Intervista a Giulia Randazzo regista di “A noi due”

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Il destino illeggibile di Gesualdo Bufalino. Intervista a Giulia Randazzo, regista di ‘A noi due’, in scena al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-06-2021)

Giulia Randazzo

Strano ma vero: si riparte. Poche parole che si avrebbe voglia di sussurrare per timore che possano svanire, poche parole che si vorrebbero gridare per un’incontenibile gioia che si spera non fugace.

Gran debutto in prima nazionale allo Steri Chiaramonte di Palermo per la nuova produzione del Teatro Biondo: A noi due, ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino nella messa in scena scritta e diretta da Giulia Randazzo. Lo spettacolo, in scena fino al 13 giugno alle 20.30 (ma con ingresso consigliato alle 20.00 per consentire la visita alle celle dell’ex carcere) è interpretato da Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano.

“In un’isola penitenziaria, probabilmente mediterranea e borbonica, fra equivoche confessioni e angosce d’identità, un gruppo di condannati a morte trascorre l’ultima notte”. Questa la sinossi del romanzo  raccontata dallo stesso autore, poco più di un centinaio di pagine di sublime letteratura. “Fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria”, con queste parole l’autore definisce un’opera che non è possibile incasellare in un genere specifico, ma che resta incollata nella mente e nel cuore del lettore.

Sebbene del romanzo storico indossi le sontuose vesti e del Decameron adotti l’espediente della cornice narrativa, Le menzogne della notte è un romanzo originalissimo e di magnetico fascino. Il tempo e il luogo, suggeriti ma non palesemente dichiarati, fungono da supporto per raccontare storie di uomini di tempi andati attraversati dagli eterni dubbi esistenziali che appartengono ad ogni epoca, per narrare di violenze subìte o compiute, di lacerazioni interiori, di amori travolgenti, di passioni mortifere, di gelosie, di malesseri, di vendette. Un romanzo totalizzante, che si snoda tutto in interni, con l’unica eccezione di squarci di cielo intravisti dalla finestra e di uno spicchio beffardo di piazza su cui cresce pian piano Luigina, la ghigliottina eretta nel corso della notte che mozzerà il capo a cospiratori irretiti dall’offerta terribile del Governatore: trascorrere l’ultima notte nell’agio del confortatorio con la possibilità di scrivere, nel rispetto dell’anonimato, il nome che svelerà l’identità del “Padreterno”, il capo supremo della cospirazione, e avere in tal modo la salvezza. Tradire vigliaccamente, e ottenere la scarcerazione di tutti, o morire quando ancora la vita seduce e attrae.

“A noi due”, il titolo scelto per lo spettacolo, è l’ambigua, provocatoria dedica che Gesualdo Bufalino scelse per il suo terzo romanzo, vincitore del Premio Strega 1988, una dedica che è anche uno dei tantissimi prestiti letterari (battuta finale del Père Goriot di Balzac in questo caso) con cui l’autore impreziosì un testo densissimo di riflessioni morali e di scavi introspettivi. Dovrebbe essere logico parlare anche di risvolti politici, considerato il contesto, ma in realtà la politica nel romanzo è solo un pretesto, una ragione di vita per i condannati che vi si sono aggrappati alla ricerca di solide certezze; in realtà non si gioca una partita ideologica ma si indaga su una condizione esistenziale.

A noi due suona quindi come una sfida per questo spettacolo di apertura di Eroica, la stagione estiva del Biondo annunciata con giusto entusiasmo dalla direttrice Pamela Villoresi, una sfida al tempo guasto che si è costretti ad affrontare, una sfida alle pressanti difficoltà che bisogna superare, una sfida all’umore aspro che non dovrà alterare i prossimi assaggi di libertà. Allora a noi due: attori e spettatori, teatro e mondo, musica e parole, vita e morte.

La giovane pluripremiata regista palermitana, che ha già a suo attivo una decina di spettacoli complessi e originali, è stata selezionata per la terza edizione di Fabbrica YAP e ha diretto ‘Farnese Suite’, il lungometraggio dei giovani artisti del ‘Fabbrica Young Artist Program’ del Teatro dell’Opera di Roma, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia in Italia e l’Opera di Parigi. A lei dunque il gradevole e non semplice compito di orientarci in uno spettacolo accattivante ricco di sollecitazioni e sorprese.

  • Chi è per lei Gesualdo Bufalino e cosa vuole raccontarci di lui attraverso lo spettacolo?

Bufalino rappresenta un pezzo della mia tarda adolescenza, come qualcuno la definisce oggi; ossia quel periodo meraviglioso della vita che si colloca tra i 18 e i 20 anni. È il periodo in cui ciascuno di noi è animato dai grandi dubbi esistenziali: chi sono? Chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Sono gli stessi dubbi di cui lo scrittore di Comiso ci narra attraverso i personaggi delle sue Menzogne.

Non so se ho voluto raccontare qualcosa in particolare di Bufalino, forse ho solo desiderato che lo spettatore di “A noi due” facesse esperienza di questo autore. Fare esperienza teatrale di Gesualdo Bufalino penso possa rappresentare per l’uomo di oggi una possibilità concreta di sfamare il proprio bisogno metafisico.

  • A noi due è definita un’esperienza teatrale “di confine”: quali sono i confini da esplorare o eventualmente da oltrepassare?

Con la pandemia siamo stati letteralmente confinati, separati, ridotti a percepire il mondo attraverso i nostri device, telefoni, computer, Ipad… forse oggi oltrepassare il confine significa ritornare insieme, a condividere una storia nel nostro caso. Ma dobbiamo farlo in sicurezza. Come conciliare la necessità del distanziamento con il bisogno di comunità? Come conciliare l’intimità di un romanzo ambientato in un interno notte con norme che incoraggiano a svolgere spettacoli in grandi spazi esterni?

