“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/

L’estate del ’78 di Roberto Alajmo

La messa a fuoco della disfatta. ‘L’estate del ‘78’ di Roberto Alajmo, ed. Sellerio

 

Luglio 1978. Via Stesicoro, Mondello. Tempo e luogo in apertura come in una sceneggiatura cinematografica. Sono il tempo e il luogo decisivi, quelli dell’ultimo incontro con la madre, ma il ragazzo,  tutto preso dagli esami di maturità, dagli amici e dalla prospettiva allettante di un gelato, non può saperlo.

Nel romanzo L’estate del ’78, edito da Sellerio e vincitore del Premio Letterario Alassio Cento Libri, lo scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo, direttore del Teatro Biondo dal 2013, racconta la tragedia personale del suicidio materno, ancora carico di interrogativi irrisolti, con una sorprendente capacità di coinvolgimento che nasce dall’uso originale di una scrittura che con superbo andamento ossimorico si rivela filtrata e sanguinante allo stesso tempo. La distanza offerta dal tempo trascorso e la capacità di avvicinare l’oggetto dell’indagine con precisione entomologica procedono saldamente avvinghiate, mentre il passaggio di ruolo da figlio a padre interviene a sorreggere la narrazione sostanziandola di un passato più recente e fresco e a correggere percezioni e punti di vista. Correggere nel vero senso della parola, perché l’età matura possiede forse quest’unico privilegio: la capacità di tornare sul vissuto e di correggerne le deformazioni nel ricordo per donare luce nuova anche al presente.

L’incontro è diluito e procrastinato sin dalle prime pagine, l’autore non lo racconta in un unico segmento, procede per piccole tappe, avvicinandone l’epilogo con una lenta zoomata. Diversi episodi, considerazioni, ricostruzioni della memoria, che costituiscono in concreto sia l’ossatura che la polpa del testo, vengono inseriti prima della scena successiva che si apre sulla stessa data, sempre in corsivo, e sul punto esatto in cui si era conclusa la precedente, perché una volta consumato, con tutto il suo carico di imbarazzante banalità, quell’ultimo incontro manterrà intatto il suo enorme e sprecato potenziale, il suo pesante fardello di amarezza inestinguibile, ma sarà finalmente messo a fuoco con lucidità, maneggiato con cura e devozione.

Non è semplice per un figlio essere oggettivo nei confronti della propria madre, ma Alajmo, a suo modo, riesce nell’impresa, forse aiutato dalla distanza già scavata inesorabilmente dall’uso dei barbiturici che allontanano la donna isolandola in un territorio invalicabile e intricato.

Conosciamo così Elena Parrino in tutta la sua voracità di vita e di indipendenza destinata alla disfatta, in una bellezza coltivata anche nei momenti di maggiore abbandono, in una modernità di pensiero e di azioni – dall’applicazione degli insegnamenti di Don Milani nella didattica alla richiesta di divorzio in tempi in cui la separazione era ancora circondata da un alone di scandalo – che ne fanno una donna combattuta e affascinante, nell’estremo tentativo di rendere la pittura “lo scopo” della propria vita. Tentativo vano che non riuscirà a sottrarla alla deriva finale, allo scacco matto subìto a soli quarantadue anni e raccontato in pagine di rara bellezza, asciutte, distillate, perfette.

Ma è una morte davvero voluta? Gli indizi convergono in questa direzione, mentre nel figlio resta un varco aperto o forse è solo una ferita dai margini troppo larghi su cui i batteri continuano a proliferare e ad indurre dolore. La triste eredità della vocazione al suicidio, quella che appariva come il lascito più evidente e devastante, è superata grazie alla nascita del figlio Arturo, al quale Alajmo dedica pagine pensose, tenere e rabbiose, come quelle sulle condivisioni cinematografiche e musicali o quelle gustosissime della beata incoscienza del ragazzo nel post Bataclan.

Roberto Alajmo

Di Elena, insomma, restano tracce evidenti nella calligrafia, prima imitata e poi acquisita come propria, e certi lati di carattere come genetica comanda. E resta quell’affetto palpabile eppur lontano, porto ai suoi due figli con discrezione, quasi con vergogna, perché una madre prova sempre un senso di inettitudine travolgente quando non riesce ad abbandonarsi all’abnegazione imposta dal copione sociale.

Alcuni dei momenti più felici sul piano narrativo sono quelli in cui l’autore dà voce alle percezioni collettive, al sentire comune innalzandolo a filosofia del quotidiano con un linguaggio che fa della leggerezza la sua consistenza maggiore. Si va dalle riflessioni sulla vecchiaia prorogata all’estremo con tutto il suo corredo di indignitosa sofferenza all’ipocrisia del dolore incondizionato per la morte di chi in realtà si è già perso nel momento in cui la malattia vi ha piazzato sopra il proprio vittorioso vessillo, dal valore terapeutico del pianto per finzione insegnato al proprio figlio alle diverse declinazioni della felicità sempre e comunque inafferrabile o tardivamente riconosciuta, dalla percezione del momento in cui si acquista la consapevolezza della perdita dell’infanzia a quella traumatica e dolorosa dell’esistenza gelida di un “mai più” che giunge come un avvoltoio a cibarsi della carogna dei nostri affetti perduti. E per il lettore è un continuo riconoscersi in esse: è vero, l’ho provato anch’io, mi è successa la stessa cosa ma non trovavo le parole giuste per dirlo.

Ecco, l’Alajmo scrittore trova sempre le parole giuste e le trova semplici, limpide e belle; l’Alajmo uomo invece le individua con meticoloso scavo, con un disvelamento a tratti impudico ma mai compiaciuto.

Il testo non avrebbe perso la sua efficacia affabulatoria e la sua forza documentaristica anche senza l’ampio corredo di fonti iconografiche e scritte che lo accompagnano; persone e personaggi – tra cui i tanti parenti ben definiti – sembrano convivere in perfetta coincidenza ed è quasi impossibile distinguere il vero dalla finzione, ammesso che essa sia presente, ma autore ed editore scelgono di rendere il patto narrativo ancora più forte per accrescere il gradimento nei confronti di una vicenda personale per la quale l’identificazione è in permanente agguato, per negare spazio a qualsiasi tentativo di sottrazione.

Il dubbio che attraverso la pubblicazione di questa storia il prezzo più alto lo stia pagando proprio sua madre coglie infine l’autore, che forse in tal senso non si sbaglia. Non è dato sapere se e quanto quella nudità di atti e sentimenti, quell’esposizione sotto i riflettori del proprio calvario avrebbe potuto risultare per lei accettabile.

Comunque sia, l’autore ha ritenuto che l’indagine su quella morte andasse fatta e la procedura da seguire, maturata lentamente, avrebbe potuto soltanto essere quella adottata dall’adulto sin dall’ingresso nell’età del sorpasso, quella in cui il figlio può cominciare a conteggiare più anni di quelli materni. Un’indagine attraverso la quale l’uomo ha tentato di restituire una qualsiasi necessaria verità al se stesso orfano. E’ probabile che non sia giunta la catarsi, magari neanche cercata, ma Roberto Alajmo consegna uno dei suoi romanzi migliori, autentico e dolente, ironico e tenero, con la sua consueta scrittura piana e priva di fronzoli, una scrittura che pattina veloce aggirando gli ostacoli e lasciandosi dietro un senso di appagante pienezza.

Autore: Agata Motta

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