Rubare la notte di Romana Petri

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Saint-Exupéry e l’ansia del divino. “Rubare la notte” di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta, 17 giugno 2023

Non sorprende trovare Rubare la notte di Romana Petri, Mondadori editore, nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, quello che stupisce semmai è che una talentuosa, raffinata, poliedrica scrittrice e traduttrice come lei non lo abbia già ottenuto in precedenza e che romanzi straordinari come Ovunque io sia, Le serenate del Ciclone e Figlio del lupo siano stati lasciati semplicemente al loro successo.
Come sempre quando si accosta a personaggi reali – il padre Mario Petri, Jack London ed Antoine de Saint-Exupéry in questo caso – per ricostruirne la biografia, l’autrice parte da dati oggettivi e documentati per introiettarli e poi trasferirli nell’immaginifico flusso vitale che si rovescia addosso al lettore con un tornado di emozioni vive e pulsanti. Così il lavoro certosino condotto sulle fonti (gli scritti anzitutto in quanto emanazione diretta di ogni autore) o nella propria memoria costituisce un sostrato solido ma non ravvisabile, mentre emerge la capacità dell’autrice di penetrare nella zona più intima dei protagonisti e di consegnarli alla fine come amici di vecchia data con i quali poter prendere un caffè al bar con la certezza di una consolidata confidenza.
La precisione delle informazioni e degli aneddoti si concretizzano dunque in una struttura robusta attraverso la quale raggiungere altezze vertiginose. Per l’aviatore Saint-Exupéry l’altezza è il cielo immenso nel quale perdersi per potersi ritrovare come uomo e come scrittore. E in quel blu cobalto da notturno volato e rubato (come concesso dalla lingua francese che utilizza un solo verbo per le due accezioni) si staglia lo sghembo e romantico velivolo, con tanto di pecora e di rosa quasi tatuati sull’ala e in carlinga ad omaggiare il Piccolo Principe, proposto in copertina dall’amica pittrice Rita Albertini (alla quale il romanzo è dedicato), già ispiratrice del personaggio scomodo di Luciana Albertini in Pranzi di famiglia e La rappresentazione e quindi elemento di continuità con gli scritti precedenti, quasi anello di congiunzione tra gli affetti veri e quelli letterari della Petri.

Saint-Exupéry

Tonio bambino e Tonio adulto, due figure che si fondono in un unico personaggio, perché il piccolo Tonio ha pensieri e sogni adulti e il grande Tonio ha sensazioni e nostalgie bambine. L’infanzia felice abita il difficile presente e lo nutre con l’amore materno paziente e discreto, proietta la sua ombra lunga sulle pagine dello scrittore e sulle impennate aeree verso un cielo più ospitale della terra, capace di accogliere nell’azzurro la sproporzione di un corpo troppo massiccio e la parentesi mai chiusa di una condizione di perenne stupore.
Le fluviali lettere alle madre, che la Petri immagina e utilizza come contenitore di emozioni e come fresa per scarificare l’anima, costituiscono il filo conduttore di un romanzo che attraversa le tante stagioni di un uomo complesso – quella letteraria, quella del pilotaggio, quella bellica e quella amorosa – che amava porgersi in maniera leggera, che usava l’arguzia e la capacità oratoria per persuadere e raggiungere i suoi scopi, che annegava dilemmi e ansie in pantagrueliche mangiate e abbondanti bevute, che travasava le proprie esperienze di volo in pagine capaci di accendere l’entusiasmo dei lettori, che indugiava tra mondanità e isolamento, che cercava la tenerezza e la dedizione di tante donne per ottenere almeno un pallido riflesso di un’idea d’amore che non avrebbe mai trovato piena realizzazione in nessuna di esse.
Le lettere erano d’altronde l’unico strumento concesso dall’epoca alla comunicazione più intima e Saint-Exupéry, che nella narrativa amava scrivere per sottrazione, se ne servì senza risparmiarsi facendole viaggiare da un continente all’altro quasi identiche, con piccoli aggiustamenti per destinatarie diverse, dall’ostinato e inscalfibile amore giovanile alle amiche particolari cui sottoporre le opere in fieri, dalla capricciosa e bellissima moglie Consuelo alle amanti occasionali, quasi tutte inizialmente concepite per la madre, unica “riserva di pace”. E in ogni lettera comunque parlare di se stesso significava per Tonio porgere alle sue donne un dono amoroso, offrire un narcisistico momento di condivisione per il quale essergli grate.
Dall’altro lato l’universo maschile, fatto di amicizie importanti, grazie alle quali entrare nel circuito letterario o mantenere la possibilità di volare oltre ogni ragionevole limite d’età, e di rari contatti fraterni e duraturi per i quali nutrire nostalgie e rimpianti, come quello con il vecchio pilota Gavoille cui verrà consegnata la borsa in pelle di cinghiale contenente il manoscritto de La cittadella.

