“Agata del vento” di Francesca Maccani

“Agata del vento” di Francesca Maccani

@ Agata Motta, 13 ottobre 2024

Un’isola incantevole e una bellissima ragazza sono le protagoniste di Agata del vento, l’ultimo romanzo di Francesca Maccani, edito da Rizzoli e ambientato all’inizio del secolo scorso. Lipari ventosa e aspra si materializza subito agli occhi del lettore con il suo mare che conforta e infuria, con la povera gente che fatica per portare a casa il necessario, con il suo piccolo mondo arcaico in cui tradizioni e credenze si intrecciano senza stupori o ricerche di spiegazioni razionali.

Nata sulla spiaggia e marchiata sulla pelle da un segno che si rivelerà un destino ineludibile, la giovanissima Agata cresce laboriosa e onesta tra pesca notturna e lavoro diurno nei campi, indipendente e fiera come le altre donne dell’isola, assai diverse da altri contesti dell’epoca segnati da passive accettazioni. E sorprende come in luoghi così isolati la funzione sociale delle donne sia stata tanto forte e definita, non confinata esclusivamente alla cura della casa e dei figli, come se il lavoro sulle barche in mare e sui campi da coltivare venisse svolto non solo come contributo alle necessità familiari ma anche come opportunità di autodeterminazione.

La famiglia, come tante all’epoca, è stata sconvolta dal massiccio fenomeno dell’emigrazione che ha portato via l’amato padre alla ricerca di fortuna in America, e la madre, inacidita dall’abbandono e da una colpa antica che la consuma, nulla concede ad Agata se non un’attenzione vessatoria e sgarbata. Gli unici punti saldi di riferimento sono il fratello Rosario, perché il maggiore, Salvatore, è troppo occupato nel suo ruolo di capo famiglia e di custode della virtù della sorella in sboccio, e la Za’ Teresa, la levatrice e majara che l’ha accolta quando è venuta al mondo.

Nella notte del suo quindicesimo compleanno qualcosa di inaudito e misterioso sconvolge l’esistenza della ragazza e inquina le sue certezze: Agata riceve il dono del vento, rarissima capacità di curare malattie e dominare gli elementi concessa solo a coloro che sono stati “pigghiati da Eolo”; dono che può essere tramandato alle generazioni successive. L’amorevole nonna di Agata, Minica, morta quando lei era ancora bambina, era solo una delle tante donne guaritrici che agivano sui malanni lievi attraverso ‘raziuni, formule da mandare a memoria e da recitare accanto all’infermo di turno, ma non aveva il dono del vento, quindi la ragazza non ha potuto ereditarlo da lei. Agata sarà sconvolta dall’evento e tenterà di mettere a servizio degli altri quel dono che sull’isola possiede anche lo spigoloso Zu’ Bastiano, restìo ad accogliere la richiesta di chiarimenti della confusa ragazza.

Cosa si fa se ci si accorge di avere un potere immenso che può modificare le vite altrui? Sembrerebbe un privilegio invece può rivelarsi una condizione scomoda e non richiesta, un cruccio insistente, un’insidia da tenere a bada, una virtù che sconfina nella stregoneria e che pertanto può insospettire i potenti e gli uomini di scienza.

Le giornate di Agata cominceranno dunque a svolgersi sul doppio binario del segreto e della disponibilità all’aiuto, ma l’amore giunge a sparigliare le carte, a mettere a tacere il sofferto dono per spalancare le porte alla passione e poi al disinganno.

Un indiscutibile elemento di fascino nella narrativa della Maccani è costituito dalla scelta di argomenti e tematiche inusuali che affondano le radici in una realtà indagata e ricostruita con l’ausilio di fonti pazientemente consultate. Preziosi in tal senso i testi dell’antropologa Macrina Marilena Maffei (autrice di riferimento anche per Evelina Santangelo che ne fa esplicito riferimento nel suo Il sentimento del mare), una vera e propria bussola per chi voglia orientarsi in quei luoghi; testi che l’immaginazione dell’autrice feconda attraverso la costruzione di personaggi di esatta consistenza e meccaniche seduttive nella manipolazione dell’intreccio.

