Dante di Pupi Avati

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Pellegrinaggio di Boccaccio sulle tracce di Dante, in sala il nuovo film di Pupi Avati

@ Agata Motta, 04-10-2022

Sergio Castellitto e Pupi Avati

Se è vero che ogni regista ambisce ad un film che possa consegnarlo sopra tutti gli altri alla memoria dei posteri, probabilmente Dante rappresenta proprio questo per Pupi Avati che alla genesi dell’opera ha dedicato più di un decennio di amorevoli studi e di sconfinata ammirazione. Il regista aveva già pubblicato lo scorso anno il romanzo L’alta fantasia, Solferino editore, che contiene per intero la sceneggiatura in una suggestiva forma narrativa dal linguaggio ricercato e dalla singolare struttura.
Accingersi a narrare del Sommo Poeta dev’essere stata un’impresa titanica non soltanto per l’altezza inarrivabile del “personaggio” ma anche per l’esiguità delle fonti che da secoli costringe i dantisti ad ipotesi e congetture. Ecco allora giungere in soccorso un altro gigante, Giovanni Boccaccio, che dell’opera dantesca era stato appassionato didattico e che da Dante aveva ricevuto in dono l’amore per la poesia, unica vera gioia della sua vita. Il regista ha dunque sentito di aver trovato una soluzione perfetta nel parlare di Dante attraverso lo sguardo innamorato di Boccaccio, sguardo che in sostanza coincide con il proprio ma che gli ha offerto la possibilità di creare un affascinante gioco di richiami letterari.
Interrogarsi sul rapporto di Dante con la propria creatività e sperare che nella consapevolezza del suo genio abbia vissuto la sublimità, come Avati dichiara nelle note al romanzo, sono stati gli input che hanno messo in moto il processo creativo dal quale emerge un Dante, non coincidente in tutto con quello della memoria scolastica, che vive il proprio tempo gravato dal fardello tutto umano della fragilità, del dubbio, della paura, della lacerazione e dell’umiliazione, ma sorretto, dopo l’esilio, dall’indomita speranza di un ritorno in patria aureolato dalla gloria poetica.
Ad Alessandro Sperduti spetta il ruolo non semplice di incarnare il Poeta e di farsi carico di tutte queste sfumature che restituisce con puntualità e aderenza, specie negli ampi e segmentati passaggi dell’amore per Beatrice e dell’affetto per l’amico Guido Cavalcanti, tanto da commuovere con certi sguardi tracimanti amore e dolore ad un tempo. Boccaccio è interpretato con evidente dedizione da un magnifico Sergio Castellitto, che ne fa un personaggio vero e sofferente, le mani bendate e martoriate dalla scabbia che lo tormenta e il bisogno di riabilitare, mettendone in luce la profonda spiritualità, un poeta considerato eretico per aver fustigato papi indegni e immorali consuetudini ecclesiastiche.
Il film prende avvio dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, lirica che orgogliosamente Dante rivendica, per bocca di Bonagiunta Orbicciani incontrato tra i golosi del Purgatorio, come quella che diede avvio alla “nuova maniera di poetare”, cui segue l’agonia del Poeta a Ravenna vegliata da una piccola folla e dal figlio Iacopo. Trent’anni dopo Boccaccio sarà incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele di portare una borsa di dieci fiorini d’oro a suor Beatrice, la figlia di Dante, come risarcimento per le pene inflitte dalla città di Firenze al padre.