In filigrana compaiono le guerre – per una beffa anagrafica (Saint-Exupéry nacque nel 1900) mai pienamente combattute ad esclusione di quella civile spagnola – che lo infiammano di amor patrio. E per amore dell’amatissima Francia l’ormai osannato scrittore andrà negli Stati Uniti a caldeggiare un intervento americano, ma la manifesta ostilità per De Gaulle gli varrà l’accusa, sempre respinta con amarezza, di collaborazionismo.
Poi l’ultima semplice missione nel ’44 e la scomparsa nel cielo, l’uomo viene inghiottito dal suo elemento naturale per diventare leggenda. Antoine de Saint-Exupéry è tuttora uno degli autori più letti al mondo.
La compattezza della storia non viene scalfita dai tanti salti temporali nei quali la perfezione dell’impalcatura orienta con la precisione di una bussola. Il pensiero corre a briglie sciolte tra cielo e terra, in volo un taccuino su cui appuntare la vita con schizzi e frasi brevi, al suolo un’ansia del divino che insegue l’ipotesi di un Dio personale e silenzioso o di un intero olimpo da mantenere in vita pena la morte.
La memoria livella e riplasma traumi lontanissimi – la morte del padre, uno sconosciuto di cui ritrova le tracce nella materna giovinezza appassita e nel taglio dei propri enormi occhi, e quella del fratello adolescente – e sconfitte recenti, prima tra tutte quella legata ad un rapporto coniugale travolgente e complicatissimo. La stessa memoria restituisce all’occorrenza lo sguardo di un amico scomparso o le sensazioni legate a quell’infanzia paradossale in cui la felicità non era avvertita come tale sul momento, ma era destinata a divenire tangibile e abbagliante nel ricordo. Poi, nel tempo, subentrano l’angustia per i malesseri fisici e l’ipocondria, per cui la questione pressante e mai risolta dell’imparare a morire diviene ineludibile per il pilota che, sempre più spesso, gioca al rialzo e ama durante le missioni “sfiorare la catastrofe e lasciare tutti senza fiato”.

Romana Petri

Esiste una indubbia somiglianza tra la vita di Antoine de Saint-Exupéry e quella di Jack London (protagonista di Figlio del lupo), entrambi sono uomini d’azione e visionari sognatori, entrambi vivono le relazioni con le donne in maniera totalizzante ed entrambi sono fortemente segnati da madri sotto certi aspetti ingombranti ma amatissime, entrambi agognano una paternità che il destino nega loro, entrambi provano un’ansia di movimento che convive con quella della ricerca del porto sicuro, entrambi hanno un rapporto anomalo con il denaro, lo inseguono per sperperarlo, entrambi bruciano in quattro decenni una vita così ricca di eventi da poter equiparare almeno dieci vite comuni. Uomini dalla sensibilità diversa accomunati da un modo particolare di stare nella vita e di uscirne fuori sbattendo la porta, come a dire ne ho abbastanza, sono sazio, ne ho fatto indigestione. E se la scelta della Petri è andata per ben tre volte (se si considera anche il romanzo dedicato al padre) su queste personalità, dev’esserci un’affinità spirituale, un trasporto, un’ossessione che trovano identiche radici, un’inquietudine esistenziale persecutoria che può sublimarsi solo nella scrittura (o nell’arte per il Ciclone) e in quel mondo astratto, ma per certi versi ancora più autentico, che l’immaginazione crea a propria immagine e somiglianza.
La Petri porge la materia narrata con una prosa elegante, corposa, curata, in perfetta simbiosi con contenuti che dalla ricchezza lessicale e dal periodare cesellato ricavano sostanza e spessore. La tentazione della semplificazione, anzi della banalizzazione del linguaggio, che sempre più spesso viene spacciata per scelta stilistica, non l’ha mai sfiorata, non può interessare a chi possiede storie sempre nuove da raccontare e il dominio perfetto di una tecnica di scrittura mai disgiunta dal talento visionario. Nelle sue pagine questi elementi si fondono in maniera spontanea, non se ne avvertono i confini e l’unica percezione ricavabile è quella di una limpidezza di pensiero che si traduce in frasi spesso bellissime. Chi ha l’abitudine di sottolineare, si ritroverà alla fine con un libro fittamente segnato, vissuto rigo per rigo, magnificamente massacrato.
Sono felice di non essere cambiato troppo. Sono ancora convinto che gli uomini siano tutti abitanti dello stesso pianeta, passeggeri della stessa nave.