Dalla necessità di cercare una risposta a queste domande e di superare i confini che connotano dolorosamente il periodo storico in cui viviamo è nata la sperimentazione che – insieme alla scenografa Giulia Bellé e al sound artist Alessandro Librio – ho proposto al Teatro e alla compagnia: mettere il pubblico nelle condizioni di essere vicino alla parola bufaliniana e agli attori che l’hanno incarnata con altri sensi, in questo caso privilegiando quello dell’udito. Ne è nato un rapporto fra spettatore e attore abbastanza inedito, diverso, anche più intimo in un certo senso…

Ho serie difficoltà a definire “A noi due” uno spettacolo: è stata al tempo stesso una sfida e una “affettuosa intimidazione” (come direbbe Bufalino) che, come compagnia, abbiamo rivolto allo spettatore, chiamato a mettersi in gioco in un rapporto uno-a-uno con il palcoscenico, alla ricerca di nuove forme di intimità nella distanza.

  • Il romanzo di Bufalino ha un impianto pienamente teatrale e apparentemente statico, quasi claustrofobico visto che si svolge perlopiù nello spazio chiuso del confortatorio, ma lei ha voluto contrapporvi un andamento più dinamico, legato al luogo della rappresentazione. Quanto ha influito la scelta dello Steri sulla modalità dell’allestimento?

“Apparentemente statico”, hai detto bene, perché in realtà con il passare delle ore i personaggi subiscono una trasformazione incredibile, molto evidente, palpabile, emozionante. Ho puntato sin dall’inizio sulla possibilità che gli attori si facessero portatori della parte più “spettacolare” di questa storia. Ho lavorato insieme a loro per costruire un percorso che potesse trasformare questo linguaggio così desueto e a tratti insidioso, in un viaggio appassionante e coinvolgente. Il “confortatorio” poi, nelle intenzioni dello stesso Bufalino, diventa il palcoscenico del mondo. È una metafora shakespeariana, è nell’essenza del fare teatro e nel testo questo tema ricorre nelle parole di tutti i personaggi: realtà e finzione, essere e apparire, essere degli individui consapevoli o delle marionette nelle mani di un destino illeggibile?

Ho pensato che lo Steri Chiaramonte fosse il luogo ideale per raccontare questa storia, per il suo passato e per le memorie che ancora lo abitano, a partire dai dipinti che i prigionieri hanno lasciato sui muri delle celle. Abitare per l’ultima settimana di prove lo Steri, trovarsi mani e piedi immersi in quelle memorie, più che influenzare a livello prassico le modalità di allestimento, ha segnato nel profondo tutti noi.

  • Tra i personaggi del romanzo quale ha sentito più vicino o più interessante durante la stesura dell’adattamento teatrale?

Ad essere sincera non saprei scegliere un personaggio fra gli altri… e forse questa è la forza di questa drammaturgia. Ognuno di loro è un frammento di un tutto. Ognuno di loro ci parla di qualcosa, di un segreto che gli altri non conoscono. Durante questa “notte di meraviglie” non si rivelano soltanto agli spettatori, ma l’uno con l’altro, generando ad ogni loro racconto una nuova possibilità di senso, di significato per il gesto che stanno per compiere, per il loro sacrificio. È una grandissima soddisfazione vedere come il pubblico si affezioni ad ognuno dei personaggi e apprezzi il cast nella sua interezza e diversità. Ad un certo punto si ha l’impressione di essere nella cella con loro.

  • La pirandelliana ricerca della propria identità è uno dei motivi conduttori dei racconti dei personaggi, sembra quasi che scelgano di smarrirsi nel tentativo di ritrovarsi. In realtà nessuno aderisce in pieno alla propria rappresentazione di sé, la menzogna è sempre dietro l’angolo. E’ il destino dell’essere umano?

Temo di sì. Per paradosso in questa storia la menzogna sembra svelarci, come in un racconto mitico, una verità sull’uomo più autentica di quanto non possa farlo la banalità di una confessione sincera. Come se Bufalino si diverta a confonderci, e a confondersi, per poi riemergere dal caos con un piccolo diamante sulla punta della sua penna. La fragilità umana, la consapevolezza di questa fragilità, e la poesia che ne derivano sono incredibilmente toccanti.

  • “Decisioni sull’uso della notte” è il titolo di uno dei capitoli del romanzo. La notte in questione però è, con quasi assoluta certezza, l’ultima e i personaggi la trascorreranno raccontandosi brandelli di vita. Quanta e quale salvezza si può trovare nelle parole?

Per risponderti, mi viene voglia di citarti per intero una parte della drammaturgia, l’unica che mi sono permessa di interpolare, perché trovavo le interviste di Bufalino sul tema del rapporto fra morte, abisso e racconto, così belle che mi sono sentita in dovere di condividerle col pubblico. Ma non lo farò! Sta agli spettatori più attenti andarle a scovare…

  • Con quanta fedeltà ha affrontato il linguaggio barocco e lussureggiante dell’autore?

Totale, devota, quasi assoluta, mi sono permessa di spostare piccole cose affinché non fosse sacrificata – per i tagli al testo che necessariamente andavano fatti – la comprensione della storia. Anzi durante le prove abbiamo recuperato alcune espressioni che avevo in un primo momento obliato perché temevo impossibili da recitare!

Questo perché abbiamo tutti accettato la sfida di questo linguaggio, così difficile in apparenza, eppure così ricco di senso, generatore di suoni, di poesia, capace di aprire all’improvviso uno squarcio nella tela della finzione.

