

Un meccanismo narrativo che era già stato magistralmente collaudato da Schlink, con ben altri esiti, nel romanzo evento del ’95 Il lettore: anche lì esistevano un prima e un dopo, anche lì una donna scomparsa riemergeva dal passato, anche lì interrogativi che aspettavano di essere soddisfatti e il dubbio terribile di essere soltanto vittime di un errore del destino. Ma nel romanzo che ha giustamente entusiasmato la critica e dal quale Stephen Daldry ha effettuato la trasposizione cinematografica The Reader, con Kate Winslet e Ralph Fiennes, il valore aggiunto alla storia della passione di un adolescente per una donna adulta era dato da un’indagine sul periodo oscuro e psicologicamente irrisolto per il popolo tedesco dell’avvio alla normalizzazione dopo la scoperta degli orrori della Shoah.

Ancora oggi Il lettore si configura come una riflessione acuta, lucida, drammatica ed eticamente coinvolgente sulla colpa e sulla responsabilità, è la messa a nudo di azioni nefaste compiute durante la follia collettiva del nazismo, è l’analisi delle ripercussioni di quella follia sulle nuove generazioni che si sono ritrovate sulle spalle il fardello di genitori coinvolti a diverso titolo nella più grande vergogna della storia contemporanea. E poi vi giganteggia l’amore per la lettura che intacca la dura scorza della donna, affetta da un analfabetismo tenacemente nascosto che è simbolo di analfabetismo affettivo. Da questo amore giunge la spinta ad un gesto che vorrebbe essere risarcitorio nei confronti di una delle vittime sopravvissute alla strage di cui la donna si era macchiata. Prima però, nell’immobile silenzio del carcere, si era dovuto compiere il piccolo miracolo della lenta consapevolezza del male compiuto.

Forse proprio per questo, il nuovo romanzo di Schlink delude, forse è proprio da un istintivo e involontario confronto che scaturisce l’insoddisfazione.

Esili personaggi, tronfi, ciascuno a suo modo, del proprio successo professionale, tre uomini – un industriale, un artista, un avvocato – innamorati della stessa donna, si affrontano in un duello verbale e in una successione di azioni spesso moralmente discutibili. Lei invece, che dell’industriale è la giovane moglie, dell’artista la recente amante e dell’avvocato la folgorazione amorosa, si sottrae a tutti perché non vuole essere né un trofeo, né una Musa, né una principessa da salvare. E come darle torto? Restare ingabbiati in una forma che non si è scelta non è esattamente il massimo delle aspirazioni per nessuno e non può esserlo per Irene, bella, giovane e con spiccate aspirazioni ad una libertà di cui non conosce ancora il volto con precisione, ma che ha sembianze vagamente somiglianti alla ribellione.

Al centro della storia dunque un bellissimo quadro – l’autore si sarebbe ispirato ad un dipinto del ’66 di Gerhard Richter intitolato Ema (Nudo su una scala) – che ritrae l’oggetto del desiderio in posa sensuale ed enigmatica: nuda, un piede sospeso nell’atto di scendere il gradino, la testa un po’ china, lo sguardo assorto e quasi rassegnato.

Quadro che a distanza di decenni ricompare all’Art Gallery del teatro dell’Opera di Sidney come un amo gettato nel mare del tempo trascorso con la certezza di tirarlo su con grossi agguerriti pesci, perché l’idea di sanare una sconfitta è ammaliante quanto il canto di una sirena.