Di forte interesse storico e ben inserita nel contesto la descrizione delle condizioni di vita dei “coatti”, malfattori o semplicemente personaggi scomodi, relegati in condizioni disumane sull’isola, ma lo sguardo dell’autrice ne segue in particolare soltanto uno, importante per certi snodi della vicenda familiare. Anche la cronaca trova spazio tra le pagine con un femminicidio, realmente avvenuto nel 1904 e testimoniato dalle fonti dell’epoca, che, più delle disillusioni amorose e delle rivelazioni sulle proprie origini, spingerà Agata a scelte definitive e potenzialmente risarcitorie.

L’autrice si ispira ad una storia vera piegandola alle proprie necessità narrative, non giudica e non commenta, lascia che i suoi attanti si svelino da soli soprattutto attraverso i gesti e le azioni, mentre i dialoghi, asciutti ed essenziali, aderiscono a personaggi del popolo che non potrebbero indugiare, per assenza di strumenti culturali, su discorsi articolati e complessi.

In Agata del vento ritroviamo alcune costanti ideologiche e stilistiche dell’autrice già presenti nel precedente Le donne dell’Acquasanta, come l’attenzione per la condizione femminile e la cura particolare riservata alle sequenze descrittive atte a creare atmosfere credibili e palpabili con efficaci metafore di grande delicatezza, mentre viene ridotto al minimo indispensabile per la restituzione del colore locale l’uso del dialetto, “semplificato e misto all’italiano”, come precisa la stessa Maccani nelle note finali, per renderlo comprensibile anche ai non siciliani.

Sincera e pertanto ben focalizzata l’attenzione riservata a quegli aspetti magici e ancestrali per i quali la gente era portata a provare un misto di invidia e di ammirazione e a nutrire il rispetto dovuto all’irrazionale che irrompe nel quotidiano, a ciò che la mente non può comprendere ma intuire. Solo chi appartiene alle vecchie generazioni cresciute nei piccoli paesi ricorda rituali e formule che alcuni anziani praticavano con spontanea innocenza e che davano conforto al cuore più che al corpo, superstizioni che oggi farebbero storcere il naso ma che rappresentano invece un patrimonio collettivo destinato a disperdersi. Ben vengano quindi i testi che ne riaccendono la memoria e il complesso valore sociale e antropologico.

Agata del vento

di Francesca Maccani

Rizzoli editore

17.00 €

pp.302

https://www.scriptandbooks.it/2024/10/12/agata-del-vento-di-francesca-maccani/

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“Cuore nero” di Silvia Avallone

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La nuova lucentezza dei dannati. “Cuore nero” di Silvia Avallone per Rizzoli Edizioni

@ Agata Motta, 14 maggio 2024

Un uomo elegante e una giovane donna dai capelli rossi e scarmigliati percorrono un sentiero in salita. Si sente la fatica, il fiato grosso, i muscoli dolenti ma si avvertono anzitutto la determinazione, l’imbarazzo, il bisogno di arrivare, l’altalena di avvicinamenti e prese di distanza, perché la confidenza che dovrebbe esistere tra padre e figlia è stata alterata da quindici anni di reclusione durante i quali lei ha scontato una pena per una colpa grave e irredimibile.

Silvia Avallone in Cuore nero, edito da Rizzoli, mostra subito Emilia, la protagonista di questa bellissima e trascinante storia, nei suoi guasti e nelle sue asprezze. La vediamo muoversi come un animale braccato, spinta dalla necessità di approdare ad un altro nascondiglio, Sassaia, luogo della sua infanzia ormai quasi disabitato, nel quale continuare ad esistere dopo l’uscita dal carcere. Di esistere nonostante il male fatto, che non si è ridotto di intensità durante il periodo detentivo e che le cammina accanto come un’ombra e tracima nel sangue che sgorga dai tagli che si pratica sulle braccia quando il dolore è insopportabile. Suo padre, architetto affermato, innocente e già straziato dalla perdita della moglie, l’ha guidata a distanza come Virgilio attraverso l’Inferno, ma il viaggio negli inferi di Emilia non è stato voluto dalla grazia divina e lei non sembra destinata a riveder le stelle. Le sue sono fiamme interiori che lambiscono l’anima più che il corpo, dalla colpa non si viene fuori se non a patto di nominarla e di accettarla senza negazioni o rimozioni, ma questo processo è bloccato, inceppato nella convinzione che solo tacendo il male esso possa respirare quieto in angolo di cuore, quasi inoffensivo eppure pronto a divampare alla minima sollecitazione.