Il lavoro più duro e appassionante sul linguaggio non è stato dunque nella stesura dell’adattamento, ma nella costante ricerca di una verità nella recitazione di quelle parole. Sono molto grata a ciascuno dei membri del cast, che si è misurato insieme a me in questa impresa coraggiosa e folle.

  • Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano sono attori molto diversi tra loro per presenza scenica, gestualità, inflessioni vocali. L’attribuzione dei ruoli è stata naturale e spontanea?

Sì, naturale e spontanea; non avrei saputo dirlo meglio. Ciò che invece non è stato spontaneo né semplice è stato il processo di direzione attori in una compagnia così eterogenea per percorsi professionali e di vita. Un viaggio ricco e stimolante, anche in questo caso una bella sfida: credo che un regista non possa desiderare di più. Paolo, Vincenzo, Mauro, Giuseppe e Alessandro sono stati 5 meravigliosi compagni di viaggio, ciascuno di loro mi ha aperto con generosità e fiducia una finestra sul proprio mondo. Nel mio piccolo, ho provato a fare lo stesso. Sono estremamente grata alla vita per questa opportunità umana, prima ancora che professionale.

In un’epoca storica in cui il teatro è schiavo di decreti ministeriali ghettizzano under e over 35, nuove drammaturgie e teatro classico, credo sia tornato il momento di ricominciare a prendere sul serio il teatro come fatto intergenerazionale, fatto di incontri, scontri, passaggi di testimone.

  • Il suono, che potrebbe sembrare quasi un intruso nel silenzio tetro del penitenziario in cui si trovano i quattro condannati, diventa protagonista nello spettacolo. Che funzione ha voluto attribuirgli?

Nel romanzo il suono ha un ruolo fondamentale. I detenuti raccontano le loro storie nella penombra. Bufalino spende moltissime parole per descrivere i timbri vocali dei vari personaggi, per raccontare suoni e rumori che caratterizzano l’isola. Alcuni di questi, segnano per i detenuti l’unico modo per percepire lo scorrere del tempo durante la notte nel confortatorio (l’avvicendarsi delle ronde dei soldati, il rumore dei martelli che inchiodano il patibolo, la lama della ghigliottina la cui efficacia viene testata sul capo di alcuni malcapitati animali).

Insieme ad Alessandro Librio abbiamo immaginato lo Steri Chiaramonte come il corrispettivo di un grande labirinto mentale in cui il tempo presente si confonde e si sovrappone a quello del ricordo. Gli ambienti sonori che ha realizzato Alessandro sono paesaggi della memoria in cui si combinano elementi legati tanto al passato dell’autore, quanto a quello dei personaggi del suo romanzo. Dal punto di vista del suono abbiamo cercato di rendere percepibile a livello uditivo l’ambiguità della verità e la sua relatività – centrale nel testo di Bufalino – lavorando sull’integrazione tra suoni distorti e suoni realistici, registrati in presa diretta.

È stato molto divertente assistere allo spettacolo e vedere come il pubblico a un certo punto abbia avuto difficoltà a capire quali suoni fossero veri e quali no, specie per quello che concerne i suoni naturali… la messa in dubbio della verità sonora, insomma!

  • Torniamo alla prima domanda ma con una piccola modifica: cosa vuole raccontarci di se stessa Giulia Randazzo attraverso il suo spettacolo?

Come ho accennato, sono legata allo scrittore di Comiso da ragioni personali e affettive. L’incontro con questo autore ha coinciso per me con l’incontro con un professore che ha segnato profondamente la mia vita personale e artistica e che amo definire “il mio maestro”, nonostante non sia un teatrante. Mi diceva sempre: “Giulietta, se vuoi imparare davvero a scrivere devi leggere Gesualdo Bufalino!”. E così feci… per obbedienza, per affetto. Chissà. A dire il vero, non ho mai imparato a scrivere, ma conservo un ricordo meraviglioso di quelle letture e di quegli anni. Le Menzogne della Notte era il suo romanzo bufaliniano d’elezione e me lo fece amare profondamente.

Forse con questo titolo ho voluto raccontare qualcosa del nostro rapporto, del nostro amore per la ricerca sincera e appassionata della verità.

Le nostre strade si sono separate poco dopo: lui oggi continua a ricercarla nella sua attività accademica; io mi ostino a farlo sulle tavole del palcoscenico, tra la polvere e i testi, insieme a delle creature meravigliose chiamate “attori”.

Credo che il mio prof. non sia mai stato troppo felice di questo… forse avrebbe preferito vedermi in cattedra.

Invece il prof. sicuramente saprà apprezzare la scelta, perché non c’è niente di più bello e prezioso che porgere le ali ai propri alunni e aiutarli a riconoscere la propria strada.

Nelle menzogne di questa anomala notte bufaliniana, si porgono alla coscienza dello spettatore le domande di sempre con la stessa intensità di sempre: sulla vita e sull’uso che ciascuno di noi ne ha fatto quando ormai non si ha più la possibilità di modificare nulla, e sul tempo, nella sua specialissima caratteristica di farsi breve o eterno a seconda delle situazioni e delle percezioni soggettive. Non si finirà mai di tessere meravigliosi orditi sui grandi misteri che l’uomo è tenuto, suo malgrado, a guardare dritto negli occhi.

A noi due

ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino

drammaturgia e regia Giulia Randazzo

scene e costumi Giulia Bellé

musiche originali e sound design Alessandro Librio

con Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia

e con Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano

luci Antonio Sposito

fonica Danilo Pasca

direttore di scena Sergio Beghi

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“Viva la vida”spettacolo su Frida Kahlo

L’anima prigioniera di Frida. ‘Viva la vida’, con Pamela Villoresi, al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-03-2020)

Teatro. Saggistica breve.