Il primo ad abboccare è l’avvocato, all’origine complice involontario di quella scomparsa, che è anche la voce narrante, il meno coinvolto ma il più curioso e il più fragile. L’uomo, del quale non conosceremo mai il nome ma dal quale riceveremo le più aperte confessioni, ormai vedovo e padre di figli adulti, aveva intravisto nella bella Irene la possibilità di salvezza da una vita che si prospettava perfettamente inquadrata, razionale, solida ma tristemente grigia, il fulmine a ciel sereno che avrebbe potuto aprire al fascino irresistibile del punto interrogativo alla fine di ogni giornata, la donna che avrebbe potuto amare nel modo giusto, il modo in cui le donne si aspettano di essere amate. L’uomo, che sentiva di non essere mai stato giovane, si era illuso di poter finalmente indossare la propria età per cominciare a vivere attraverso lei. Ma la vita non sempre tiene conto dei progetti e passa veloce e voltarsi indietro può significare soltanto l’impossibilità di un recupero e la piena coscienza di un rimpianto. Ambivalente sentimento che si rivelerà comune all’avvocato-narratore e agli altri due uomini, ma con una sostanziale differenza: l’avvocato attraverso il quadro cerca la donna; i suoi rivali di un tempo attraverso la donna cercano il quadro, perché tornare in pieno possesso dell’opera significa per l’industriale collezionista fermare il tempo e bloccare nella giovinezza della donna la propria e per l’artista acclamato custodire la più bella opera della propria produzione.

Inutile dire che i tentativi dell’ex marito e dell’ex amante andranno a vuoto, mentre il mesto viaggio a ritroso del narratore avrà un epilogo diverso e in qualche modo compensatorio pur nella sua brevità. Così quel futuro sognato con Irene, che diviene per qualche pagina soltanto una fantasia da raccontare, si porge come la parte più autentica del romanzo, quella che risuona della potente nostalgia e amarezza del non vissuto.

Nessuna simpatia per questi uomini bambini che tentano rabbiosi o compiacenti di impossessarsi dei loro giocattoli del cuore, nessuna simpatia neppure per Irene che però ha tentato un riscatto morale a costi altissimi, più intensa e reale da vecchia e malata che da giovane e bella. L’anziano avvocato, pedante e serio, tutto ragione e calcolo, solo al novantesimo minuto si libera dalla perfetta impalcatura che ha retto le sue scelte conformiste. Dopo aver compreso che l’amore non è solo desiderio ma anche prendersi cura della persona amata, acquista finalmente un suo spessore e solo a quel punto viene voglia di rivolgergli un sorriso.

Da tanta pervicace passione, da tanto rancore, da tanta ossessione però si sprigiona un alito freddo – caratteristica in verità comune a tanta letteratura tedesca – che produce nel lettore lo strano effetto di una fiamma alta cui si avvicini la mano lateralmente: il calore non arriva, il fuoco non riscalda. E neanche il linguaggio, piano, neutro, senza guizzi particolari, controbilancia il materiale non pregevole della narrazione che invece sa farsi diamante nei capitoli finali, quando la mano si sposta sulla fiamma fino a sentirne finalmente l’ustione.

Bernhard Schlink
Donna sulle scale
Neri Pozza editore, 2021
18,00 €

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Tre Piani di Eshkol Nevo

Reperti del dolore. ‘Tre piani’ di Eshkol Nevo, ed. Neri Pozza

@ Agata Motta (27-04-2020)                          Letteratura. Saggistica breve.

Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.

Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che  riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.

Marc Chagall (1887-1985)_Het blauwe huis

Marc Chagall, Il sogno di Giacobbe

La sua è un’altra limpida voce che giunge da Israele, dopo quelle già da tempo affermate ed apprezzate della generazione precedente – Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman – e con esse condivide la necessità di raccontare storie di disagevoli normalità con lo scavo meticoloso e asettico di un bisturi che si fa spazio dentro i labbri di una ferita infetta, ma senza alcun compiacimento, come mosso da una necessità conoscitiva che trova la sua piena realizzazione nella comunicazione con l’altro, con colui che saprà ascoltare. Già con Nostalgia, pubblicato inizialmente da Mondadori e poi da Neri Pozza, casa editrice che ha continuato a seguire tutto il percorso dell’autore, Nevo aveva raccolto grandi consensi e il successo ha accompagnato anche i lavori successivi.

Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.

Marc Chagall, Violinista verde

Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.

Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.

Talmud babilonese

Marc Chagall, Sabbath

Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.

La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.

Marc Chagall_Russian village

E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.

Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.

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“Pranzi di famiglia” di Romana Petri

Il recupero memoriale dei morti. ‘Pranzi di famiglia’ di Romana Petri, ed. Neri Pozza

L’invito a fare un bagno sulle spiagge dell’Alentejo e l’esortazione a far presto, perché di tempo ne è rimasto poco, mettono in moto il meccanismo dell’impetuoso flashback – che costituisce il romanzo quasi per intero giocato su più piani temporali – di Ovunque io sia, il primo libro della trilogia di Romana Petri.

Il dialogo su una panchina del Prìncipe Real con la richiesta di perpetuare la memoria dei morti è invece il fulcro dal quale si dipana Pranzi di famiglia, il secondo atteso romanzo di ambientazione portoghese, edito da Neri Pozza, che la Petri ha regalato ai suoi lettori. In entrambi i casi si tratta di un sogno, l’unico non luogo in cui possono avvenire gli incontri negati dalla realtà – in questo caso quello di Vasco e della madre Maria do Ceu – l’unico spazio libero in cui si intrecciano desideri che la ragione non permette di esprimere e moniti che hanno il sapore di imperativi categorici, specie se espressi dalla coscienza stranita dallo stupore per l’assenza che la morte si lascia sempre dietro come una scia infetta. Perché se è vero che una madre, ovunque si trovi dopo la morte, continuerà a camminare accanto ai suoi figli, è anche vero che affinché questo avvenga è necessario che i figli ne alimentino il ricordo, ne ricostruiscano la fisionomia, gli atti e il calore, mettendo assieme frammenti, immagini, parole, sensazioni che non possono essersi spenti semplicemente con la morte.

Semplicemente? Sì, semplicemente, perché la morte, sembra volerci suggerire la Petri, non può essere considerata un trapasso definitivo ma un trasferimento in altri mondi nei quali si può permanere solo se agganciati alla vita attraverso il ricordo. E non è necessario scomodare verità ultraterrene per avvalorare questa ipotesi se persino Foscolo aveva detto che “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” e, in questo caso, l’urna non sarebbe un solenne sepolcro all’ombra dei cipressi ma il cuore di quanti  hanno conosciuto e amato chi è andato in quell’altrove sconosciuto e misterioso che si chiama morte. Per questo Maria do Ceu, personaggio che i lettori di Ovunque io sia avranno di certo molto amato, consegna al figlio la richiesta pressante di non lasciarsi trasportare dalla deriva del dolore ma di consentirle di abitare quel mondo attraverso il recupero memoriale.
Impresa ardua per Vasco, da sempre afflitto da una strana reticenza al ricordo, che non si avvarrà del recupero attraverso le sensazioni percettive di proustiano sapore, ma ricorrerà ad un indefesso esercizio della memoria, ad una disciplina imposta a se stesso che lo condurrà a rapide illuminazioni, a date dalle quali estrarre grumi da distillare, a stanze in cui far muovere chi vi ha vissuto. Così si costringerà ad annotare su un quadernetto tutto quello che riuscirà a salvare della sua infanzia illuminata e devastata – nel violento ossimoro dettato dalle circostanze – da una madre che si è svuotata di forze e di eventuali felicità per amore dei suoi tre figli: Rita, anzitutto, nata con un volto simile ad un quadro di Picasso, alla quale ha tentato tenacemente di restituire sembianze accettabili sottoponendola a complicatissime operazioni chirurgiche, e i gemelli Vasco e Joana, entrambi bellissimi per uno strano scherzo del destino, lui fragile e irrisolto, costantemente proteso alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, lei divorata dal senso di colpa per quella bellezza che si trasforma in supplizio nella sorella deforme.

