Madres paralelas di Pedro Almodovar

Madres paralelas di Almodovar: tra maternità, destino e memoria collettiva

@Agata Motta 02-11-2021

Alla maternità come conflittualità mai sanata, come forza creatrice e tornado distruttivo, come evento destinato a segnare nel bene e nel male la vita di una donna ha rivolto il suo sguardo penetrante Pedro Almodóvar che, con Madres paralelas, ha aperto la mostra del cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon-ho. Ed è una coincidenza che piace sottolineare questa della presenza dei due grandi maestri che si incrociano a Venezia, perché anche l’acclamato regista premio Oscar per Parasite aveva messo a fuoco la relazione madre-figlio – in una modulazione torbida e viscerale – nell’inquietante Madre, presentato a Cannes nel 2009 ma giunto nelle nostre sale soltanto la scorsa estate. Storie, atmosfere e recitazioni diversissime con un unico elemento comune: non c’è niente di semplice nell’essere madre, non c’è niente di normale in questo affare tutto femminile in cui l’uomo può anche non esserci.

La travolgente Penelope Cruz, che ha conquistato la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, infonde determinazione, forza e bellezza al personaggio di Janis, un’affermata fotografa quasi quarantenne, impegnata in una battaglia civile per la conservazione della memoria storica legata ad un oscuro capitolo ancora aperto della guerra civile spagnola. Una fossa comune, di cui tutti nel suo paese d’origine conoscono l’ubicazione, contiene le ossa del suo bisnonno e dei tanti altri desaparecidos catturati dai falangisti in una tragica notte di luglio. Proprio dall’uomo che le apre una prospettiva concreta per l’apertura della fossa, Arturo, seducente antropologo forense interpretato con millimetrica precisione da Israel Elejalde, Janis riceve l’inatteso dono della gravidanza che vive con grande gioia pur nella consapevolezza che la bambina non avrà un padre. Arturo, infatti, è sposato e la moglie è in chemioterapia, cosa che lo induce a non abbandonarla e a ventilare la possibilità dell’aborto a Janis. Ad affiancare senza alcun affanno la Cruz, una giovane attrice rivelazione dagli immensi occhi chiari, Milena Smit, che sintetizza con sorprendente maturità interpretativa il percorso accidentato e complesso di Ana, adolescente dallo sguardo perso e ferito da una doppia ingiuria, quella dell’indifferenza di genitori che la tollerano e la considerano un inciampo alla carriera e quella di una gravidanza che è conseguenza di eccessi alcolici e di uno sporco ricatto sessuale.

Le due donne si conoscono in ospedale ormai prossime al parto. Entrambe sono single e non hanno cercato la gravidanza, ma, mentre la prima vive il momento con entusiasmo, la seconda manifesta malessere e pentimento. E non potrebbe essere diversamente: il concepimento per Janis è stato gioioso, spontaneo e appagante, per Ana invece è stato forzato, innaturale e predatorio. Potrebbero sembrare esse stesse madre e figlia, perché Ana è assetata di quelle attenzioni che non ha mai ricevuto e Janis è lieta di fornire a quella madre/bambina ciò di cui ha bisogno. Ma il loro rapporto, che potrebbe concludersi dopo quelle poche ore di condivisione e di attesa, prenderà una direzione inattesa e conoscerà altre intese. Il destino (ma è davvero proprio soltanto il destino?) le farà incontrare ancora: uno scricciolo ferito a morte che tenta di ricominciare a vivere attraverso l’indipendenza economica e una donna matura che custodisce una menzogna insopportabile. Resteranno insieme ma come coppia, con una bambina da accudire (sì, una soltanto) e un affetto che cresce nella complicità e nella tenerezza. Le grandi bocche fameliche tanto care al regista si incontreranno per baci e parole che pretendono più di una semplice convivenza nella stessa casa, più del reciproco aiuto di due single in difficoltà organizzative.

Dopo Dolor y gloria, gioiello introspettivo e film necessario come personale percorso terapeutico, Almodóvar mantiene in Madres paralelas il rigore e la misura tanto distanti dalla sua prima cinematografia – arruffata, eccessiva e dissacrante – e conserva un equilibrio, visibile persino nelle scelte dei colori e delle ambientazioni, che giova alla pulizia del discorso narrativo e alla compiutezza di un registro registico che appare, in questa fase di maturità artistica, estremamente persuasivo.

