L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

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Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale

Qualche libro da regalare o regalarvi a Natale. I classici della letteratura moderna e contemporanea

Thomas Mann La montagna incantata: dedicato a chi non si lascia prendere dalla fretta, questo è un colossale romanzo di formazione in cui si fondono l’attraversamento vertiginoso del tempo immobile e dilatato di un sanatorio e lo snodarsi della vicenda di un singolo come simbolo della storia del popolo tedesco alla vigilia della grande guerra. Hans Castorp, un giovane borghese giunto nel sanatorio svizzero di Davos per incontrare il cugino lì ricoverato, effettuerà il proprio percorso di maturazione attraverso i temi universali della malattia, dell’amore e della morte. L’incontro con alcuni personaggi carismatici gli farà conoscere il conflitto, che rimarrà irrisolto, tra l’irrazionalità e l’individualismo da una parte e la fiducia nel progresso materiale e nella scienza dall’altra. Il vasto e avvolgente tessuto narrativo di una prosa complessa e perfetta consente digressioni di impianto saggistico che sembrano sgorgare in modo spontaneo e naturale dai dialoghi dei personaggi.

“Ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano” dice lo stesso Mann, parole su cui meditare.

Josè Saramago Caino: ”La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui”. Basterebbero queste poche folgoranti parole per comprendere la grandezza di un testo breve, scorrevole ed estremamente gradevole in cui l’autore portoghese immagina la storia di Caino all’indomani dell’odioso fratricidio. A cavallo di un mulo, in una landa desolata che funge da bizzarra macchina del tempo, Caino racconta le più note vicende bibliche – dalla costruzione della torre di Babele alla distruzione di Sodoma, dal sacrificio di Isacco alla consegna delle tavole della legge a Mosè, dall’accanirsi della sventura sul probo Giobbe alla costruzione dell’arca di Noè – attraverso il punto di vista straniante del protagonista, che coglie l’insensatezza e la crudeltà delle richieste di un Dio egocentrico che appare pertanto molto più discutibile delle antropomorfizzate divinità dell’Olimpo. Di Saramago – uno dei Nobel più meritati che sia mai stato attribuito – si consiglia comunque la lettura sistematica di tutta l’opera.

Giuseppe Berto Il male oscuro: a chi si lascia andare alla depressione da festività natalizie e a chi soffre di ipocondria molesta questo bellissimo romanzo psicanalitico offre una spalla sulla quale piangere e uno specchio nel quale riconoscersi. La narrazione fortemente biografica ed introspettiva sfrutta l’espediente che già fu di Svevo ne La coscienza di Zeno, cioè quello della scrittura come terapia suggerita dall’analista, e il protagonista si configura come uno dei fratelli più giovani dei tanti inetti primonovecenteschi. Partendo dal difficile rapporto con l’ingombrante figura paterna e con l’irrisolto nodo della sua morte, Berto sviscera la natura dei suoi mali – riassumibili in un unico male oscuro – e la natura delle relazioni con altre figure condizionanti della sua vita, tra cui la moglie, fino ad approdare al porto sicuro di un voluto e voluttuoso isolamento nel lembo estremo dell’Italia che guarda alla Sicilia come terra ancestrale dal prorompente richiamo. Dalla lotta con il padre all’identificazione con esso, dalla ricerca dell’autonomia al bisogno di ritrovare le proprie radici, in fondo si tratta del passaggio noto e comune a tante generazioni.

Gabriel Garcìa Màrquez L’amore ai tempi del colera: se siete ostinati e se avete una visione romantica della vita questo è il libro perfetto. Si può modulare la propria vita sociale e lavorativa per raggiungere l’obiettivo del coronamento di un sogno d’amore? Florentino Ariza lo fa con convinzione e caparbietà, con la fede incrollabile in un destino che prima o poi aprirà le porte ai suoi desideri. Passeranno “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” prima che ciò avvenga, ma il tempo è relativo quando si parla di felicità, e anche un breve e fuggevole appagamento può valere il tempo lunghissimo dell’attesa. Per chi ci crede… Naturalmente il romanzo attraversa il Novecento latinoamericano fornendo anche uno spaccato sociale di indubbio interesse.