L’intimità propria dei legami familiari era stata pura e spontanea solo attraverso la mediazione della madre; dalla sua morte cessa di esistere tra i fratelli orfani di luce e di affetto incondizionato e soprattutto di quel collante necessario che era stato voluto e caparbiamente perseguito e imposto da Maria do Ceu anche nella fase terminale della sua malattia. Un ultimo disperato tentativo di lasciare in eredità l’armonia tra i suoi figli era stato compiuto attraverso un viaggio di piacere in Austria, ma dopo pochissimo tempo lo spegnersi della fiammella inesausta del suo amore aveva destinato i figli al silenzio perpetuo o almeno al mantenimento di rapporti incancreniti dalla presenza di un padre sostanzialmente estraneo, Tiago, dedito alla carriera e alla moltiplicazione a tempo indeterminato del successo professionale, del denaro, del pubblico consenso.
Tiago pensa di assolvere al suo compito paterno con i pranzi domenicali, durante i quali riunisce la famiglia. Per quietare la coscienza, si tira dietro lo schizofrenico fratello Humberto – personaggio poeticamente riuscitissimo cui la Petri dona riflessioni da filosofo incompreso – e lo pseudo suocero Manuel Ramalhete – altro personaggio baciato dalla grazia – ma lascia fuori Marta, l’ambiziosa compagna e poi moglie che ha sostituito l’infelice Maria do Ceu con una ventata di giovinezza e di alleggerimento dai problemi e con la capacità di appagare il narcisismo necessario all’uomo come l’aria.

Così la Petri decide di mettere a fuoco la famiglia dos Santos in quei residui commestibili di relazioni fasulle sopravvissute allo sfacelo affettivo, in quei pranzi domenicali nei quali si consuma il rito officiato da Tiago con lunghi monologhi, mentre gusta cibi raffinati, stappa vini pregiati, sciorina i successi ottenuti e commenta i viaggi effettuati e quelli ancora in programma. Non importa se i fedeli di quelle messe profane non gli tributano gli onori sperati, per lui è necessario tenere formalmente in vita l’idea di un nucleo familiare ancora esistente, per lui forma e sostanza possono e devono coesistere.

Lo sguardo dell’autrice è volutamente asettico, perché le emozioni devono sprigionarsi dalla materia narrata e non dal giudizio del narratore che si limita ad esporre fatti ed analizzare sentimenti lasciando cadere qua e là osservazioni di struggente bellezza e verità sui rapporti umani, sulla vita e sulla morte.
La Petri restringe inoltre il suo campo d’indagine, passa dai campi lunghi e medi di Ovunque io sia ai primi piani e ai dettagli (con un’operazione quasi speculare a quella effettuata nei quadri del personaggio chiave della pittrice Luciana Albertini) e, proprio per questa maggiore vicinanza, il racconto si fa luce che illumina angoli bui, coglie tra il non detto lo strazio dei personaggi, addita quel fastello di giorni ancora buoni che avrebbero potuto essere vissuti, quel groviglio di sentimenti autentici con i quali avrebbero potuto lenire un dolore in tutti identico e ugualmente devastante che preferiscono invece dissipare nella rinuncia. Una rinuncia che passa attraverso la rimozione di memorie scomode che potrebbero riplasmare in peggio il passato e che si fortifica nell’illusione che ci saranno altre occasioni per chiarire, altri pranzi domenicali durante i quali tirare fuori rancori sotterranei e tensioni esplosive.
La Petri lascia che la scrittura fluisca limpida anche quando potrebbe intorbidarsi, giunge a scavare laddove mancano le parole, trascina in piccoli gorghi narrativi che promettono tempesta finché il silenzio denso prende corpo in immagini, ricordi, indagini introspettive che aprono squarci su territori accidentati che il lettore può percorrere anche violando il naturale riserbo dei personaggi