Torna, e in questo si riconosce la consueta cifra stilistica dell’autore, l’addensarsi dei fatti, alcuni assai improbabili, quasi bizzarre forzature, che si riverbera negli accadimenti interiori di vite che continuano a scorrere tra verità sottaciute che deviano il corso degli eventi. Tutto in Almodóvar è vita concreta e pulsante, le gioie e le grandi tragedie convivono e si tengono a braccetto senza mai suggerire la rinuncia, unica vera colpa di cui non macchiarsi. Un ottimismo di fondo guida sempre la fantasia creativa del regista madrileno, una luce, che coincide con le varie declinazioni dell’amore, che sorregge e orienta personaggi feriti che non vogliono rassegnarsi a sopravvivere. Succedono molte cose in Madres paralelas dopo l’apparente quiete del primo tempo, ma persino gli accostamenti più inverosimili (una su un milione la probabilità di morte in culla, una su chissà quante quella dello scambio di neonati in ospedale) nelle sue sceneggiature sembrano disinvolti e naturali. Fatti, dunque, fatti assai personali che incontrano fisicamente la storia collettiva nella bellissima sequenza finale in cui un piccolo corteo, di impianto pittorico, porge omaggio alle ossa dei propri antenati, ossa che, in una breve, folgorante visione ridiventano gli uomini di un tempo. Si è figli di una donna, sempre, e si è figli della propria terra, sempre. Un unico grembo partorisce le piccole storie degli individui e la grande storia delle nazioni.

Tornano i luoghi del cuore, la città con i suoi ritmi frenetici e il paese con i suoi tempi dilatati e sospesi, come in Dolor y gloria, e sembra quasi che Almodóvar voglia riprendere un discorso non concluso per dilatarne i confini, per passare dal particolare all’universale, dal dettaglio della propria vicenda personale al campo lungo della storia e dei conti irrisolti con il franchismo e con il debito contratto con i desaparecidos. E in questo passaggio si inserisce la tematica della differenza generazionale che determinerà una grande frattura emotiva tra le donne quando Ana mostrerà disinteresse per eventi lontani da cui non si sente minimamente sfiorata. Ma Ana appartiene appunto alla generazione della memoria informatica a breve termine, del sesso che può assumere le sembianze mostruose del revenge porn, della coscienza sociale che latita se non alimentata.

Tornano gli spazi concessi al teatro, luogo per eccellenza di verità e finzione, e i lunghi monologhi incastonati come gemme nella sceneggiatura che apre un varco al palcoscenico e alla riflessione sul mestiere dell’attore. Qui è la splendida Aitana Sánchez-Gijón, la madre attrice di Ana, a bucare lo schermo, sia quando irrompe nella stanza d’ospedale per annunciare il successo di un provino prima ancora di informarsi della salute della partoriente sia quando esprime la sua vera essenza – piacere a tutti – nel magnetico primo piano che conduce all’ascolto di quel provino che attinge alla magia di García Lorca. Eccola la madre senza istinto materno, una sorta di anti-madre che sceglie la carriera ma che avverte la lacerazione della sua scelta e la condanna negli occhi della figlia. Si può essere madri senza entusiasmo, quasi per dovere e anche questa è una forma di tragedia, perché copione vuole che una madre sia felice di esserlo, a qualsiasi costo.

Tornano i volti di attrici care al regista: Julieta Serrano, come in Dolor y gloria in una breve ma vibrante interpretazione, è una donna ormai vecchia e vicina alla morte che desidera riappacificarsi con il proprio passato di figlia di uno scomparso; Rossy de Palma è la donna in carriera che procura a Janis i servizi fotografici da effettuare ma è anche l’amica del cuore, tanto vicina e coinvolta da suscitare la gelosia di Ana.

Torna a brillare l’universo femminile per il desiderio di indipendenza, per la capacità di lottare, per la predisposizione alla comprensione, e in esso si inserisce la limpida figura di Armando, che si avvicina alla realtà di puro istinto, che spiana lentamente il suo futuro in modo propositivo e, secondo la sua logica, leale.

