“Leonora addio” di Paolo Taviani

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Le ceneri di Pirandello. In sala ‘Leonora addio’ di Paolo Taviani

@Agata Motta, 24-03-2022

Unico titolo italiano al Festival di Berlino 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, Leonora addio, ultimo lavoro di Paolo Taviani, giunge in sala in questi giorni e si porge come testamento spirituale di un uomo attento alle istanze politiche e alle trasformazioni sociali che non ha mai cessato di confrontarsi con la grande letteratura e di nutrirsene ma, questa volta, ha dovuto farlo con lo sguardo orfano di quello simbiotico del fratello Vittorio, a cui il film è dedicato.

Il ritorno a Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi, denota una scelta cosciente e un abbandono fiducioso a quello che sembra essere divenuto un nume tutelare del proprio percorso artistico e probabilmente esistenziale. Immagini d’epoca mostrano la consegna del Nobel nel ’34 e raccontano la percezione dell’amaro di cui è stata impregnata siffatta gloria. Poi, in un bianco e nero voluto come raffinata scelta estetica e valorizzato dalla bella fotografia di Paolo Carnera e Simone Zampagni che ne accentua i contrasti, Taviani racconta la grottesca vicenda del viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello e ad essa aggiunge, tramite un rapido passaggio in dissolvenza al colore, il libero adattamento della novella Il chiodo, scritta poco prima della morte dell’Autore, in cui è narrata l’atroce vicenda di un ragazzo che uccide una bambina (Pirandello si era ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Brooklyn) senza alcun motivo, spinto dall’ineluttabilità di un destino che deve compiersi. Taviani però non rinuncia ad una delle sue cifre stilistiche e costruisce invece per quell’assassino adolescente un vissuto di emigrazione dettata dal bisogno, riproponendo in tal modo tematiche sociali care e frequentate e regalando frammenti di cupa bellezza.

Il film avrebbe potuto concludersi con la realizzazione delle ultime volontà di Pirandello, il ritorno delle sue ceneri alla campagna natia, e l’aggiunta della novella potrebbe ragionevolmente apparire incongruente e forzata, ma è una sensazione che svanisce in fretta, basta ripercorrere a ritroso le immagini e cogliere le innumerevoli corrispondenze formali e la compattezza del messaggio, basta guardare ai continui contrappunti visivi e tematici all’insegna del doppio pirandelliano che creano un dialogo ininterrotto tra le varie tessere, sproporzionate e difformi, di un mosaico libero da convenzioni filmiche e da necessità diegetiche.

L’onnipotenza capricciosa del tempo, che rapido attraversa i giorni depredandoli delle quotidiane conquiste o fissandone poche ore indelebili nella memoria, si impone subito nella scena onirica in cui le assorte e desolate considerazioni del protagonista/narratore della novella Una giornata divengono quelle dell’Autore malato e allettato in una stanza/scatola di un bianco abbacinante nella quale gli arredi e la porta sembrano sospesi, come sospeso dev’essere il tempo della morte nei brevi istanti in cui se ne respira la presenza e ci si interroga su come sia possibile morire se appena ieri si era ancora giovani.

Io già vecchio? Così subito? E com’è possibile? Già finita la mia vita? Quale amarezza, quale stupore, quale percezione di ingiustizia in queste parole che dal personaggio scivolano all’Autore affinché diventino quelle del regista novantenne in un gioco di specchi che riguarda ogni essere umano.

E torna ancora il tempo, sovrano assoluto, a ricucire con andamento circolare le ultime scene del film in cui si mostra, in rapidissima successione, l’invecchiamento del ragazzo che visita ogni anno, a mantenimento di una promessa, la tomba della piccola Betty dai capellacci rossi, trafitta dal chiodo caduto “apposta” da un carro. I riferimenti all’opera di Pirandello sono così insistiti e fitti che sarebbe sterile elencarli tutti, essi sono spesso affidati a semplici inquadrature, come quelle contenenti il gioco della carriola (che torna due volte a siglare il tempo della partenza della famiglia emigrante e quello della perdizione del ragazzo) che suggeriscono l’intero universo filosofico contenuto nella novella La carriola, o disseminati in maniera bizzarra, come nel caso del falso indizio legato al titolo del film, quel Leonora addio che rimanda ad una novella del tutto assente sotto il profilo narrativo e visivo, ma riconducibile alla funzione salvifica (e foriera di morte) del teatro e del canto. La vicenda stessa della sepoltura dello scrittore si trasforma in ottima occasione narrativa che Taviani compone pirandellianamente con tocchi grotteschi e umoristici. Ne sono esempi lampanti le sequenze della processione per le vie della città con la piccola bara che contiene le ceneri di un gigante o della partita di “Tressette col morto” giocata in treno.