L’unica a manifestare la sua cieca rabbia è Rita con i suoi furori esagerati e talvolta pretestuosi, gli altri preferiscono rimuginare malumori e mettere la sordina ai dispiaceri. Vasco e Joana recidono il rapporto esclusivo dei fratelli gemelli per accantonarlo e persino umiliarlo con la rinuncia alla confidenza e alla complicità. A cementare la loro unione era stato in passato quel continuo elemosinare il tempo e l’attenzione materna tutta concentrata sulla sofferenza di Rita, ma mentre la vita di Vasco subirà uno scossone che aprirà nuove prospettive determinando scelte di costruttiva rottura, per Joana sarà l’inizio di una caduta interminabile. La maternità che l’aveva inizialmente ubriacata di gioia, si trasforma presto nella presa d’atto di un fallimento esistenziale che passa attraverso il fallimento coniugale. Il mediocre marito che aveva scelto per autopunirsi della prestanza fisica che arrecava dolore alla sorella, come la madre aveva intuito, la mortifica con il tradimento, ma lei preferisce ingoiare, l’orgoglio le suggerisce di tacere, di non rivelare il cedimento e poi il crollo della vita agiata e promettente che pensava di condurre con lui. La discesa è talmente vertiginosa da spingerla ad accettare l’aiuto economico del padre detestato, andare in analisi e restare vittima di uno di quei transfert difettosi che non portano alla fiducia in chi deve curare le ferite dell’anima ma alla dipendenza ossessiva, alla riesumazione dei torti subiti e alle recriminazioni senz’appello. E, beffa tra le beffe, Joana sarà l’unica, infine, ad accettare la sussistenza della forma, a divenire in questo persino simile al padre, la meno amata da lui e paradossalmente la più vicina.

Nelle giornate incolori di Vasco esplode invece la vitalità contagiosa di una talentuosa pittrice italiana, Luciana Albertini (personaggio appena evocato nel romanzo precedente), un po’ più grande d’età perché il buon Edipo ci mette sempre il naso. Ad accompagnarla c’è il vecchio cane Barabba, fratello letterario di Osac, protagonista de Il mio cane del Klondike, sul quale la Petri lascia come impronta personale la consueta passione per il mondo animale indagato con la stessa delicatezza e la stessa precisione riservate all’agire all’animo degli uomini. La Albertini, medico votato all’arte come l’artista perugina quasi omonima cui il personaggio è ispirato, irrompe con le sue tele dai titoli bizzarri e i suoi colori, con il suo corpo minuto e quasi androgino, con la sua saggezza striata di follia a curare la malinconica sottrazione alla vita di Vasco e soprattutto ad osservare con la lente deformante dell’ironia quella strana famiglia in cui – come lo stesso Vasco riconosce e afferma – sembra che tutti abbiano gli aculei sulla groppa e che si tengano a distanza, capaci di conservare solo il silenzio. Sarà proprio lei a dissacrare la solennità di quei pranzi  con una mostra blasfema in cui la famiglia del suo compagno viene svelata nei suoi tratti più grotteschi e in quelle tele riemergeranno con tenerezza anche altri personaggi indelebili di Ovunque io sia come la zia Julieta, dalle gambe sottili come alghe, che aveva vissuto tutta la vita strisciando al suolo e non aveva mai smesso di sorridere. Ma il passato è in agguato, bussa alle porte finché ad aprire sarà proprio l’irascibile Rita, che tirerà fuori dall’oblio quei ricordi ostinatamente negati per riscrivere la mitologia che appartiene sempre ad ogni famiglia. Rita rinuncerà anche ad altri interventi correttivi per mantenere le sembianze del viso che la madre ha conosciuto e amato, l’accettazione di se stessa e della sua deformità è il dono più bello che possa offrirle.