Basilica di Sant’Apollinare in Classe

Il viaggio di Boccaccio si trasforma dunque in un pellegrinaggio attraverso i luoghi percorsi dal Poeta che ne conservano le vestigia: le antiche dimore in cui si era mosso, il campo di battaglia di Campaldino, la pineta che conduce alla basilica di Santa Apollinare in Classe dai cui mosaici furono ispirati alcuni versi del Paradiso. Il vissuto del Poeta emerge per frammenti da quelli che tecnicamente sono flashback, ma, sotto il profilo della narrazione, l’espediente di legare quei tasselli ai luoghi e ai testimoni diretti, che seppur vecchi potevano offrire a Boccaccio il balsamo di un ricordo o la soluzione di un enigma (il mistero del ritrovamento degli ultimi canti del Paradiso), àncora l’uomo Dante al suo tempo, a quel complicato brandello di Medioevo fatto di lotte tra fazioni avverse, ingerenze papali e contratti matrimoniali. E al suo tempo appartengono anche gli efferati fatti di cronaca che giungono fino a noi nei ritratti immortali di Paolo e Francesca e del conte Ugolino (gli unici evidenti richiami alla Divina Commedia) che avevano suscitato la commozione del Poeta e ne avevano acceso l’immaginazione. La Morte, che in quell’epoca mieteva vittime in quantità spropositate, aleggia con prepotenza nel racconto e nell’ambientazione, sembra creare un contrappunto necessario ai sentimenti amorosi, e il regista insinua, attraverso le tante immagini cupe, un’amara riflessione sulla durata e sul valore della vita umana.
Nella scelta di costruire una sorta di cornice narrativa dentro la quale innestare il racconto biografico e quello poetico (le liriche tratte dalla Vita Nova costituiscono una sottotrama di suggestiva efficacia) è probabile che il regista abbia voluto omaggiare implicitamente anche Boccaccio che proprio in quegli anni – siamo nel 1350 – stava portando a termine il Decameron.
Ad un oggetto malandato, “la bambola nuziale di una gran signora”, simbolo di fertilità che diviene invece foriero di morte, è affidato il compito di farsi cerniera tra il tempo narrato e quello della narrazione, un oggetto appartenuto a Beatrice che dovrà divenire il dono di un padre, Boccaccio, alla figlia bambina della quale cerca di conquistare l’affetto.

Ecco che il personaggio Boccaccio, nel quale Avati si rispecchia e che pronuncia parole che in realtà gli appartengono, diviene protagonista accanto al suo idolo, si fa riflesso di una visione nuova e sotto certi aspetti romantica che consegna Dante agli spettatori negli anni della giovinezza segnata dal dissidio tra ragione e sentimento.
Dante è anzitutto guidato da Amore, una forza occulta e devastante che determinerà il suo percorso come essere umano e come poeta e la sua Beatrice è più donna terrena che donna angelo. L’esile e bionda Carlotta Gamba ne fa una fanciulla inquieta e turbata dalla dedizione di un ragazzo, incontrato per la prima volta bambino, che la segue per guardarla da lontano, che le sorride il giorno del matrimonio nonostante il dolore gli stia schiantando il petto. Ed è bellissima la scena in cui Beatrice, salendo le scale che la condurranno alla sua dimora di donna sposata dove a breve consumerà le nozze, sembra suggerirgli il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare in un’atmosfera di magica sospensione. Altrettanto poetica la scelta di rappresentare il volto di Beatrice morta deturpato dal vaiolo, quel volto che agli occhi del poeta resterà splendido in eterno, quel volto che lo indurrà a “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Beatrice infatti tornerà nei suoi versi come beata e lo guiderà nell’ascesa al Paradiso, nessuna donna era mai stata cantata in questo modo.
L’esilio è compresso in poche simboliche scene, come quella in cui cui l’esule traccia su un lenzuolo i nomi dei morti da collocare nei mondi ultraterreni, e infine il cerchio si chiude tornando all’immagine iniziale: Dante muore. Il momento è sottolineato dal temporale come gli altri passaggi ritenuti cruciali dal regista, e Avati immagina di far raccogliere al figlio Iacopo le ultime parole del Poeta giunto finalmente a Dio, “alla fine di tutti i disii” (Paradiso, XXXIII).
Il film è diretto con una squisita ricerca formale di forte impronta pittorica, valorizzata dalla fotografia di Cesare Bastelli, che veste di luci e ombre gli interni e di una patina di antico gli esterni, e dal dirompente commento musicale di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa.

Di alto livello tutta la recitazione, ma emergono, per la particolare forza espressiva, Romano Reggiani che ben rappresenta la fierezza aristocratica di Guido Cavalcanti, Leopoldo Mastelloni che porge un Bonifacio VIII grottesco, untuoso, viscido e querulo, e poi ancora Alessandro Haber, l’indignato abate di Vallombrosa, Enrico Lo Verso, il fiducioso compagno di viaggio Donato degli Albanzani, Milena Vukotic, la rigattiera, Erica Blanc, Gemma Donati anziana, Morena Gentile, la donna gozzuta, Gianni Cavina, il vecchio Piero Giardina e Valeria D’Obici che regala a Suor Beatrice un’intensità di rara bellezza. A lei e a Sergio Castellitto la scena finale del film – un approdo per Boccaccio, una carezza per l’anziana monaca amareggiata che non riesce a perdonare – che si imprime negli occhi e nel cuore: un uomo e una donna si tengono per mano nella penombra del chiostro, alle loro spalle, non visibile ma evocato, l’Albero del Paradiso che non produce più mele dalla morte del Poeta e tutt’intorno il tenue baluginio di lucciole che sembrano stelle, quelle stelle di cui il Poeta conosceva tutti i nomi, quelle stelle che chiudono le tre cantiche con un’unica parola.
Con coerenza Avati segue per lo più gli spunti biografici forniti dal Trattatello in laude di Dante del Certaldese e nel farlo si discosta talvolta dalle scarne fonti storiche, come per quanto riguarda il matrimonio con Gemma Donati, che era stato contratto in età adolescenziale, quindi ben prima della morte di Beatrice. E, nel mostrarci questo giovane Dante, il regista sfuma, lasciandola in controluce, la chiara consapevolezza del suo genio che dovette fargli temere più di ogni altro (forse più della lussuria su cui invece si indugia) quel peccato di superbia che tentava di arginare quanto più ne avvertiva la seduzione. Non per nulla, come acutamente ha osservato Piero Trellini nel suo Danteide, la Divina Commedia può essere percepita come l’edificazione della risarcitoria mitologia di se stesso voluta dal poeta. Il tratto dato da Avati alla sua opera, che costituisce un unicum nella sua filmografia, è quindi frutto di una scelta precisa, ciò che vuole definire e circoscrivere è l’immagine del Dante a lui più caro, quello che vagheggerà per sempre con “l’alta fantasia” che appartiene ai grandi artisti, il Poeta che ha “fatto sì che la sua emozione divenisse l’emozione del mondo”.