Romana Petri
Rubare la notte
Mondadori
pp.264
19,00 €

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La rappresentazione di Romana Petri

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Il ritorno della famiglia Dos Santos. “La Rappresentazione”, nuovo romanzo di Romana Petri

@Agata Motta 09/09/2021

Un tempo le rappresentazioni erano sacre, con il loro corredo di significati simbolici e di intenti didattici per la moltitudine incolta, ma già la filosofia ne aveva fatto terreno privilegiato di indagine con interpretazioni fertili e continuamente plasmabili. Ma non sono le varie accezioni filosofiche ad intrigare Romana Petri nel suo recente romanzo La rappresentazione (l’ultimo della saga portoghese che comprende il magnifico Ovunque io sia e il malinconico Pranzi di famiglia), edizione Mondadori, quanto piuttosto quegli elementi in un certo senso teatrali che si biforcano in una duplice direzione: quella della rappresentazione del sé per gli altri, con quei brandelli di certezze che fungono da argine o da approdo quando la ricerca della propria identità annaspa e si frastaglia conducendo a derive esistenziali, e quella della rappresentazione del sé per sé stessi con la creazione di un’immagine rassicurante che possa placare ansie e dubbi e contemporaneamente lenire dolori antichissimi e recenti.

Per i lettori della Petri questo romanzo è un ritorno in famiglia, la famiglia Dos Santos, già seguita e amata nei due romanzi precedenti, e un ritorno nei luoghi cari all’autrice, scorci e dettagli di un Portogallo remoto, carezzevole, fascinoso, dolce ma patinato di nostalgie. Portati via dalla morte i personaggi scomodi e bizzarri (lo schizofrenico zio Humberto e il donnaiolo nonno Manuel Ramalhete), due posti in meno da occupare negli insostenibili ed imbarazzanti pranzi di famiglia ormai ridotti all’osso, la scena è tutta per i tre fratelli – i gemelli Vasco e Joana e la sorella maggiore Rita – per il loro ingombrante padre Tiago, uomo arrogante che ama esibire la propria ascesa politica ed economica,e per la nuova acquisita Luciana Albertini, moglie di Vasco e artista vicina all’apice del successo.

Le relazioni interne della famiglia, già guastatesi con la morte di Maria do Ceu, inarrivabile madre coraggiosa e struggente del primo romanzo, si spezzano quasi del tutto dopo la mostra della Albertini in cui i membri della famiglia del marito vengono ridicolizzati e i freschi sposi sono costretti a trasferirsi nella Roma della Garbatella in cui la vorace artista va a caccia di altre aspirazioni con l’inseparabile Barabba, anziano cane quasi umano (un Osac più domestico e saggio, per i lettori de Il mio cane del Klondike) in grado di dialogare con la padrona con sguardi assai significativi e sempre complici.

Ma l’amore, più di ogni altra cosa, è esso stesso rappresentazione: come mostrarsi all’altro? Nei propri lati migliori e seducenti o in quelli più oscuri e misteriosi? E non sarebbe meglio essere sé stessi? Forse sì, ma bisognerebbe sapere con certezza chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo in futuro.