Lisbona e i luoghi cari del Portogallo, altra patria elettiva della Petri, sono presenti con le loro atmosfere e i loro piatti – dal bacalhao alla carne de porco à alentejana — con quei tipi umani un po’ ombrosi in cui la scintilla della gioia si accende raramente, con la saudade, quell’intraducibile disposizione d’animo propria dei lusitani. E’ tangibile l’agio con cui l’autrice si muove su strade conosciute e modalità comunicative perfettamente note, gioca in casa e vincere la partita è fin troppo facile. Nonostante Pranzi di famiglia abbia una totale autonomia narrativa e che non sia indispensabile conoscere anche il precedente Ovunque io sia, il consiglio è quello di leggerli comunque entrambi nel loro ordine naturale, anzitutto perché si guadagna un’altra bellissima storia e poi perché personaggi come Manuel Ramalhete e la moglie Ofelia, genitori “adottivi” di Maria do Ceu e quindi nonni dei tre fratelli, sono troppo preziosi per non conoscerli interamente. Il primo, donnaiolo impenitente, tratteggiato egregiamente nella piena decadenza, è uno dei commensali dei pranzi di famiglia, vi giunge come un pietoso trofeo del passato, con il suo interminabile conteggio dei morti, con il suo pianto teatrale, con la sua falsità ammaliante, con la sua amarissima vecchiaia alla desolata casa di riposo Cruz Vermelha spacciata per privilegio; la seconda è un ricordo intermittente, una presenza incombente nonostante l’assenza, un ritratto geniale dell’Albertini. Appropriarsi del loro travagliato passato e di quello di tanti altri personaggi indimenticabili sarebbe pertanto operazione affascinante.

Pranzi di famiglia è un romanzo sulla capacità di guardarsi dentro, sulla forza del destino, sulla necessità di rompere ciò non può essere aggiustato, sulla fiducia nei cambiamenti necessari e sulla speranza da portarsi appesa al collo come un amuleto. Ed è in fondo un riconoscersi, con il proprio vuoto e i propri fallimenti, con i propri interrogativi destinati a restare senza risposte. E’ ascoltare quei silenzi intorno alle cose finite, sui quali il tempo non ci concederà più di ritornare.

Romana Petri
Pranzi di famiglia
Neri Pozza Editore, 2019
pp.414

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/05/06/il-recupero-memoriale-dei-morti-pranzi-di-famiglia-di-romana-petri-ed-neri-pozza/

 

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Intervista a Osac, il cane del Klondike

Intervista a Osac, il cane del Klondike

 

Se siete tra quelli che pensano che ai cani manchi solo la parola, non ditelo a Romana Petri, potrebbe irritarsi ed interrompere subito ogni approccio comunicativo. Per la Petri i cani la parola ce l’hanno eccome, basta semplicemente saperla ascoltare e decodificare. Nel suo ultimo romanzo Il mio cane del Klondike, edito da Neri Pozza, la Petri racconta una storia bella e semplice in cui il dialogo tra essere umano ed animale è perfettamente possibile e praticabile. Non c’è dubbio che si tratti di una storia d’amore in piena regola, con tanto di languidi sguardi, di carezze date e ricevute, di abbandono e di sofferenza, di gioia e di promesse infrante. Quella tra Osac, cane di indomita bellezza e incontenibile forza, e la sua padrona, insegnante che vive una delicata fase di passaggio della propria vicenda umana, è una burrascosa passione e la donna appare subito disposta a lasciare che le proprie giornate vengano riplasmate da una presenza caotica, terribilmente affascinante, immediatamente indispensabile. » Read more

“Le serenate del Ciclone” di Romana Petri

 

Agata MOTTA – I giorni opachi del gigante gentile (“Le serenate del Ciclone” di R. Petri) PDF Stampa E-mail
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Saggistica breve

I GIORNI OPACHI DEL GIGANTE GENTILE


Le serenate del Ciclone di Romana Petri (ed. Neri Pozza)

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Può capitare, talvolta, che certi grovigli irrisolti si addensino come una matassa gonfia e irta di nodi, che diventino indomabili e aguzzi, che reclamino attenzione e rispetto, forse anche urgenza per non trasformarsi in grumi di dolorosa attesa. E allora bisogna trovare il bandolo e con pazienza riavvolgere il gomitolo per darvi nuova forma e consistenza. L’attesa di Romana Petri è durata venticinque anni, una gestazione lentissima, una lunga notte insonne geneticamente ereditata, ma certe cose andavano dette, proprio a chi non può più ascoltarle.