A raccontare di Emilia è Bruno, altro sepolto vivo di Sassaia, rimasto orfano da bambino per un tragico incidente in funivia dal quale lui e la sorella si salvano per uno assurdo scherzo del destino. La sua vita è irrimediabilmente segnata da una doppia assenza che non è riuscito mai ad elaborare e solo il lavoro con i pochissimi alunni del borgo più vicino riesce ad impartire un ordine alle sue giornate e sbiaditi colori alla solitudine eletta a fedele compagna.

La voce narrante di Bruno accompagna il lettore creando una specie di complicità, perché la sua ricerca della verità sul passato di Emilia (che lui racconta da spettatore partecipe o, come l’autrice precisa in più punti, dopo averla da lei appresa) coincide con la sete di sapere di chi legge, mentre si fanno strada il bisogno di esplorazione dei suoi sentimenti, risvegliatisi dopo un lungo, voluttuoso torpore, e una timida consapevolezza di sé e di quanto del proprio passato possa ancora essere recuperato, come il rapporto sbilenco e usurato con la sorella. Lui non ha colpe, ha subìto un danno, ha sofferto senza aver provocato sofferenza; è naturale affezionarsi alla sua mitezza, al suo candore, alla sua capacità di abbandonarsi ad un sentimento nuovo e travolgente senza desiderare in cambio nient’altro che la verità; è facile apprezzare il suo sacrificio, cioè la rinuncia a sapere, se fare luce sul buio di quella creatura selvatica e spigolosa che la pietrosa Sassaia gli ha donato può comportarne l’allontanamento.

Scaturiscono pian piano, tra continui slittamenti temporali, i tanti elementi presenti nel romanzo, scritto con un linguaggio crudo, talvolta sporcato da un lessico rabbioso e volgare, che sa anche costruire periodi dolci come carezze, inserire dialoghi spontanei e densi e indugiare su pensieri che restano in mente con la potenza degli aforismi.

Ed ecco la dislessia, che da una parte condanna Emilia a comprendere il mondo prevalentemente per immagini e dall’altra le offre la possibilità di ricostruirsi come essere umano proprio per mezzo dell’amore per quelle immagini, amore che passa attraverso l’arte del restauro (bellissima la figura del vecchio pittore Basilio, che le farà da mentore in questo percorso pur conoscendo la verità), metafora intensa per chi deve riportare alla luce ciò che resta di un tempo puro che fu e che non può essere più nemmeno ricordato o concepito. Ridare lucentezza e vita ai dannati del giudizio universale, averli “aiutati a riemergere dal nerofumo in tutta la loro sgargiante disperazione” si configura quindi come un beffardo contrappasso per chi ha conosciuto il male e la condanna.

Ecco l’amicizia tra sbandate (intensa e conturbante la figura di Marta, la capobranco indiscussa che dispensa crudeltà e dedizione), giovanissime donne considerate la feccia della terra eppure piene di pulsioni, di desideri, di sogni che non sanno nemmeno di possedere o che considerano un lusso immeritato perché la colpa ha divorato tutto, anche la possibilità di creare nella mente quelle illusioni così care e così necessarie al cuore.

Ecco i genitori di Bruno, assenti nella storia ma presenti nelle ferite infette lasciate in eredità al figlio bambino, ed ecco il padre di Emilia, sempre presente anche quando incalza la bufera, quando è chiaro che non serve coprirsi, perché si è sempre esposti e nudi di fronte alla cattiveria della gente e di fronte al dolore irreparabile di una figlia che ha distrutto se stessa e un’altra giovane vita.