Il passato di Vasco (e in parte quello della gemella) è tutto racchiuso in un grumo corrosivo di rabbia e di rimpianto per una madre che ha fatto della cura della primogenita sfortunata Rita (nata con il volto sfigurato e costretta a subire decine di dolorosissimi interventi chirurgici) il proprio credo, fino al punto di rendere gli altri due figli invidiosi di quella deformità che assorbiva tutte le attenzioni e le energie materne; il presente è occupato da quella piccola donna geniale che è entrata nella sua vita come una folata di vento rigenerante e, in un angolino appartato della mente, dal sogno, sorgente e agonizzante, dell’apertura di una galleria di travolgente successo; il futuro è ovviamente un’incognita per tutti, ma su Vasco è semplice effettuare previsioni, perché nel pantano stagnante in cui si muove con indolenza gli unici sassi gettati ad incrinarne la superficie sono quelli di un cucciolo di gatto di cui innamorarsi perdutamente (la versione felina e giovane del vecchio Barabba su cui regnare da sovrano incontrastato) o quello costituito dalla voce da sirena della sorella gemella, amata in maniera morbosa, che lo calamita a sé con la speranza di spezzare lo scomodo legame con la moglie italiana che ha infangato la famiglia e con quella di ottenere finalmente l’attenzione e la gratitudine paterna.

L’amore, dunque, si diceva, l’amore dall’aperto sipario in cui recitare per sé stessi e per l’altro.

Così mentre la Albertini (quasi sempre chiamata per cognome dalla voce narrante in un sopravanzo di rappresentazione) indossa il suo cliché artistico con leggerezza e convinzione interpretandolo fino a farlo suonare falso e istrionico, il bellissimo Vasco dalla malconcia dentatura (che non mostra mai per non appannare la propria alta considerazione estetica) studia diversi copioni alla ricerca di un ruolo da protagonista senza trovarne nessuno adatto alle proprie esigenze di vita comoda e lussuosa a ridottissimo dispendio di energie. Il richiamo della terra d’origine è sempre più forte, come quello della gemella Joana, che ha dovuto subire l’onta del tradimento del marito (presto restituita al mittente) nonostante la perfetta bellezza, e dell’odiato padre Tiago, detto il “Dinosauro” per il suo autoritario conformismo, che possiede l’innegabile pregio di un portafoglio sempre gonfio di denaro e di carte di credito cui poter attingere dopo essersi umiliati a dovere.

Tra tutti i personaggi scolpiti dalla Petri svetta, per puntualità di analisi e capacità introspettiva, Vasco, riconducibile alla moltitudine di inetti della letteratura primonovecentesca (o, se vogliamo andare più lontano, il riferimento d’obbligo è Oblomov del russo Ivan Aleksandrovič Gončarov) fratello nel “sentire” la vita e le sue lusinghe di Mattia Pascal e parente stretto nella percezione delle proprie inadempienze di Zeno Cosini, un mix irresistibile di narcisismo e autocommiserazione in costante lotta con le schiaccianti figure del padre (ed ecco fare capolino ancora Italo Svevo e un po’ di Franz Kafka) e della moglie che rappresenta il porto materno da una parte e la fonte perenne di invidia mal repressa dall’altra.

Talvolta sembra quasi che la Albertini funzioni più come polo oppositivo del marito che come personaggio a sé stante e tutte le stravaganze compiute per “esigenze di identificazione” – calarsi nel personaggio di Teresa d’Avila, in una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij nel campo artistico, e percorrerne quasi le impronte per dipingere dei quadri sulla santa – non la rendono più autentica. E in questa direzione non aiuta neanche il proposito, ad un certo punto non più perseguibile per motivazioni superiori, di uccidere chi ha causato la morte dell’amato padre. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi punti di forza, lo sguardo candido e privo di malizia, l’amore assoluto per l’arte, l’indulgenza nei confronti del marito francamente un po’ cialtrone, la rendono quasi un’aliena, tanto che la coalizione dei Dos Santos contro di lei, che, come acutamente nota Joana, non hanno bevuto le sue “pose” artefatte ed esibite, sembra quasi un necessario (quanto immorale) atto di epurazione nei confronti del “diverso perturbante”. Ed è quasi un paradosso, perché il personaggio della Albertini ha una sua dichiarata fonte di ispirazione nell’omonima artista perugina amica dell’autrice e se da un parte ciò rende perfettamente credibili i tortuosi percorsi mentali di elaborazione dei dipinti, grazie ai quali il lettore viene risucchiato dal processo creativo, dall’altro stride l’adesione all’immagine in fondo scontata di artista un po’ matta ma geniale che si delinea senza strappi o evoluzioni. Evoluzione invece presente e ben articolata quando sotto il riflettore non è più l’artista ma la donna innamorata e poi delusa, infine pronta ad una ripartenza che contiene già in sé un’eco del perduto amore.