Le serenate del Ciclone, ultimo romanzo della scrittrice romana, offre in copertina una foto che coagula il senso di un’operazione letteraria sicuramente difficile ma senza dubbio liberatoria e appagante: un uomo altissimo, aitante e muscoloso stringe la mano a una piccolina sorridente che sfida l’obiettivo certa di possedere un eccezionale garante per la propria incolumità. Sono padre e figlia: sono Mario e Romana. http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/11/30/agata-motta-i-giorni-opachi-del-gigante-gentile/

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III Edizione Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza: i 12 finalisti

III edizione Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza: l’annuncio dei 12 libri in gara e l’esito della Sezione Giovani

Milano, 8 giugno 2017

Ecco i dodici inediti che si contenderanno il Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza: Il fruscio dell’erba selvaggia di Emiliano Cabuche (pseudonimo), Sconosciuta straniera di Vittoria Caiazza, Figlia di molte madri di Angela Colella, Ultima Esperanza di Paolo Ferruccio Cuniberti, Mille papaveri rossi di Enzo D’Andrea, E che il lupo ci protegga di Valentina Di Cataldo, Pelleossa di Veronica Galletta, Cristiana sepoltura di Piero Malagoli, Dopo il diluvio di Leonardo Malaguti, Lux o come farla finita col passato di Eleonora Marangoni, Nella cucina del diavolo di Livio Milanesio e Raccoglievamo le more di Agata Motta.

Per la Sezione Giovani, rimangono in gara i romanzi: Figlia di molte madri di Angela Colella, E che il lupo ci protegga di Valentina Di Cataldo, Dopo il diluvio di Leonardo Malaguti e Lux o come farla finita col passato di Eleonora Marangoni. La commissione istituita dalla casa editrice Neri Pozza, in collaborazione con la FONDAZIONE PINI/CIRCOLO DEI LETTORI, li ha ritenuti meritevoli di figurare tra i 12 finalisti dell’edizione maggiore del Premio. I quattro romanzi concorrono dunque anche per la sezione principale del Premio.

Basato sul modello dei premi letterari spagnoli, ideati e organizzati direttamente da editori, il Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, promosso dalla stessa casa editrice e da Confindustria Vicenza, è dedicato a opere inedite di narrativa letteraria. Alla data conclusiva, 8 maggio 2017, sono arrivati 1304 testi. Una commissione designata dalla casa editrice ha selezionato dodici opere che da oggi saranno sottoposte al giudizio di un Comitato di Lettura composto dall’agente letterario Marco Vigevani, dagli scrittori e giornalisti Francesco Durante e Stefano Malatesta, dallo scrittore e critico letterario Silvio Perrella, dalle scrittrici Romana Petri e Sandra Petrignani, dalla editor e giornalista Laura Lepri e dal direttore editoriale Giuseppe Russo. Dalla cinquina finale, che sarà comunicata  il prossimo 12 settembre, verrà poi selezionato il vincitore che, il 15 settembre, durante la cerimonia ufficiale presso il Teatro Olimpico di Vicenza, riceverà in premio un assegno di 25 mila euro e la pubblicazione dell’opera nel catalogo della casa editrice Neri Pozza.

Nel 2015 nasce la Sezione Giovani, indetta all’interno del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza in collaborazione con la Fondazione Adolfo Pini – Circolo dei Lettori. La sezione è riservata ai partecipanti al Premio che abbiano età inferiore ai 35 anni e prevede per il vincitore la pubblicazione dell’opera da parte di NERI POZZA EDITORE. Alla data conclusiva, 8 maggio 2017, sono arrivati 215 testi in concorso per la Sezione Giovani. La selezione delle opere è avvenuta a cura del COMITATO DI LETTURA del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza in collaborazione con la FONDAZIONE PINI/CIRCOLO DEI LETTORI grazie a una giuria composta da 10 membri scelti fra i lettori (7) e gli iscritti (3) ai corsi di scrittura creativa di Laura Lepri.