Ma il regista non dimentica di omaggiare anche film particolarmente amati (Paisà, LAvventura, Estate Violenta, Il bandito, L’Amore Difficile, Il sole sorge ancora, l’autocitazione di Kaos), ne prende in prestito alcuni spezzoni e li innesta nel proprio percorso narrativo per descrivere gli eventi che coprirono il tragico decennio, tra la morte e la riesumazione delle ceneri dello scrittore (1936/46), in cui la guerra e la Resistenza sconvolsero il Paese. Prendono quindi avvio le peregrinazioni del delegato del Comune di Agrigento (un persuasivo Fabrizio Ferracane dallo sguardo dolce e determinato) con le ceneri racchiuse in una cassetta: dapprima il rifiuto del superstizioso pilota americano di volare con un morto a bordo e poi il lungo viaggio in treno al quale Taviani imprime un andamento di pura poesia. Un’umanità da poco uscita dalla guerra, con i volti segnati dalla fame e dalla povertà, appena sbozzata come in certe pagine di Elio Vittorini, si mostra timida e speranzosa in un viaggio di ritorno alle proprie radici o di nuovi inizi, e persino nel ballo non ci sono sorrisi e allegria ma la semplice presenza di una vita che vuole riappropriarsi del suo monotono e tranquillizzate passo.

Che le opere di Pirandello siano state così tanto frequentate dal grande schermo è un fenomeno curioso se consideriamo che il rapporto tra lo scrittore e il cinema, com’è noto, fu piuttosto complesso e contraddittorio. Già il romanzo Si gira del 1916, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, aveva esplicitato il curioso fascino e il forte turbamento che il nuovo mezzo espressivo esercitava sullo scrittore che talvolta collaborava persino alle sceneggiature altrui o consentiva l’adattamento per lo schermo, non senza perplessità e malcontenti, di sue novelle o romanzi.  Si arrivò al paradosso nel 1930, quando dalla novella In silenzio venne liberamente tratto il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore diretto da Gennaro Righelli. Pirandello si era pubblicamente esposto in diverse occasioni con pareri trancianti sul sonoro e il suo ideale di film era stato da lui racchiuso nel concetto di “cinemelografia”, cioè una pellicola che avrebbe dovuto puntare sulla vista e sull’udito in un’unica esperienza immersiva fatta di immagini e musica.

Paolo e Vittorio Taviani

Vero è che poi tornò ancora sull’argomento esprimendosi in maniera meno rigida e più conciliante, ma è probabile che Paolo Taviani, nel tornare all’amato autore, abbia voluto avvicinarsi a quella visione puramente sensoriale, costruendo un film in cui la sceneggiatura è ridotta a ordito essenziale fatto di parole dense e ricche di impliciti, mentre il fluire lento delle immagini si compenetra delle musiche di Nicola Piovani con tenace adesione. Persino nella scena stilisticamente stridente della lite tra le due bambine, anch’essa avvenuta “apposta” come la caduta del chiodo, le parole scompaiono per lasciare il posto ad uno scontro feroce ed epico, con inquadrature fisse, oltre le quali debordano i corpi rabbiosi, o con campi lunghi che sembrano accogliere tori schiumanti nell’arena o gladiatori in attesa che l’imperatore (nel caso specifico il ragazzo assassino interpretato efficacemente da Matteo Pittiruti) ne determini la sorte.

Taviani non sembra cercare in questo film unanimi consensi, chissà quanto poco possa importargli, si limita a consegnare le proprie considerazioni sul Tempo e sulla Morte con un disordine apparente dal quale affiorano rapide intuizioni e limpide visioni. Ha accanto a sé il ricordo del fratello e il genio di un classico. Possono bastare.

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“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/