Ecco la descrizione della condizione carceraria e i timidi tentativi della burbera ma illuminata direttrice pronta a comprendere che solo un percorso scolastico e l’accostamento alla cultura possono trasformare l’immobile disperazione in fiduciosa attesa e possono divenire possibilità concreta di riscatto e di reinserimento sociale. E poi l’assistente sociale e la psichiatra, figure chiave, veri e propri grimaldelli che, se usati con cuore e professionalità, possono scardinare le chiusure autodistruttive.

Infine l’amore incondizionato, quello interrotto, quello accarezzato, quello vissuto. L’amore che tutto ripara anche quando non ricompone i cocci delle vite infrante, ma si limita a raccattarli affinché messi accanto possano riconoscersi e avvicinarsi.

Forte dell’esperienza vissuta all’Istituto penale minorile maschile di Bologna, dove ha condotto laboratori di lettura e di scrittura, Silvia Avallone consegna un romanzo bellissimo dallo stile perfetto, pregno di dolore e di speranza, senza dispensare giudizi morali e senza scivolare in facili sentimentalismi. Dopo averlo letto siamo portati quasi spontaneamente a pensare che davvero dal male possa nascere il bene e magari ad illuderci che ciò non accada solo nei romanzi.

Silvia Avallone
Cuore nero
Rizzoli editore
pp.370
20,00

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Le donne dell’Acquasanta di Francesca Maccani

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Sopraffazione e riscatto ne “Le donne dell’Acquasanta” di Francesca Maccani, edito da Rizzoli

@ Agata Motta, 23-09-2022

Manifattura Tabacchi di Palermo

Una folgorante visita alla Manifattura Tabacchi di Palermo durante la manifestazione “Le vie dei tesori” e in Francesca Maccani, autrice di origine trentina ma ormai da tempo palermitana d’adozione, si accende la scintilla che porterà alla stesura del romanzo Le donne dell’Acquasanta, edito da Rizzoli. Giovani donne chine sui tavoli da lavoro a confezionare sigari bussano alla sua fantasia come personaggi in cerca d’autore, come voci che chiedono di dare corpo e sostanza a vicende dimenticate che hanno attraversato un secolo morente e una città in piena rinascita.
L’anno è il 1897, il ricordo dei fasci siciliani è ancora vivo e l’onda lunga che ha prodotto non si è fermata. Il luogo è la Palermo opulenta dei Florio, degli Ingham, dei Whitaker e degli industriosi imprenditori, della fioritura delle manifatture e delle attività commerciali che fervono facendo da contraltare alla sterile inattività di aristocratici fedeli alla nobile arte dell’ozio, ma è anche la Palermo dei pescatori e della povera gente che si arrabatta per portare in tavola qualcosa, delle ragazze che camminano a piedi nudi e guardano sognanti le signore ingioiellate a passeggio. Sontuosi palazzi, umili dimore, scorci di mare e i rumorosi e umidi locali della manifattura sono lo scenario di una narrazione limpida che sussurra storie di amicizia e di amore che non esauriscono in queste tematiche la loro ragion d’essere, perché l’opera è anche un’indagine rigorosa, ben supportata dalle fonti consultate, di una realtà sociale fatta di soprusi, privazioni, rassegnazione e bisogno di riscatto che vede le donne messe ai margini, incistate in ruoli che hanno il sentore della condanna e dell’ineluttabilità.