Sulle vorticose esistenze dei suoi personaggi, che convivono con le proprie colpe e i propri dilemmi morali, Almodóvar non posa mai uno sguardo indagatore e snuda le coscienze senza mai giudicare perché esistono sempre delle valide motivazioni alla base di gesti, parole, scelte. E se anche non esistessero, il regista si limiterebbe a guardare e a riprendere la vita che gli scorre accanto.

Sui resti identificati dei desaparecidos e sul volto inconsapevole di una bambina si posa l’amore, l’unica vera cerniera tra il passato e il presente, l’unica soluzione onnicomprensiva ai capricci della vita.

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anche su Articolo21

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“Dolor y gloria” di P. Almodovar

Cinema. Saggistica breve. Festival

Impedimenti del corpo e ‘deseo’ creativo. ‘Dolor y Gloria’ di Pedro Almodóvar, Premio miglior interpretazione maschile Cannes 2019 ad Antonio Banderas

di Agata Motta 30-05-2019

Un uomo immerso totalmente in piscina, il silenzio rarefatto dell’ambiente vuoto, il dettaglio di una lunga cicatrice sulla schiena che è già un anticipo di programma. Poi l’acqua terapeutica si trasforma nel liquido amniotico di un’infanzia felice trascorsa accanto ad una madre dall’energia contagiosa e in quella delle lenzuola strizzate e stese al sole sui cespugli. Presente e passato si tendono la mano, come in tutti i film introspettivi, quelli in cui si cercano le risposte dell’oggi nelle domande di ieri.

Antonio Banderas è Salvador Mallo, un regista osannato in crisi creativa, alias Pedro Almodóvar. E’ da questo spontaneo e voluto processo di identificazione che trae origine il percorso necessario ad una piena comprensione di Dolor y gloria, ultimo film, presentato al Festival di Cannes 2019, del prolifico autore cult spagnolo, che ha affidato a questa pellicola/confessione una delle sue prove più alte e misurate.

All’attore prediletto dal regista negli anni Ottanta (da Labirinto di passioni a Légami) poi passato alle grandi produzioni americane e internazionali (Philadelphia, D’amore e d’ombra, Intervista col vampiro, Desperado, Two Much, Evita, La maschera di Zorro, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo!) e poi tornato ad occupare un posto privilegiato nel cuore e nella filmografia di Almodóvar con La pelle che abito e Gli amanti passeggeri, ad Antonio Banderas, insomma, ancora splendido pur nell’incipiente senilità, è andato il Premio per la Migliore interpretazione maschile; il suo è un ruolo assorto e malinconico, tutto giocato sul piano delicatissimo delle sfumature (non sempre perfettamente restituite in fase di doppiaggio), sul lavoro effettuato sul corpo, da sempre privilegiato oggetto d’indagine per il regista che questa volta però sceglie un punto d’osservazione inconsueto. Non si tratta più dei corpi trasformati dei transessuali né di quelli ricostruiti (come in Tutto su mia madre o La pelle che abito, giusto per citare alcuni dei titoli più noti), l’attenzione adesso è rivolta al proprio corpo mal funzionante, un corpo rivelato attraverso raffiche di refertazioni mediche e immagini radiodiagnostiche che ne mostrano i meccanismi interni alterati in un turbinio quasi voluttuoso di malattie accuratamente elencate e descritte nella loro sintomatologia dolorosa.

Si fa presto a dire “dolore”, tutti lo conoscono e lo hanno provato almeno qualche volta, ma esiste una forma di dolore, quello cronico, che si installa dentro il corpo in permanenza come un parassita o un ospite sgradito, che rosica ogni pulsione vitalistica, che imprime una direzione obbligatoria alle scelte individuali, che strema nella consapevolezza dell’incompiuto, che terrorizza nella proiezione di se stessi in un futuro in cui non sarà più possibile continuare a svolgere le attività che si amano e che aiutano a sentirsi vivi, perché la partita si giocherà con la capacità di convivere con esso. Almodóvar lo descrive con la lucidità dettata dalla conoscenza diretta e ad esso attribuisce parte della sua crisi “creativa”, che è appunto la crisi di Salvador Mallo che, a sua volta, è il personaggio della rinascita di Banderas come attore finalmente restituito come merita ai grandi ruoli che segnano la carriera.