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“Gli angeli nascosti di Luchino Visconti”

Il rispetto del lavoro. ‘Gli angeli nascosti di Luchino Visconti’ di Silvia Giulietti

@Agata Motta (09-10-2019)

Cinema. Saggistica breve.

Set ‘Vaghe stelle dellìOrsa’

Esce in sala in questi giorni, ma è stato realizzato nel 2007, il breve film documentario intitolato Gli angeli nascosti di Luchino Visconti che apre un varco insolito sulla figura di uno dei registi più raccontati, studiati, analizzati del panorama italiano e lo fa attraverso le voci dei suoi collaboratori invisibili, quelli che con il paziente e nobile lavoro squisitamente “tecnico” hanno contribuito alla sua grandezza. Alcuni erano entrati nell’universo cinematografico attraverso un canale privilegiato – Daniele Nannuzzi, direttore delle fotografia figlio del celebre Armando (cui l’opera è dedicata), Federico Del Zoppo, direttore della fotografia nipote del fondatore dell’A.I.C. e Lucio Trentini, organizzatore di produzione figlio del Direttore generale della Lux film – altri invece vi erano arrivati per caso, per giovanile intraprendenza e per tenacia come Nino Cristiani, operatore alla macchina da presa, Peppe Berardini, direttore della fotografia, e Mario Tursi, fotografo di scena cui si deve la concessione delle immagini d’archivio utilizzate per la realizzazione del documentario.

Gli angeli nascosti diventano però coprotagonisti in questo racconto per immagini, parole e musica strutturato come un libro, in capitoli che vanno dal primo incontro con il Maestro alla sua eredità morale. Incastrati tra l’inizio e la fine gli altri capitoli sul modo particolare di girare – fu il primo a girare con tre macchine da presa contemporaneamente, una in campo lungo e due con zoom sugli attori – sulle leggende metropolitane circolanti nell’ambiente, sul complicato rapporto con gli attori, sulla comunione d’intenti che riusciva a creare con la troupe attraverso una spiegazione puntuale e semplice su ciò che intendeva fare, sui piaceri della tavola, che voleva sempre ricca e affollata, sui regali sorprendenti e costosi che dovevano allietare il Natale dei collaboratori, sulla malattia alla quale si oppose con spirito pugnace, sull’ultimo incontro.

La regia e il montaggio di Silvia Giulietti sono semplici e puliti e proprio per questo assai efficaci. La Giulietti si concentra sull’essenziale, i ricordi personalissimi e diversi dei vari personaggi, ricordi scaturiti come risposte ad un’intervista immaginaria. Ogni angelo si racconta nel proprio rapporto privilegiato con Visconti attraverso il filtro della propria personalità e sensibilità e porge quindi “inquadrature sull’uomo” da angolazioni di volta in volta diverse: scanzonate, nostalgiche, tenere, commosse, ma sempre accompagnate dall’orgoglio per il lavoro svolto “per” e soprattutto “con” Visconti, sempre grati per quell’ampia e meravigliosa parentesi di vita durante la quale sono stati interlocutori privilegiati di un Maestro indiscusso e indimenticato. Si compone così un affresco originale, costruito con piccole tessere che creano un insieme sfaccettato dalle moltiplici e affascinanti sfumature, accompagnato dalle garbate e a tratti malinconiche musiche di Rocco De Rosa.