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/02/19/qualche-libro-da-regalare-o-regalarvi-a-natale-i-classici-della-letteratura-moderna-e-contemporanea/

L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

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Un’estate con Omero di S. Tesson

Rabbia e ricostituzione sullo scudo di Efesto. ‘Un’estate con Omero’ di Sylvain Tesson

I classici e il nostro tempo. Sono ancora attuali, ci insegnano qualcosa?

Prendiamo Omero e i suoi poemi, raccontiamoli alla luce delle vicende contemporanee e il gioco è fatto, magari basta forzare un tantino la mano e puntualmente le pagine irte di poesia del Poeta cieco si prestano a spiegare le costanti dell’animo umano e le dinamiche della sfera sociale e politica attraverso un percorso che procede per analogie e per differenze.

L’obiettivo che Sylvain Tesson, scrittore, giornalista e viaggiatore instancabile, si è prefisso nel suo ultimo saggio Un’estate con Omero, edizioni Rizzoli,è proprio quello di dimostrare per l’ennesima volta (come se esistessero ancora dubbi da dissipare!) che i grandi classici sono tali perché trattano temi universali che possono parlare all’uomo contemporaneo con la stessa efficacia di sempre. Già nella Prefazione, riferendosi ad Omero, Tesson ci ricorda che “ogni evento contemporaneo trova eco nei suoi versi o, per meglio dire, ogni sussulto della Storia è il riflesso di una sua premonizione… In questo risiede il genio di Omero: nell’aver tracciato, nei suoi canti, i contorni dell’uomo. Nulla è mutato da allora”.

L’avventura letteraria intrapresa, che Tesson ritiene indispensabile considerata la battuta d’arresto subìta dallo studio del mondo greco e latino negli ultimi decenni (il mondo della scuola, manovrato  dall’imperscrutabile giudizio di chi ci governa da siderali distanze, ne è, suo malgrado, partecipe e testimone) consiste dunque nella riproposta degli snodi fondamentali della trama e talvolta nella citazione sic et simpliciter dei versi immortali di Omero resi funzionali al teorema che si vuol dimostrare. Il linguaggio è sempre semplice ed estremamente accessibile, la platea dei lettori potrebbe allargarsi anche a studenti volenterosi.

Così, dall’eremo felice delle Cicladi – la scelta del luogo non è ovviamente casuale – l’autore si immerge nella ri-lettura e restituisce man mano le proprie osservazioni prima attraverso l’analisi puntuale dei singoli poemi e poi con focalizzazioni tematiche non sempre coese e talvolta persino ripetitive nella trattazione ma di certo robuste e persuasive nell’impianto. Davvero semplice, ma il meccanismo è tutto qua. Tesson agisce come un insegnante intento a chiosare il testo e a fornire spunti di riflessione ai propri allievi.

Basta essere dotati di una sufficiente cultura classica e si può accompagnare ad occhi chiusi Tesson in questo viaggio nella bellezza, nella poesia e nel divino, un viaggio in cui riafferrare la barra del timone delle nostre vite strapazzate e vorticose perché il messaggio finale si racchiude in questo: Omero insegna a vivere, basta saperlo ascoltare con la disposizione primitiva e ingenua degli antichi che ascoltavano i versi degli aedi. E ascoltarlo con un’attitudine pagana, attitudine che si traduce nell’accogliere il mondo senza pretese o aspettative. “Tutto è bello, quanto si vede, dice Priamo, re di Troia. Sì, tutto è bello e le parole sono asservite a questo svelamento, incaricate di esprimere il caleidoscopio della vita”.

Spontaneamente la nostra preferenza va alla seconda parte del testo, quella meno scolastica, quella in cui l’autore apre nuovi orizzonti interpretativi o illustra il proprio concetto di attualità.