Il regista si lascia alle spalle le accattivanti trame scabrose e grottesche e le opulenze narrative che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione. Dolor y gloria è un film essenziale e, proprio per questo preciso intento di condensazione tematica e prosciugamento verbale, estremamente struggente, un sussurro straziante sui due aspetti solo apparentemente antitetici della vita di un artista: il dolore, fisico e interiore, e la gloria, disperatamente cercata anche quando si pensa di poterne fare a meno. Alla domanda su cosa possa fare un regista se non scrive e non gira Mallo risponde “vivere”, ma è una bugia clamorosa alla quale nessuno crede, né l’autore né gli spettatori, già il nostro Pirandello ci aveva confidato che “la vita o si scrive o si vive” e la sostanza delle cose non è affatto cambiata. La necessità di continuare a svolgere un lavoro molto fisico come quello del regista, in netto conflitto con le bizze di un corpo dolorante, non è messa in dubbio neanche quando la parola vorrebbe negarla per creare illusioni consolatorie.

E infatti sul dolore e su quanto esso possa dettare la sua legge a chi vi si trova sottomesso ruota il plot, apparentemente molto semplice e lineare. Sono semplici e magnetici persino i titoli d’apertura, incastonati dentro una cornice di disegni astratti computerizzati che fluiscono in cangianti e accesi cromatismi, ma si tratta di una semplicità che non coincide affatto con la povertà inventiva. Almodóvar non può fare a meno di sorprendere sempre e comunque anche quando l’impronta generale appare squisitamente posata ed equilibrata.

Sulla gloria ad Almodóvar non importa indugiare, essa è tanto ingombrante e comprimaria nel titolo quanto tacitamente assodata nel film, è una grossa fetta d’esistenza sulla quale è inutile soffermarsi se non nella riesumazione della fase iniziale di una carriera in continua ascesa che fornisce il pretesto alla narrazione: la proiezione di un vecchio film restaurato, Sabor, durante la quale dovrebbero presentarsi il regista e il protagonista Alberto Crespo (nell’efficace, brusca e sofferta interpretazione di Asier Etxeandìa) che, dai tempi delle riprese, non si sono più visti né parlati. Dopo una fase di paludoso stallo, il protagonista riemergerà alla vita grazie ad una serie di piccoli eventi che riannodano la corda tesa dei ricordi, tra i quali giganteggia l’anziana madre interpretata da Julieta Serrano, attrice icona di Almodóvar, che si porge con scanzonata e tenera serietà, aggrappata alla coroncina del Rosario e alle sue ataviche certezze, a dare ulteriore spessore al personaggio che, nei flashback, appartiene all’altra icona del regista spagnolo, Penélope Cruz. Il senso di colpa di Mallo per averla delusa nelle sue aspettative è sempre in agguato, specie per non aver potuto mantenere fede alla promessa di farla morire nel paese amato, e ad esso, forse, nella realtà si aggiunge quello dell’uomo Almodóvar per aver parlato di lei al grande pubblico pur sapendo che ciò non le sarebbe piaciuto.

La riconciliazione con Alberto, tramite il dono di un monologo teatrale autobiografico, La dipendenza, trascina nel territorio ancora immacolato dell’incanto del cinema avvertito come luogo di ogni possibilità e di ogni sogno, porta dentro la magia dei film proiettati sul muro bianco sotto il quale i ragazzini urinavano, con una manovra che ricorda l’analogo incanto del bambino Totò di Nuovo Cinema Paradiso, film di Giuseppe Tornatore con il quale Dolor y gloria condivide il tema del “ritorno” del regista ormai affermato – fisico o memoriale non importa – ai luoghi e alle passioni dell’infanzia. In quel monologo, che per Alberto Crespo diventa arma di riscatto professionale, è contenuta anche la doppia dipendenza, dalla scrittura e dalla droga, dei due giovani amanti che ne sono protagonisti, Salvador e Federico, quest’ultimo interpretato da un Leonardo Sbaraglia che dona il giusto mix di timidezza e determinazione al suo fragile personaggio. Ma all’antico amante Federico, ritrovato proprio grazie a quello spettacolo in cui si riconosce, Mallo nega, con la saggezza della maturità, un nostalgico rapporto sessuale. Intanto, complice l’affettuoso interesse dell’assistente Mercedes (Nora Navas nel ruolo indovinato e calzante della chioccia accudente), maturano in Mallo le decisioni che potrebbero rimettere ordine e speranza nella sua paralisi esistenziale: affidarsi ad un centro di terapia del dolore per liberarsi dall’eroina, utilizzata a scopi antalgici, cui l’aveva appena iniziato con un pizzico di astiosa e forse vendicativa noncuranza Alberto, e sottoporsi ad un intervento chirurgico per risolvere la disfagia, uno dei tanti supplizi quotidiani.