Palermo – In questi giorni di confuso smarrimento, di attesa, di rabbia, di impotenza, il Teatro Biondo ha aperto per tre pomeriggi (dal 6 all’8 marzo) il proprio sipario virtuale in sala Strehler proponendo Viva la vida, spettacolo su Frida Kahlo liberamente tratto dall’intenso monologo di Pino Cacucci, che ha definito la pittrice come colei che meglio ha saputo dipingere l’anima profonda e ancestrale del Messico.

Diretto con precisione e grande sensibilità da Gigi De Luca, che ne ha curato anche il progetto e il fedele adattamento, il lavoro, prodotto dal Biondo, riesce a fondere gli ossimori stridenti che hanno caratterizzato l’esistenza di una donna fuori dal comune, innamorata della vita nonostante la presenza di un dolore necessario e perenne.

Inizialmente la voce galleggia nel buio a narrare le proprie origini – quasi una sorta di predestinazione alla complessità – poi la luce incontra e svela il corpo di Frida, ovvero il corpo di una magnifica Pamela Villoresi che indossa immediatamente il personaggio per impossessarsi del suo dolore, della sua voracità e della sua carne.

L’arbusto rampicante trafitto da fiori rossi che si abbarbica sulla poltrona/letto che accoglie il corpo tormentato della donna è il primo timido segnale di una natura che ha prodotto aridità e passioni, ma è anche il simbolo dell’importanza attribuita a radici culturali mai rinnegate e sempre coltivate.

Poi la trama compatta e preziosa della drammaturgia e il sicuro incedere verbale della protagonista accendono l’incanto di uno spettacolo vertiginoso e coinvolgente, in cui la scelta registica di inserire il canto risulta vincente, il canto come compagno/antagonista, perché tutto in questa esistenza martoriata è lotta, contrasto, coesistenza di opposti e bisogno di mescolarne i succhi per trarne nutrimento. Ecco che la struggente voce di Lavinia Mancusi diviene anch’essa corpo vivente, quello di Chavela Vargas, altra mitica figura messicana che accompagnerà Frida nell’ultima parte del suo percorso umano e artistico: “Le due donne si incontrano per caso e si riconoscono”, la bambina malata e la gatta randagia, nella bella definizione della scrittrice Silvana La Spina. Alla parola allora saranno affidati il dolore rabbioso, il ruggito, la stanchezza, l’amore, l’arte; al canto il soffio vitale, anche quando è velato di malinconia, anche quando traveste la sofferenza con i panni colorati dell’allegria.

La Villoresi conduce magistralmente il gioco spietato degli ultimi giorni – quelli del riepilogo, della sintesi, del bilancio, dell’immersione memoriale e della trasfigurazione nel sogno – con azioni minime ma con tutte le modulazioni vocali necessarie a restituire la multiforme esperienza di un’anima inquieta prigioniera di un corpo malato: la scoperta della pittura e delle sue capacità catartiche, l’impegno politico condiviso con il marito due volte sposato, Diego Rivera, muralista illustre e adultero impenitente, amore fatto di tormento e sollievo, amore indispensabile come l’aria, lo strazio degli aborti ripetuti e l’impossibile maternità per un ventre profanato da un’asta metallica nel terribile incidente che, a soli diciotto anni, devastò il fragile corpo già segnato dalla malattia marchiandolo con l’infamia di continui interventi e onnipresenti dolori, il sollievo tratto dall’alcol e dalla morfina, l’interesse per il suo popolo e le sue tradizioni cui si sente legata a doppio filo, l’attrazione per le donne e la complicità tutta femminile che rende unici certi legami, il desiderio sorprendente suscitato in altri uomini e talvolta ricambiato, l’ostinazione alla vita nonostante tutto, l’abitudine alla sofferenza e alle insospettabili risorse che da essa possono scaturire.

Elementi dedotti dalla biografia e dalla pittura si offrono come fertili sollecitazioni per le scelte registiche che agiscono in sinergia con quelle più propriamente tecniche.

Frida Kahlo, La colonna spezzata

Nell’impianto scenografico Maria Teresa D’Alessio accoglie, reinventa e restituisce con grande scrupolo e precisione questi elementi, per cui il grande specchio, che nel lunghissimo periodo dell’immobilità aveva consentito alla donna di ritrarsi o di decorare i busti indossati come una seconda pelle, diviene occasione per una recitazione non convenzionale, con l’attrice seduta di spalle ma perfettamente visibile al pubblico sullo specchio; il celebre dipinto La colonna spezzata detta il tema pittorico che la body painter Veronica Bottigliero riproduce sul corpo nudo dell’attrice – bende bianche che lasciano scoperto il seno – con il valore aggiunto di sapore metaforico delle cicatrici deturpanti che si trasformano in quegli intrichi di foglie e natura lussureggiante tanto cari all’artista. E ancora Le due Frida e Autoritratto come Tehuana guidano le mani esperte di Roberta Di Capua e Rosario Martone nel confezionamento del corpetto ricamato e del manto/copricapo che l’attrice indosserà dopo aver scrollato l’immobilità dal corpo nudo per lasciarsi sedurre da altre movenze e altri stati d’animo.

Anche le luci di Nino Annaloro giocano un ruolo importante nella messa in scena perché occultano e svelano, seguendo il ritmo della narrazione, o aprono squarci onirici, come nella scena bellissima in cui Frida, sulla scia di un fascio di luce che sembra una strada da percorrere con il pensiero, rievoca un’abitudine contratta sin da bambina, quella di disegnare una porta sul vetro appannato e da lì intrecciare dialoghi con un’amica immaginaria eppur presente nelle lunghe giornate di immobilità e solitudine. “A che servono le gambe quando si hanno ali per volare?” I sogni, quelli tossici e maledetti che anticipano la morte o quelli salvifici e forieri di refrigerio, restano l’unico senso da attribuire alla vita, l’unica via di fuga quando tutto ciò che si ha intorno diventa insostenibile.