Franca e Rosa sono due tabacchine, lavorano e contribuiscono al mantenimento delle loro famiglie. Questo le colloca già su un piano diverso rispetto alle loro madri, sono quasi privilegiate nonostante le mortificazioni e le vessazioni che sono costrette ad ingoiare dai loro capi, uomini, ovviamente, perché soltanto agli uomini (siano essi datori di lavoro, mariti o padri) è permesso comandare e manovrare la vita delle donne. Sono diverse sia fisicamente che come temperamento, e pertanto complementari, ma sanno di possedere il dono prezioso della complicità e della reciproca comprensione.
Rosa vorrebbe sposarsi e mettere su famiglia, non ha una visione negativa dell’universo maschile, pensa che non si debba fare di tutta l’erba un fascio e che anche negli uomini possano albergare sensibilità e amore sincero. Franca non ne è convinta, vede le sue compagne salire sulle carrozze di signori viziosi per consegnarsi alle loro voglie per pochi soldi, è importunata per la sua fresca bellezza, sa che può capitare la disgrazia di un marito ubriaco e violento. Il suo obiettivo diventa allora quello di rendere più vivibili le condizioni lavorative delle sue compagne, specie quelle delle giovani madri, costrette a lavorare con i neonati aggrappati alle spalle e a subire le pressioni dei sorveglianti affinché non abbassino il loro livello di produttività. Costruire un baliatico rappresenta una conquista straordinaria e Franca, con la determinazione che le è propria e con l’aiuto di un sindacalista capace anche di scalfire la corazza che lei ha imposto al suo cuore, riuscirà, pagando il prezzo altissimo dell’umiliazione e della violenza, ad ottenere ciò che ha disperatamente voluto. È vero, si trovano tanta paura e rassegnazione nelle sue compagne di lavoro, spesso anche invidia e maldicenza gratuite, elementi che in fondo le rendono umane e vere, ma Franca ha gettato il lievito della consapevolezza nell’impasto informe e per molte di loro si apriranno nuovi orizzonti.
Accanto alla coppia di amiche protagoniste della storia si muovono tanti altri personaggi tratteggiati con precisione e finezza, dalla giovane madre Maria alla sventurata Mela, dalla ricca Margherita dal grembo sterile, preoccupata solo di assicurare una discendenza al marito e un’occupazione alle sue lunghe giornate, allo squallido baronetto che renderà realizzabile il sogno consegnandole il suo “bastardo”, dai beceri e violenti sorveglianti, indaffarati a sopprimere qualsiasi rigurgito di libertà, all’illuminato padrone della manifattura che pian piano maturerà l’idea del baliatico e della salvaguardia della dignità nei luoghi di lavoro. E infine il sindacalista Salvo, l’uomo in grado di prendersi cura dei più deboli e di ascoltare le parole di Franca, di comprenderne la forza dirompente, di riconoscerne la giustezza e il valore.

Francesca Maccani

L’autrice manovra una prosa curata, fluida e amabile, sa restituire il cambio delle stagioni o la scansione delle ore del giorno con immagini sempre nuove e di grande impatto visivo, intreccia dialoghi freschi e credibili, inserisce – con una scelta quasi obbligata ma graditissima ai lettori – intere espressioni o singole parole dialettali che consentono di respirare ambienti e odori di una terra assai amata dalla letteratura, ma, nell’appropriarsi di una consuetudine, la Maccani riesce a rendere solida e significativa la mappatura di un quotidiano che da certi termini non può prescindere. Il narratore onnisciente, infatti, abbraccia attraverso quel dialetto il punto di vista di una collettività che in esso si identifica e la presenza nello stesso periodo di un registro alto trapuntato da un lessico dialettale crea un linguaggio pastoso e avvolgente.
La Sicilia e il suo complesso passato, specie negli aspetti meno noti ed esplorati, sono coordinate che continuano a guidare la letteratura declinata al femminile – da Stefania Auci ad Anna Chisari giusto per citare alcuni dei nomi più recenti – e Francesca Maccani vi si colloca a pieno titolo.
Le donne dell’Acquasanta non è soltanto “una storia palermitana”, come recita il sottotitolo, ma una storia dal respiro più ampio e profondo. La sopraffazione e il bisogno di riscatto appartengono purtroppo al mondo contemporaneo e vi alloggiano con una desolante e pervicace presenza.

Francesca Maccani
Le donne dell’Acquasanta
Rizzoli editore
pp 320
16,00 €

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