Superata la fase della rabbia e forte del calore ancor presente emanato dal privilegio dell’abnegazione materna, Rita invece continua a piacere e a convincere nell’affetto discreto dispensato ad una famiglia che sostanzialmente la tollera, nella gestione oculata del suo denaro, nella consapevolezza che quel poco di bene che le arriva è una concessione della vita e non un diritto, nella rinuncia a qualsiasi compenso risarcitorio nei confronti di una natura per lei tragicamente matrigna.

La limpida scrittura della Petri rende compatta la partitura narrativa che si snoda senza mai incespicare e spinge il lettore ad inoltrarsi velocemente tra le pagine. Talvolta torna su temi e motivi già esposti con piccole modulazioni, perché anche nella vita vera ciascuno possiede pensieri ricorrenti ed ossessioni che costituiscono nuclei importanti della personalità e pezzi ineliminabili di un vissuto talvolta indigesto.

A conclusione di questo lungo, avviluppante percorso nella trilogia della Petri, non ce ne vogliano gli altri personaggi, ci piace conservare la tua immagine, Maria do Ceu, che guardi e sorridi da lontano carezzando il volto martoriato della tua Rita. Ovunque tu sia.

Romana Petri
La rappresentazione
Mondadori 2021
Pagine: 408
€ 20,00

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“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

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“Pranzi di famiglia” di Romana Petri

Il recupero memoriale dei morti. ‘Pranzi di famiglia’ di Romana Petri, ed. Neri Pozza

L’invito a fare un bagno sulle spiagge dell’Alentejo e l’esortazione a far presto, perché di tempo ne è rimasto poco, mettono in moto il meccanismo dell’impetuoso flashback – che costituisce il romanzo quasi per intero giocato su più piani temporali – di Ovunque io sia, il primo libro della trilogia di Romana Petri.

Il dialogo su una panchina del Prìncipe Real con la richiesta di perpetuare la memoria dei morti è invece il fulcro dal quale si dipana Pranzi di famiglia, il secondo atteso romanzo di ambientazione portoghese, edito da Neri Pozza, che la Petri ha regalato ai suoi lettori. In entrambi i casi si tratta di un sogno, l’unico non luogo in cui possono avvenire gli incontri negati dalla realtà – in questo caso quello di Vasco e della madre Maria do Ceu – l’unico spazio libero in cui si intrecciano desideri che la ragione non permette di esprimere e moniti che hanno il sapore di imperativi categorici, specie se espressi dalla coscienza stranita dallo stupore per l’assenza che la morte si lascia sempre dietro come una scia infetta. Perché se è vero che una madre, ovunque si trovi dopo la morte, continuerà a camminare accanto ai suoi figli, è anche vero che affinché questo avvenga è necessario che i figli ne alimentino il ricordo, ne ricostruiscano la fisionomia, gli atti e il calore, mettendo assieme frammenti, immagini, parole, sensazioni che non possono essersi spenti semplicemente con la morte.

Semplicemente? Sì, semplicemente, perché la morte, sembra volerci suggerire la Petri, non può essere considerata un trapasso definitivo ma un trasferimento in altri mondi nei quali si può permanere solo se agganciati alla vita attraverso il ricordo. E non è necessario scomodare verità ultraterrene per avvalorare questa ipotesi se persino Foscolo aveva detto che “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” e, in questo caso, l’urna non sarebbe un solenne sepolcro all’ombra dei cipressi ma il cuore di quanti  hanno conosciuto e amato chi è andato in quell’altrove sconosciuto e misterioso che si chiama morte. Per questo Maria do Ceu, personaggio che i lettori di Ovunque io sia avranno di certo molto amato, consegna al figlio la richiesta pressante di non lasciarsi trasportare dalla deriva del dolore ma di consentirle di abitare quel mondo attraverso il recupero memoriale.
Impresa ardua per Vasco, da sempre afflitto da una strana reticenza al ricordo, che non si avvarrà del recupero attraverso le sensazioni percettive di proustiano sapore, ma ricorrerà ad un indefesso esercizio della memoria, ad una disciplina imposta a se stesso che lo condurrà a rapide illuminazioni, a date dalle quali estrarre grumi da distillare, a stanze in cui far muovere chi vi ha vissuto. Così si costringerà ad annotare su un quadernetto tutto quello che riuscirà a salvare della sua infanzia illuminata e devastata – nel violento ossimoro dettato dalle circostanze – da una madre che si è svuotata di forze e di eventuali felicità per amore dei suoi tre figli: Rita, anzitutto, nata con un volto simile ad un quadro di Picasso, alla quale ha tentato tenacemente di restituire sembianze accettabili sottoponendola a complicatissime operazioni chirurgiche, e i gemelli Vasco e Joana, entrambi bellissimi per uno strano scherzo del destino, lui fragile e irrisolto, costantemente proteso alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, lei divorata dal senso di colpa per quella bellezza che si trasforma in supplizio nella sorella deforme.