La pioggia battente che ha battezzato la nascita Frida e la sua crescita, la pioggia sottile che si è fusa tante volte alle sue lacrime, la pioggia violenta che ha flagellato la sua anima in pena, la pioggia tante volte evocata nella narrazione si placa infine in un gocciolare assorto e continuo, lento come la Pelona – la Morte – che finalmente si fa strada a viso scoperto per porre fine al suo capolavoro: averla risparmiata tante volte affinché la vita tanto amata potesse assassinarla lentamente.

Frida Kahlo, Viva la vida

Sulla polpa rossa e succosa delle angurie raffigurate in una natura morta l’artista scriverà poco prima di morire “Viva la vida”, un manifesto artistico, una dichiarazione d’amore, un epitaffio, uno sberleffo al destino idiota.

Appare superfluo sottolineare che uno spettacolo visto su streaming viene mortificato in quella che è la vera essenza del teatro – la percezione con tutto il corpo delle vibrazioni provenienti dal palcoscenico – purché sia chiara “l’eccezionalità” della proposta che in alcun modo deve far sorgere tentazioni future in questa direzione. Il cambio epocale prodotto dalle pay tv nell’universo cinematografico, che ha portato molti illustri studiosi a preconizzare la morte imminente del film fruito in sala, dovrebbe portare ad innalzare barriere protettive verso qualsiasi fenomeno di “disumanizzazione” dell’evento artistico o di desertificazione dei luoghi d’incontro, pena una forma di onanismo culturale dall’orrido aspetto.

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“La creatura del desiderio” di A. Camilleri e G. Dipasquale

Lucidità e delirio di Alma e Oskar. ‘La creatura del desiderio’ di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale al Biondo di Palermo

Saggistica breve. Teatro

@ Agata Motta (30-11-2019)

Palermo – Che il tema affrontato sarà quello del “simulacro”, con tutte le sue implicazioni e i suoi eruditi riferimenti è subito dichiarato nel breve prologo che apre lo spettacolo La creatura del desiderio di Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale, che ne cura anche la regia, in scena alla sala Strehler del Biondo fino al primo dicembre.

Il sorriso sornione del Maestro Camilleri – che ripesca le origini del simulacro nella palinodia scritta da Stesicoro per la bella Elena, per poi transitare su Euripide, Pigmalione, Nikolaj Gogol, Tommaso Landolfi, Gabriele D’Annunzio – sembra apparire per pochi minuti in quel “prenderla da molto lontano”, ma, che si tratterà di una storia tragica e dai risvolti grotteschi, anche questo è subito chiaro. Il sorriso scomparirà prestissimo e quasi ci si dimenticherà che questo lavoro appartenga proprio a lui. Sebbene alla passione che esplode e che brucia, alle vampe amorose che avviluppano senza requie, all’attrazione magnetica esercitata da un corpo femmineo il Nostro abbia dedicato molte pagine, in questo scovare una storia reale ma non troppo nota, in questa documentazione scrupolosa e quasi pignola, in questo indugio voluttuoso sui risvolti patologici del gioco amoroso sembra spirare qualcosa di nuovo e di doloroso, una riflessione filosofica e amara che scavalca un intero secolo per porgere, tra le righe, sollecitazioni attuali e chiavi interpretative per certe ossessioni contemporanee.

Un abito rosso assai poco vedovile e la bellezza straripante di Alma Mahler, dietro la quale persero il senno artisti di sommo valore, come l’Orlando di Ariosto per la bella Angelica, accendono il grigio opaco di una scenografia volutamente neutra ed essenziale, atta ad accogliere la proiezioni di immagini su quinte costituite da morbidi teli. Siamo a Vienna nel 1912. E’ il primo incontro tra la vedova di Mahler e Oskar Kokoschka, l’artista selvaggio e maledetto, impregnato di espressionismo, che tenta di farsi strada con uno stile che irrita la critica e seduce gli esperti.

Lui è giovane e inquieto, lei è più grande e decisamente navigata. La passione immediata è delineata felicemente attraverso il doppio punto di vista dei due protagonisti, prima lui e poi lei, in identiche battute porte con toni ed espressioni diverse. Le lancette di un enorme orologio proiettato sullo sfondo si inseguono velocissime a sottolineare il vortice che afferra sin dall’inizio due esseri accomunati dall’amore per l’arte e dalla sfrenata voglia di ingurgitare tutto il piacere che la vita possa offrire.

Valeria Contadino e David Coco si impossessano subito del ruolo, anzi sono proprio loro, Alma ed Oskar, belli e appassionati, mani che si cercano, corpi che si attraggono come calamite. L’Eros si impossessa di entrambi, ma nell’uomo, che ha trovato la Musa con la quale celebrare un vero e proprio matrimonio artistico (La sposa del vento ne segna l’apice), il sentimento rivendica l’esclusività, l’amore si tinge di sofferenza perché avvelenato da un’insana gelosia che si rivolge persino al marito defunto, al celebre musicista del quale non tollera la memoria nemmeno nelle tristi sembianze di una maschera mortuaria. E non saranno i viaggi o la prossima maternità a placare la sete di possesso totale di Oskar, mentre la natura libera di Alma, non sostenendo più la prigionia fisica ed emotiva in cui si sente relegata, deciderà di sottrarsi ad essa e di rinunciare a quel figlio che avrebbe potuto significare l’avvio di una famiglia “normale”.