Il periodo di riferimento, quello che ha visto gli angeli attorno al Maestro non come attoniti discepoli ma come stretti e apprezzati sodali, si snoda grosso modo negli anni Sessanta e Settanta. Sono lontani i tempi del fermento ideologico che scuoteva con entusiasmi giovanili la redazione della rivista Cinema, il luogo maestro della formazione di Visconti e dei tanti intellettuali – Umberto Barbaro, Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis, Mario Alicata – che avrebbero contribuito a quella rivoluzione culturale all’insegna del realismo che segnerà in maniera indelebile il panorama postbellico. E sono lontane le polemiche legate al primo capolavoro, Ossessione, punto di approdo della sua ricerca personale e snodo ineludibile che porterà alla grande stagione del Neorealismo. Lontani nel tempo ma non nella poetica e nelle scelte estetiche del Visconti maturo che al suo cinema antropomorfico che vuol raccontare “gli uomini vivi nelle cose e non le cose per se stesse” e all’intenzione di mettere l’attore al centro del lavoro di regia non girerà mai le spalle, così come germoglieranno in modi sempre più sontuosi quell’attenzione agli aspetti figurativi e alle questioni tecniche cui era stato abituato tramite la collaborazione giornalistica gomito a gomito con intellettuali appartenenti a diversi settori artistici in quella fucina di idee condivise e di aspre diatribe che fu Cinema nella fase della direzione lontana e discreta di Vittorio Mussolini, quella rivista che verrà in seguito definita “cellula comunista nel cuore del potere” o più polemicamente come nucleo dei “redenti”. Senza dimenticare il prezioso impegno teatrale che di certo nutriva il cinema, in un rapporto osmotico, negli aspetti prettamente estetici e recitativi.

Il documentario, dunque, ci conduce con immagini belle e rare – montate in rapida successione con stacchi netti o in morbide dissolvenze o in progressivi affondi nel cuore delle foto – sui set di Bellissima, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Vaghe stelle dell’Orsa, Ludwig fino a L’innocente, l’ultimo film girato quando la malattia l’aveva già penosamente colpito. Vi incontriamo i volti di attori indimenticabili, ma soprattutto incontriamo lui, Luchino Visconti, l’uomo e il regista con le sue caratteristiche di umanità e magnanimità, con la sua intransigenza nei confronti di chi osava profanare il luogo sacro del set con voci scomposte o con abbigliamenti indecorosi, con la sua durezza, divenuta persino aneddotica, nei confronti del capriccioso divismo degli attori, con il suo gusto raffinatissimo per gli oggetti di uso personale e per gli elementi necessari all’allestimento del profilmico, per il quale esigeva che la produzione non badasse a spese, con la sua forza d’animo nei momenti durissimi della convalescenza, con il suo sguardo avido di perfezione che si posava su tutto e che tutto vedeva. L’uomo che Alberto Moravia aveva definito con un pizzico di malignità “cortese”, attribuendo all’aggettivo il doppio valore di uomo gentile e di uomo bisognoso di una corte, si rivela elegante e signorile, un uomo che ebbe nei confronti della sua “piccola corte” di collaboratori (e non di adulatori) un atteggiamento sicuramente esigente ma anche paritario, paterno e rispettoso. Ed è proprio sul senso di rispetto del lavoro di tutti che poggia una delle eredità morali più gradite e più solide lasciate ai suoi collaboratori da un artista che, attraverso il marchio incancellabile impresso in chi ama il cinema, ha potuto ambire all’unica immortalità concessa agli uomini.

Purtroppo oggi alcuni di questi angeli non sono più con noi (Peppe Berardini, Lucio Trentini e Mario Tursi) ed è particolarmente toccante guardarli parlare, sorridere, ricordare con la consapevolezza della loro assenza. Fa piacere comunque averli conosciuti, anche se soltanto per 54 minuti.

http://www.inscenaonlineteam.net/2019/10/10/il-rispetto-del-lavoro-gli-angeli-nascosti-di-luchino-visconti-di-silvia-giulietti-al-cinema-dal-20-ottobre/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2019/10/il-rispetto-del-lavoro-gli-angeli-nascosti-di-luchino-visconti-di-silvia-giulietti-al-cinema-dal-20-ottobre/

GLI ANGELI NASCOSTI DI LUCHINO VISCONTI

In sala dal: 10 ottobre 2019

Documentario | Italia, 2007 | 54 min

Regia: Silvia Giulietti
Cast: Federico Del Zoppo, Daniele Nannuzzi, Giuseppe Berardini, Michele Cristiani, Lucio Trentin, Mario Tursi
Produzione: iFrame