L’intimità propria dei legami familiari era stata pura e spontanea solo attraverso la mediazione della madre; dalla sua morte cessa di esistere tra i fratelli orfani di luce e di affetto incondizionato e soprattutto di quel collante necessario che era stato voluto e caparbiamente perseguito e imposto da Maria do Ceu anche nella fase terminale della sua malattia. Un ultimo disperato tentativo di lasciare in eredità l’armonia tra i suoi figli era stato compiuto attraverso un viaggio di piacere in Austria, ma dopo pochissimo tempo lo spegnersi della fiammella inesausta del suo amore aveva destinato i figli al silenzio perpetuo o almeno al mantenimento di rapporti incancreniti dalla presenza di un padre sostanzialmente estraneo, Tiago, dedito alla carriera e alla moltiplicazione a tempo indeterminato del successo professionale, del denaro, del pubblico consenso.
Tiago pensa di assolvere al suo compito paterno con i pranzi domenicali, durante i quali riunisce la famiglia. Per quietare la coscienza, si tira dietro lo schizofrenico fratello Humberto – personaggio poeticamente riuscitissimo cui la Petri dona riflessioni da filosofo incompreso – e lo pseudo suocero Manuel Ramalhete – altro personaggio baciato dalla grazia – ma lascia fuori Marta, l’ambiziosa compagna e poi moglie che ha sostituito l’infelice Maria do Ceu con una ventata di giovinezza e di alleggerimento dai problemi e con la capacità di appagare il narcisismo necessario all’uomo come l’aria.

Così la Petri decide di mettere a fuoco la famiglia dos Santos in quei residui commestibili di relazioni fasulle sopravvissute allo sfacelo affettivo, in quei pranzi domenicali nei quali si consuma il rito officiato da Tiago con lunghi monologhi, mentre gusta cibi raffinati, stappa vini pregiati, sciorina i successi ottenuti e commenta i viaggi effettuati e quelli ancora in programma. Non importa se i fedeli di quelle messe profane non gli tributano gli onori sperati, per lui è necessario tenere formalmente in vita l’idea di un nucleo familiare ancora esistente, per lui forma e sostanza possono e devono coesistere.

Lo sguardo dell’autrice è volutamente asettico, perché le emozioni devono sprigionarsi dalla materia narrata e non dal giudizio del narratore che si limita ad esporre fatti ed analizzare sentimenti lasciando cadere qua e là osservazioni di struggente bellezza e verità sui rapporti umani, sulla vita e sulla morte.
La Petri restringe inoltre il suo campo d’indagine, passa dai campi lunghi e medi di Ovunque io sia ai primi piani e ai dettagli (con un’operazione quasi speculare a quella effettuata nei quadri del personaggio chiave della pittrice Luciana Albertini) e, proprio per questa maggiore vicinanza, il racconto si fa luce che illumina angoli bui, coglie tra il non detto lo strazio dei personaggi, addita quel fastello di giorni ancora buoni che avrebbero potuto essere vissuti, quel groviglio di sentimenti autentici con i quali avrebbero potuto lenire un dolore in tutti identico e ugualmente devastante che preferiscono invece dissipare nella rinuncia. Una rinuncia che passa attraverso la rimozione di memorie scomode che potrebbero riplasmare in peggio il passato e che si fortifica nell’illusione che ci saranno altre occasioni per chiarire, altri pranzi domenicali durante i quali tirare fuori rancori sotterranei e tensioni esplosive.
La Petri lascia che la scrittura fluisca limpida anche quando potrebbe intorbidarsi, giunge a scavare laddove mancano le parole, trascina in piccoli gorghi narrativi che promettono tempesta finché il silenzio denso prende corpo in immagini, ricordi, indagini introspettive che aprono squarci su territori accidentati che il lettore può percorrere anche violando il naturale riserbo dei personaggi