Lo smalto iniziale dello spettacolo però non è duraturo, l’adattamento del testo non asseconda le esigenze proprie del linguaggio scenico, per il quale sarebbe stato forse opportuno snellire il periodare fortemente ipotattico che talvolta smorza la fluidità delle battute. Se il testo nel complesso regge, è perché reggono entrambi i protagonisti, che affrontano con grande professionalità e precisione certi passaggi impervi. Nei quadri intermedi, che condurranno al culmine della vicenda amorosa e poi allo snodo dell’abbandono, agiscono anche i personaggi dei servitori di casa Kokoschka, interpretati da Leonardo Marino e Antonella Scornavacca. Essi dovrebbero costituire una sorta di contraltare leggero e malizioso (la lettura delle lettere degli amanti è proposto da lei come intrigante gioco seduttivo) e farsi portavoce dei commenti e dei giudizi del mondo esterno sulla coppia che fa scandalo e suscita invidie, ma una scelta registica discutibile li guida verso interpretazioni un po’ caricaturali che urtano con un contesto che vira vistosamente verso una tragica spannung, accompagnata dalle belle e suggestive musiche di Matteo Musumeci.

Ecco dunque la caduta nell’abisso della guerra, rappresentata in rapidi fotogrammi di truppe al fronte e di scenari bellici, e il risveglio malato di Oskar nella Dresda che accoglierà la messa in scena della follia amorosa, lungamente covata e quindi minuziosamente preparata. Il pittore non potrà più avere la donna amata per sé, ma potrà partorirla in un simulacro perfetto, in una creatura dalle fattezze simili a quelle di Alma, una bambola costruita dalle abili mani dell’artigiana Herminie Moss che seguirà le istruzioni dell’uomo fatte di esaurienti bozzetti ed accuratissime descrizioni. Strano ma vero. La realtà che supera la fantasia.

Valeria Contadino si cala con una duttilità che turba e seduce (nonostante costumi che non aiutano) nelle forme finalmente realizzate del simulacro – un po’ bambola triste, un po’ meccanico congegno per solitari piaceri – mentre David Coco frena la tentazione di abbandonarsi agli eccessi e crea un mix di lucidità e delirio che congiungeranno finalmente l’Eros iniziale all’abbraccio liberatorio di Thanatos, un occhio strizzato a Freud, vicino di casa e di epoca che l’autore non poteva certo far rimanere chiuso in soffitta.

Uno spettacolo certamente ambizioso che convince solo parzialmente, ma del quale si può – o forse si deve – parlare per quell’immediato riferimento a certo frastornante uso del virtuale (diffuso in verità nell’universo maschile ma anche in quello femminile) per approcci sessuali che divengono surrogati di facile consumo dell’incapacità affettiva di intere generazioni e per quell’allarmante equivoco (questo sì soltanto maschile) che porta ad identificare l’amore con il possesso e che conduce all’uccisione del giocattolo sfuggito di mano.

https://www.scriptandbooks.it/2020/01/09/lucidita-e-delirio-di-alma-e-oskar-la-creatura-del-desiderio-di-andrea-camilleri-e-giuseppe-dipasquale-al-biondo-di-palermo/

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La creatura del desiderio

di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale
Regia Giuseppe Dipasquale

Interpreti
Valeria Contadino
David Coco
Leonardo Marino
Antonella Scornavacca

Scene e costumi Erminia Palmieri
Musiche Matteo Musumeci
Movimenti scenici Donatella Capraro

produzione Teatro della città di Catania

“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/

L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/11/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

“Il secondo figlio di Dio” di S. Cristicchi

Agata MOTTA – Il Cristo dell’Amiata (“Il secondo figlio di Dio” di S. Cristicchi al Biondo di Palermo) PDF Stampa E-mail
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Il mestiere del critico

IL CRISTO DELL’AMIATA


Il secondo figlio di Dio con Simone Cristicchi al Teatro Biondo di Palermo

°°°°

Cosa c’era di speciale in David Lazzaretti per attrarre tanta gente disposta a seguirlo e a riconoscere in lui un maestro, quale forza soprannaturale si sprigionava da lui per persuadere umili e potenti della bontà delle sue teorie? E’ questo l’interrogativo che spinge Simone Cristicchi ad indagare sulla vita di un uomo straordinario “giunto all’improvviso a squarciare le tenebre”, ed è un quesito cui l’autore e interprete de Il secondo figlio di Dio, in scena al Biondo di Palermo per la puntuale e generosa regia di Antonio Calenda, si accosta più con la curiosità dell’uomo che dell’artista, tanto da non riuscire a reprimere l’impulso di uscire per pochi minuti dalla rappresentazione e condividere le sue riflessioni con il pubblico.

 

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/11/28/agata-motta-il-cristo-dellamiata/

 

“Appunti per un naufragio”di Davide Enia

Saggistica breve

 

LE STORIE CHE TI VENGONO INCONTRO

Davide Enia a “Una marina di libri”

*

Sì, è vero, Davide Enia nel suo ultimo romanzo Appunti per un naufragio, edito da Sellerio e giunto in libreria lo scorso maggio, ci propone ancora storie di migranti e di sbarchi dopo la sbornia di spettacoli teatrali, seminari, romanzi e documentari sul tema. Sì, è vero, più si parla di qualcosa più l’argomento diventa trito e familiare e si corre il rischio di assuefazione. Sì, è vero, per dar forma e luce e concretezza a certi eventi mancano le parole: esse sguisciano via perché inadatte, talvolta vergognose oppure stanche e usurate. E allora bisogna lavorare di fino per far sì che certe immagini tradotte da parole apparentemente insufficienti rimangano impresse nelle mente come fotogrammi, come moniti, come promesse. E bisogna avere talento perché questo accada, quel talento che, senza mai tradire le aspettative, possiede Davide Enia, al quale niente è impossibile perché lui i miracoli con le parole è  sempre stato capace di compierli.