In questa III edizione del Premio Neri Pozza ben quattro dei romanzi in lizza appartengono ad autori di età inferiore ai trentacinque anni. «Si sta affacciando sul panorama letterario italiano una nuova generazione di giovani scrittori capaci di produrre opere di qualità» afferma il direttore editoriale, Giuseppe Russo «Un risultato significativo, se si considera che Neri Pozza pubblicò senza esitare il manoscritto inedito di un Parise ventenne».

I quattro romanzi rimasti in concorso per la Sezione Giovani sorprendono per la complessità e la molteplicità delle tematiche affrontate:

Figlia di molte madri, in cui la giovane Elettra sfrutterà la capacità di vedere il futuro per scoprire le proprie origini e ricostruire la vita di suo padre, morto suicida come lei stessa aveva previsto; E che il lupo ci protegga, romanzo contemporaneo che vede la determinata professoressa Sandra Cienz alle prese con il difficile incarico di insegnare italiano a una classe di studenti indisciplinati in un istituto tecnico nella periferia di Milano; Dopo il diluvio, romanzo corale che, attraverso le vicende di un villaggio allagato da una pioggia torrenziale, pone a confronto la brutalità della natura e quella dell’animo umano, talvolta accecato dai più biechi istinti e Lux o come farla finita col passato, dove un protagonista alle prese con una singolare eredità, un vulcano inattivo, una sorgente d’acqua e un hotel decadente in un’isoletta del Sud Italia, troverà modo, grazie a una serie di incontri fortuiti, di affrontare il passato e fare i conti con il presente.

Tra i finalisti figurano romanzi storici come Mille papaveri rossi, aspra storia di riscatto ambientata nel secondo dopoguerra tra la Basilicata e il Belgio, dove il contadino Sabatino D’Antonio emigrerà per lavorare nelle miniere di carbone; Ultima Esperanza, in cui è raccontato l’avventuroso viaggio dello zoologo e naturalista Federico Sacco, salpato nel 1869 per esplorare il Cile e la Patagonia, e Nella cucina del diavolo, dove i fratelli ebrei Dino e Genio, deportati in Germania, riusciranno a sopravvivere all’orrore della Seconda guerra mondiale. Dino, lavorando come cameriere nel ristorante di un campo di addestramento per soldati nazisti; Genio lavorando in una fabbrica.

Opere costruite magistralmente attorno a uno o più personaggi, come Sconosciuta straniera, sulla vita del celebre scrittore Honoré de Balzac e sulla sua storia d’amore con la contessa polacca Ewelina Hanski, rapporto basato quasi esclusivamente su una fitta corrispondenza epistolare; Il fruscio dell’erba selvaggia, in cui tre diversi personaggi si alternano, sullo sfondo di una cupa Milano, in tre vicende mirabilmente collegate tra di loro, coprendo un arco temporale che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta e Raccoglievamo le more, storia della famiglia Vitale attraverso i difficili anni della Seconda guerra mondiale in Sicilia, la cui drammaticità è efficacemente resa attraverso il diario di guerra di Antonio Vitale.

Romanzi che si presentano attraverso la voce innocente e autentica dell’infanzia, come Pelleossa, che attraverso gli occhi di Paolino racconta la vita del paese di Sciacca fra il 1943 e il 1947, e Cristiana sepoltura, dove i fratelli Kayla e Lucas, rimasti soli dopo la morte del padre, devono evitare che qualcuno venga a sapere che in casa non ci sono più adulti, o perderanno la fattoria in cui hanno sempre vissuto.