L’unica a manifestare la sua cieca rabbia è Rita con i suoi furori esagerati e talvolta pretestuosi, gli altri preferiscono rimuginare malumori e mettere la sordina ai dispiaceri. Vasco e Joana recidono il rapporto esclusivo dei fratelli gemelli per accantonarlo e persino umiliarlo con la rinuncia alla confidenza e alla complicità. A cementare la loro unione era stato in passato quel continuo elemosinare il tempo e l’attenzione materna tutta concentrata sulla sofferenza di Rita, ma mentre la vita di Vasco subirà uno scossone che aprirà nuove prospettive determinando scelte di costruttiva rottura, per Joana sarà l’inizio di una caduta interminabile. La maternità che l’aveva inizialmente ubriacata di gioia, si trasforma presto nella presa d’atto di un fallimento esistenziale che passa attraverso il fallimento coniugale. Il mediocre marito che aveva scelto per autopunirsi della prestanza fisica che arrecava dolore alla sorella, come la madre aveva intuito, la mortifica con il tradimento, ma lei preferisce ingoiare, l’orgoglio le suggerisce di tacere, di non rivelare il cedimento e poi il crollo della vita agiata e promettente che pensava di condurre con lui. La discesa è talmente vertiginosa da spingerla ad accettare l’aiuto economico del padre detestato, andare in analisi e restare vittima di uno di quei transfert difettosi che non portano alla fiducia in chi deve curare le ferite dell’anima ma alla dipendenza ossessiva, alla riesumazione dei torti subiti e alle recriminazioni senz’appello. E, beffa tra le beffe, Joana sarà l’unica, infine, ad accettare la sussistenza della forma, a divenire in questo persino simile al padre, la meno amata da lui e paradossalmente la più vicina.

Nelle giornate incolori di Vasco esplode invece la vitalità contagiosa di una talentuosa pittrice italiana, Luciana Albertini (personaggio appena evocato nel romanzo precedente), un po’ più grande d’età perché il buon Edipo ci mette sempre il naso. Ad accompagnarla c’è il vecchio cane Barabba, fratello letterario di Osac, protagonista de Il mio cane del Klondike, sul quale la Petri lascia come impronta personale la consueta passione per il mondo animale indagato con la stessa delicatezza e la stessa precisione riservate all’agire all’animo degli uomini. La Albertini, medico votato all’arte come l’artista perugina quasi omonima cui il personaggio è ispirato, irrompe con le sue tele dai titoli bizzarri e i suoi colori, con il suo corpo minuto e quasi androgino, con la sua saggezza striata di follia a curare la malinconica sottrazione alla vita di Vasco e soprattutto ad osservare con la lente deformante dell’ironia quella strana famiglia in cui – come lo stesso Vasco riconosce e afferma – sembra che tutti abbiano gli aculei sulla groppa e che si tengano a distanza, capaci di conservare solo il silenzio. Sarà proprio lei a dissacrare la solennità di quei pranzi  con una mostra blasfema in cui la famiglia del suo compagno viene svelata nei suoi tratti più grotteschi e in quelle tele riemergeranno con tenerezza anche altri personaggi indelebili di Ovunque io sia come la zia Julieta, dalle gambe sottili come alghe, che aveva vissuto tutta la vita strisciando al suolo e non aveva mai smesso di sorridere. Ma il passato è in agguato, bussa alle porte finché ad aprire sarà proprio l’irascibile Rita, che tirerà fuori dall’oblio quei ricordi ostinatamente negati per riscrivere la mitologia che appartiene sempre ad ogni famiglia. Rita rinuncerà anche ad altri interventi correttivi per mantenere le sembianze del viso che la madre ha conosciuto e amato, l’accettazione di se stessa e della sua deformità è il dono più bello che possa offrirle.