‘Iliade’ del Teatro del Carretto

L’ineluttabilità dello scontro all’interno delle società umane è vissuto come destino di cui la Storia fornisce continuamente prova, il prosperare delle grandi divinità (o dei leader politici) sulle macerie del mondo è un necessario dato costante, la generica questione del bisogno di guerra insito nell’uomo è sempre aperta se si guarda con mente serena l’universo geopolitico nel quale ci muoviamo, l’offesa perpetrata dall’uomo alla Natura si rivela come la più recente guerra di Troia ed è letta come ultimo atto di hybris collettiva. L’uomo pensa di essere un dio o un demiurgo e, così facendo, dimentica l’affermazione del filosofo Protagora che ribadisce invece che “l’uomo è misura di tutte le cose” o almeno dovrebbe esserlo, visto che tra i moniti sempre presenti nei poemi alcuni non tollerano deviazioni: non bisogna turbare l’ordine delle cose, non vanno oltrepassati i limiti, le colpe, spesso legate proprio a queste azioni, dovranno comunque essere espiate.

La tensione tra destino e libero arbitrio costituisce uno dei nuclei tematici più interessanti perché cozza di netto con “la glorificazione dell’autonomia individuale” dei nostri tempi; gli eroi greci aveva compreso che gli “dei conducono la danza”, che si può provare a persuaderli con sacrifici e preghiere ma che alla fine la libertà consiste “nel mettersi in cammino verso l’ineluttabile”, senza che ciò tolga nulla all’incessante movimento verso l’appagamento dei propri desideri, alla  possibilità di scelta, alla spontanea partecipazione alla suddetta danza. Insomma, “vivere consiste nell’andare, cantando, verso il proprio destino” e la sottomissione agli dei guerrafondai e interventisti può persino sollevare l’uomo dalle proprie responsabilità Oggi sottrarsi alle proprie responsabilità sembra l’occupazione preferita dai politici per i quali, senza scomodare il Fato, ciò che non funziona è attribuibile alle circostanze  avverse o a chi li ha preceduti.

Altro nucleo tematico forte è quello relativo all’oblio e alla gloria che conduce, nell’eroe greco, alla necessità della scelta della Memoria, intesa come bisogno di affidare il proprio nome alla Storia e come necessità di riappropriazione di se stessi e delle proprie radici, concetti che oggi suonano assai stonati. Per l’uomo di Zuckerberg- l’inventore di Facebook, cioè della versione digitale dello specchio d’acqua di Narciso – i social network si presentano “come meccanismi di disgregazione automatica della memoria: appena postata, l’immagine viene dimenticata” in omaggio al culto dell’odierno “presentismo”.

In tempi recenti, ci ammonisce Tesson, siamo propensi all’identificazione con la parte debole dei grandi protagonisti del passato e delle loro divinità antropomorfe, con le loro imperfezioni. “Anche il divino e il meraviglioso mostrano i propri limiti”, ecco perché Omero sa essere vicino e familiare. Dovremmo infatti prestare orecchio a chi, come Achille, pur avendo fatto della Gloria il proprio faro e la propria ossessione, riconosce dal buio dell’oltretomba che niente ha più valore di una vita semplice e rimpiange la propria incapacità alla rinuncia.

L’eroe classico comunque resta affascinante per le sue virtù canoniche: la forza, il valore, il coraggio e la bellezza di Achille, l’astuzia, l’arte oratoria, la sete di conoscenza, l’ostinazione di Ulisse. A ciascuno di noi la possibilità di riconoscersi nell’uno o nell’altro, a ciascuno la scelta del poema che meglio riflette l’indole e le aspirazioni: la rabbia devastante dell’Iliade, la ricostituzione dell’ordine nell’Odissea. In fondo sono due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari del mondo, quel mondo ricchissimo e vario raffigurato sullo scudo che Efesto forgia per Achille.

Accontentarsi del mondo e nulla sperare ci dice Omero attraverso le parole e i gesti dei suoi eroi, potrebbe sembrare l’atteggiamento pessimista del perdente e invece è la formula giusta per godere appieno dei doni della vita.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/03/rabbia-e-ricostituzione-sullo-scudo-di-efesto-unestate-con-omero-di-sylvain-tesson-ed-rizzoli/