Questo romanzo, umilmente e giustamente definito “appunti”, non mira ad aggiungere informazioni a un quadro già abbastanza ampio e ricco o a fornire ulteriori dettagli che déstino compassione; l’ambizione sottesa è più alta, è la necessità di fornire e affinare strumenti utili ad affrontare la Storia, questa che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che da decenni ormai non è più soltanto cronaca ma ha cominciato a farsi memoria. La compassione e la pietas sono naturalmente presenti, ma come attitudine, come prerequisito ineludibile in qualunque essere umano. Quella dell’autore, che ha di recente presentato il suo  romanzo a Una marina di libri, l’attesissimo appuntamento palermitano con la piccola e media editoria, non è la saggia acquisizione dello storico o l’urgenza del giornalista – sebbene a tratti si possano attribuire al suo lavoro caratteristiche di entrambe le categorie – la sua è un’esigenza tutta interiore, quasi intima, perché tra le storie dei migranti emerge prepotente e bellissima la propria storia personale, quella del quarantenne Davide che si confronta con i propri affetti reali, con il non detto e con i silenzi che sempre costellano le relazioni familiari, specie quelle più intense e vere.

Così abbiamo da una parte lo sguardo attonito sui salvataggi, con il loro carico di sgomento, fatica, rabbia, sudore, svenimenti, cadaveri galleggianti alla ricerca di un camposanto, gravidanze che sono per lo più il frutto di stupri sistematici e continuativi, dall’altra l’opera indefessa della Guardia Costiera con i recuperi mirabolanti e misericordiosi, l’azione dei volontari che porgono aiuto materiale, frasi di accoglienza, calore umano, e degli stessi isolani che offrono cibo e vestiario, che prendono atto della trasformazione del loro luogo d’appartenenza, prima solo eden turistico e adesso lembo estremo d’Italia con i riflettori puntati addosso a partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013, spartiacque tra un prima (comunque presente e drammatico) e un dopo trasformato in occasione di commemorazione.

Ma tra le pagine, indissolubilmente intrecciate a costituire un unico blocco narrativo, emergono il padre, cardiologo in pensione con l’hobby nascente della fotografia attraverso il quale continuare a posare uno sguardo diagnostico su oggetti e persone; lo zio Beppe, medico anche lui e pertanto terribilmente consapevole dell’avanzata di un linfoma che ne divora le carni ma non la voglia di lottare e Silvia, la paziente compagna che sa sorridere e porgere una carezza mentre solleva gli occhi da una poesia di Rilke, saldo approdo per l’autore che, grato, le dedica il romanzo. E poi, preziosi e levigati dagli anni trascorsi, svettano i ricordi d’infanzia, quelli più limpidi e puri: un padre che insegna a nuotare al proprio fiducioso bambino reprimendo l’impulso di sottrarlo alle bracciate frenetiche e alle sorsate di acqua salata; una zio che scivola tra i sassi dopo aver raccomandato ai piccoli di fare attenzione sul sentiero impervio o che impartisce perle di saggezza come quella relativa al “momento del polpo”, scaturita durante una mitica battuta di caccia alll’animale. Lo zio Beppe spiega al bambino deluso per non essere riuscito ad acchiappare il polpo a lui vicinissimo che “una storia, se vuole, ti viene incontro, e non c’è bisogno di trafiggerla o di scagliarcisi contro”.

Nulla di più illuminante per il bambino inconsapevole Davide che sarebbe diventato scrittore. E gli spiega anche, durante un’epica partita di calcio in cui i piedi goffi e impreparati dello zio castigano quelli generalmente portentosi del nipote, che si può perdere ma non per questo risultare meno uomini.

Chiunque abbia seguito e amato il percorso fertile e trasversale di Davide Enia, fatto di teatro, programmi radio, romanzi, non può non notare un’incrinatura, una ferita aperta, una sofferenza che, se trattenuta, avrebbe potuto implodere e devastare. Si era già notata la stessa crepa in Così in terra, ma qui appare più profonda, perché la realtà  guardata e raccontata rivendica una porzione maggiore di dolore, un pedaggio altissimo da pagare: lo scavo interiore nella propria vita in un momento critico incontra il recupero corale di tante altre storie che cominciano a scorrergli accanto, la commozione e la pietà per i propri morti si sostanziano della commozione e della pietà per altri morti che appartengono a tutti proprio perché non possono essere più restituiti a nessuno.

Così l’arte lo prende ancora per mano e gli indica saggiamente la strada, gli suggerisce di affidare, naufrago anch’egli tra i tanti, la propria frustrazione da testimone impotente alla potenza catartica della scrittura. E come sempre, la scintilla che scocca tra chi scrive e chi legge si accende e brucia e diventa fuoco: gli amici Paola e Melo, proprietari di un b&b e impegnati in prima persona nell’accoglienza, diventano i nostri amici, il tragico dilemma dell’enorme sommozzatore diventa il nostro dilemma, lo strazio del samurai, Comandante della Guardia Costiera che protegge col silenzio la propria famiglia, è lo stesso di quanti, dopo aver visto, non possono più dimenticare o imprimere una direzione “normale” alla propria vita. La sofferenza da stress post-traumatico non dà tregua, l’aver visto non consente la dolcezza dell’oblio. “Se hai davanti tre persone che stanno per annegare e cinque metri più avanti una madre giovanissima con un bambino in braccio, che fai? Verso chi ti dirigi? Puoi solo calcolare, è una questione matematica: tre vite sono più di due”. Questa la scelta lancinante del sub, anzi le scelte, perché situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno. E nessuno vorrebbe trovarsi nei suoi panni.