Il linguaggio cinematografico è terso e pulito senza alcuna prodigiosa ostentazione nei movimenti di macchina, le inquadrature sono prevalentemente statiche – alcune proprio teatrali – e girate in interni con uno sguardo intimo e privilegiato alla casa del protagonista, che è una ricostruzione di quella dell’autore, un piccolo museo consacrato alla bellezza da godere in solitudine.

La Madrid mostrata in brevi sequenze è quella delle strade dello spaccio, mentre la poesia e l’incanto negati alla capitale sono regalati a Paterna, luogo di un’infanzia poverissima e mitica in cui si schiudono la passione per lo studio, forzatamente condotto in collegio (inevitabile l’accostamento a La mala educaciòn e al carico di livore da sempre manifestato nei confronti di un cattolicesimo bigotto e limitante) e il sorgere del primo desiderio, legato ad Eduardo, il giovane imbianchino con una spiccata inclinazione per la pittura che gli schiude inconsapevolmente l’orizzonte dell’omosessualità.

Con una leggera forzatura potremmo dire che la stanchezza che pervade lo sguardo del protagonista diventa quasi una cifra stilistica e si posa su oggetti e persone, sui movimenti rallentati e ingoffiti dai malanni, sulle percezioni dilatate dall’eroina, sul presente che ha subìto una battuta d’arresto contrapposto all’esuberanza di un passato che emerge a ondate riportandolo all’infanzia illuminata dalla prorompente e mai scalfita vitalità della giovane madre, una Penélope Cruz in cui la bellezza è solo un dettaglio, e nemmeno il più significativo, tra le tante doti espressive.

Ma ecco che questi flashback, che si portano dentro la necessità della riappropriazione del passato per ottenere la pacificazione con il presente, diventano qualcos’altro, ecco che l’apparente semplicità narrativa cui si accennava, con un rapido guizzo, si sostanzia di un espediente tecnico, a sua volta semplice, che riporta al set, quello addomesticato e intimo della rinascita artistica e umana che prelude ad altra gloria, quello de El primero deseo, divenuto film nel film (El Deseo è guarda caso anche il nome della casa di produzione), e dell’infanzia magica in cui tutto era ancora da compiere e da immaginare.

Non ci dice nulla di nuovo Almodóvar nel rivelare che la sua salvezza è stata determinata dal cinema e che nel cinema – nel suo complesso processo di creazione fatto di scrittura e di riprese – ha trovato il suo dio e la sua forza. Si limita insomma a ribadire il concetto (sarà un caso che il suo protagonista si chiami Salvador?), quasi per ricordarlo a se stesso, perché in fondo questo è il destino di tutti gli artisti. Ecco perché questo film, probabilmente, non riceverà unanimi consensi, bisogna sentirlo sulla propria pelle per assorbirne ogni immagine e ogni parola, bisogna essere dolenti e creativi, anche senza essere stati baciati dalla perfida gloria.

Per chi ha amato l’Almodóvar degli eccessi e della provocazione, sarà comunque singolare e piacevole constatare come si possa sostanzialmente restare fedeli a se stessi pur nella declinazione di nuclei tematici e accenti stilistici pacati e introspettivi. Mutare pelle più volte pur restando riconoscibilissimi, anche questo, in fondo, fa parte della grandezza di un autore.

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