Lisbona e i luoghi cari del Portogallo, altra patria elettiva della Petri, sono presenti con le loro atmosfere e i loro piatti – dal bacalhao alla carne de porco à alentejana — con quei tipi umani un po’ ombrosi in cui la scintilla della gioia si accende raramente, con la saudade, quell’intraducibile disposizione d’animo propria dei lusitani. E’ tangibile l’agio con cui l’autrice si muove su strade conosciute e modalità comunicative perfettamente note, gioca in casa e vincere la partita è fin troppo facile. Nonostante Pranzi di famiglia abbia una totale autonomia narrativa e che non sia indispensabile conoscere anche il precedente Ovunque io sia, il consiglio è quello di leggerli comunque entrambi nel loro ordine naturale, anzitutto perché si guadagna un’altra bellissima storia e poi perché personaggi come Manuel Ramalhete e la moglie Ofelia, genitori “adottivi” di Maria do Ceu e quindi nonni dei tre fratelli, sono troppo preziosi per non conoscerli interamente. Il primo, donnaiolo impenitente, tratteggiato egregiamente nella piena decadenza, è uno dei commensali dei pranzi di famiglia, vi giunge come un pietoso trofeo del passato, con il suo interminabile conteggio dei morti, con il suo pianto teatrale, con la sua falsità ammaliante, con la sua amarissima vecchiaia alla desolata casa di riposo Cruz Vermelha spacciata per privilegio; la seconda è un ricordo intermittente, una presenza incombente nonostante l’assenza, un ritratto geniale dell’Albertini. Appropriarsi del loro travagliato passato e di quello di tanti altri personaggi indimenticabili sarebbe pertanto operazione affascinante.

Pranzi di famiglia è un romanzo sulla capacità di guardarsi dentro, sulla forza del destino, sulla necessità di rompere ciò non può essere aggiustato, sulla fiducia nei cambiamenti necessari e sulla speranza da portarsi appesa al collo come un amuleto. Ed è in fondo un riconoscersi, con il proprio vuoto e i propri fallimenti, con i propri interrogativi destinati a restare senza risposte. E’ ascoltare quei silenzi intorno alle cose finite, sui quali il tempo non ci concederà più di ritornare.

Romana Petri
Pranzi di famiglia
Neri Pozza Editore, 2019
pp.414

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Intervista a Osac, il cane del Klondike

Intervista a Osac, il cane del Klondike

 

Se siete tra quelli che pensano che ai cani manchi solo la parola, non ditelo a Romana Petri, potrebbe irritarsi ed interrompere subito ogni approccio comunicativo. Per la Petri i cani la parola ce l’hanno eccome, basta semplicemente saperla ascoltare e decodificare. Nel suo ultimo romanzo Il mio cane del Klondike, edito da Neri Pozza, la Petri racconta una storia bella e semplice in cui il dialogo tra essere umano ed animale è perfettamente possibile e praticabile. Non c’è dubbio che si tratti di una storia d’amore in piena regola, con tanto di languidi sguardi, di carezze date e ricevute, di abbandono e di sofferenza, di gioia e di promesse infrante. Quella tra Osac, cane di indomita bellezza e incontenibile forza, e la sua padrona, insegnante che vive una delicata fase di passaggio della propria vicenda umana, è una burrascosa passione e la donna appare subito disposta a lasciare che le proprie giornate vengano riplasmate da una presenza caotica, terribilmente affascinante, immediatamente indispensabile. » Read more

“Le serenate del Ciclone” di Romana Petri

 

Agata MOTTA – I giorni opachi del gigante gentile (“Le serenate del Ciclone” di R. Petri) PDF Stampa E-mail
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Saggistica breve

I GIORNI OPACHI DEL GIGANTE GENTILE


Le serenate del Ciclone di Romana Petri (ed. Neri Pozza)

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Può capitare, talvolta, che certi grovigli irrisolti si addensino come una matassa gonfia e irta di nodi, che diventino indomabili e aguzzi, che reclamino attenzione e rispetto, forse anche urgenza per non trasformarsi in grumi di dolorosa attesa. E allora bisogna trovare il bandolo e con pazienza riavvolgere il gomitolo per darvi nuova forma e consistenza. L’attesa di Romana Petri è durata venticinque anni, una gestazione lentissima, una lunga notte insonne geneticamente ereditata, ma certe cose andavano dette, proprio a chi non può più ascoltarle.

Le serenate del Ciclone, ultimo romanzo della scrittrice romana, offre in copertina una foto che coagula il senso di un’operazione letteraria sicuramente difficile ma senza dubbio liberatoria e appagante: un uomo altissimo, aitante e muscoloso stringe la mano a una piccolina sorridente che sfida l’obiettivo certa di possedere un eccezionale garante per la propria incolumità. Sono padre e figlia: sono Mario e Romana. http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/11/30/agata-motta-i-giorni-opachi-del-gigante-gentile/

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