E allora eccoci al punto iniziale. Si possono leggere statistiche e dossier, si possono vedere quintali di documentari, ma esserci è cosa diversa, esserci comporta l’obbligo di dare un senso nuovo alla propria esistenza, esserci significa semplicemente scegliere tra due reatà confinanti: la vita o la morte. Ogni questione o ogni polemica sui numeri biblici di questi esodi, sulla difficoltà di accogliere dignitosamente chi fugge, sulla possibilità reale di un’integrazione lavorativa si riducono a questo, la scelta tra concedere la vita – e quindi salvare, accogliere, accettare – o girare le spalle ad una morte che riguarda loro, gli altri, quelli dei barconi. “In un universo in cui tutto è sempre stato in movimento, dalle zolle continentali ai pianeti, si possono fermare gli essere umani?” chiede Enia al suo numeroso e attentissimo pubblico, e continua con il mito di Europa, la ragazza fenicia fuggita sul dorso di un toro bianco, un mito che è la nostra origine. “Siamo figli di una traversata in barca” conclude.

Ci sono amarezza, stupore e rabbia in questo romanzo di Enia, tante da spegnergli sul nascere la sorniona ironia che gli avevamo conosciuto negli anni in cui da ragazzo-prodigio sbancava ai botteghini, ma c’è anche la bellezza degli affetti sussurati e riconquistati, del pianto trattenuto a stento, di “parole che aprono spiragli sull’abisso”, di un obbligo morale che si spera possa scuotere l’abitudine al dolore che ormai accomuna buoni e cattivi, indignati e indifferenti.

E allora ci piace scegliere tra le proposte etimologiche suggerite dallo stesso autore per Lampedusa – l’isola che poggia sulla piattaforma africana ma che è Sicilia sotto il profilo amministrativo e culturale – e illuderci che il significato non sia lepas, lo scoglio eroso dalla furia degli elementi che scortica, quanto piuttosto lampas, la fiaccola che risplende nel buio, la luce che sconfigge lo scuro. Lo scuro delle partenze, dei distacchi, degli abbandoni, della morte.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2017/07/01/agata-motta-saggistica-breve-le-storie-che-ti-vengono-incontro-qappunti-per-un-naufragioq-di-d-enia-5/

“Horcynus Orca” di C. Collovà

Il mestiere del critico

 

OCEANO D’ARRIGO

“Horcynus orca” reinventato per il teatro in uno spettacolo-fiume di Claudio Collovà- Di scena al Teatro Biondo di Palermo

di Agata Motta

L’acqua, come elemento di vita e di morte, liquido amniotico che accoglie il feto e massa indistinta che avviluppa cose e persone, l’acqua come l’inizio e la fine dei personaggi, del romanzo, dello spettacolo. Il Teatro Biondo vara con Horcynus Orca – Transito e ricongiungimento (in scena fino al 15 maggio) tratto da Stefano D’Arrigo un progetto ambiziosissimo e lo realizza con un dispendio di forze e di energie che porta all’impeccabile realizzazione, nelle mani cesellatrici e nello sguardo raffinato ed elegante di Claudio Collovà, di uno spettacolo-fiume nel quale immergersi dopo aver rinunciato alla frenesia quotidiana. Chiunque abbia fretta di vedere, di sentire, di capire, chiunque sia avvezzo al consumo di un rito seriale, chiunque non riesca a scollegarsi dagli ultimi post virtuali, dovrebbe rinunciare all’impresa.

(continua su www.inscenaonlineteam.net)

Presentazione “Horcynus Orca” di S. D’Arrigo

Prima della prima

 

IL TEATRO PER STEFANO D’ARRIGO

Al Teatro Biondo di Palermo, Claudio Collovà ‘sfida’ “Horcynus Orca”

di Agata Motta

 

Claudio Collovà ha realizzato con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1919\1992, foto in alto) un progetto a lungo accarezzato e finalmente trasformato in realtà grazie alla produzione del teatro Biondo.

Prima della prima   IL TEATRO PER STEFANO D’ARRIGO Al Teatro Biondo di Palermo, Claudio Collovà ‘sfida’ “Horcynus Orca” di Agata Motta   Claudio Collovà ha realizzato con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1919\1992, foto in alto) un progetto a lungo accarezzato e finalmente trasformato in realtà grazie alla produzione del teatro Biondo. Presentazione “Horcynus Orca” di S. D’Arrigo (continua su inscenaonlineteam.net) » Read more

Presentazione “C’era un piano” di O. Sellerio e N. Vetri; regia G. Borruso

C’E’ PIANO E PIANO

Al Biondo di Palermo, un progetto ideato da Olivia Sellerio, regia di Gigi Borruso

di Agata Motta

Il direttore dello Stabile palermitano, Roberto Alajmo, definisce “sfizioso” il progetto che il Biondo ospiterà dal 13 al 17 aprile alla sala Strehler. Si tratta di C’era un piano, spettacolo nato da un’idea di Olivia Sellerio, che ne ha scritto i testi insieme con Nino Vetri e che è anche l’interprete delle canzoni. Il regista Gigi Borruso (anche in scena con Simona Malato) spiega che il lavoro è cresciuto soprattutto in assetto laboratoriale, per mettere in luce le diverse esigenze dello spettacolo – musica e narrazione – e per armonizzare i due piani della scrittura, quello della Sellerio e quello di Vetri.

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